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8 imperdibili film di quella figata di azienda che è A24

Si può diventare fan di una casa di produzione e distribuzione? 

Quasi sicuramente hai già visto il logo di A24 da qualche parte, o meglio, è quasi impossibile che negli ultimi 10 anni tu non abbia visto il logo di A24 da qualche parte. 

 

Gli amanti del Cinema amano la Settima Arte per mille motivi ed è facile trovare fan di attrici, registi e attori. 

Molto raro invece trovare qualche fan delle case di produzione e distribuzione: avete mai visto in giro qualcuno con una maglietta o una felpa con il logo di Focus Features

O un uomo in coda alle poste con il cappellino di Lionsgate? O magari una signora che fa la spesa al mercato con un sacchetto targato Icon

 

A24 ha il proprio store, dove oltre alle decine di oggetti ispirati ai loro film se ne trovano altrettanti che portano il logo come cappelli, calze, t-shirt, candele, tazze e anche pantaloncini da ginnastica, ma attenzione: le persone li comprano, perché il logo di A24 ormai ha un significato, è carico di senso e simboli, rappresenta non solo l'azienda ma anche una linea editoriale, un pensiero, un'idea.  

 

[Ginger & Rosa: il primo film distribuito da A24]

 

 

Nella filiera produttiva che in qualche anno trasforma un’idea in un film finito sui nostri schermi le case di distribuzione rivestono un ruolo fondamentale, anche se più invisibile agli occhi degli spettatori.  

 

Rispetto all’età d’oro di Hollywood e del suo Studio System con le major, oggi con lo streaming le cose sono cambiate parecchio: le major hanno una propria piattaforma di distribuzione.  

 

Pochi mesi fa sono cambiate delle regole che risalivano al 1948 e i nefasti risultati di questa decisione si vedranno tra qualche mese, ma anche prima dell’emergenza COVID - e a maggior ragione dopo, dato che la pandemia ha funzionato solo come acceleratore di un qualcosa che sarebbe comunque successo - la distribuzione cinematografica è cambiata tanto in poco tempo, contestualmente a una drastica eliminazione del rischio da parte delle major che giocano ormai quasi sempre sul sicuro, spostando produzioni e distribuzioni “meno mainstream” sulle spalle delle compagnie più giovani e dinamiche. 

 

Negli anni '90 ci fu l’exploit di Miramax

Quando ancora sapevamo poco dei nocivi comportamenti di Harvey Weinstein, la sua casa di distribuzione fondata con il fratello rivoluzionava Hollywood, lanciando un certo Quentin Tarantino e portava il nome Miramax a essere chiacchierato anche fuori dall’ambiente.  

 

Ma da una decina d’anni A24 sta facendo qualcosa di più.   

 

[Questo logo era garanzia di qualità. Ora ammettetelo: quando vedete il logo di A24 in un trailer sorridete, vero?]

 

 

Per parlare di A24 dall'inizio bisogna fare un breve viaggio nel tempo: è il 2012 e sull’autostrada italiana A24 tra Teramo e Roma viaggiano i cineasti newyorkesi Daniel Katz, David Fenkel e John Hodges quando al primo viene l’illuminazione. 

 

Daniel Katz: "Ho sempre sognato di avviare un'azienda.

A un certo livello, onestamente, avevo paura di uscire dalla comfort zone e provare a farla funzionare. Ero con un gruppo di amici, eravamo nel sud dell'Italia guidando verso Roma e ho avuto questo momento di lucidità: eravamo sull'autostrada A24.

E in quel momento ho pensato: Ora è il momento di farlo." 

 

John Hodges: "L'ufficio sembrava letteralmente uno di quegli scantinati dove si organizzano le truffe.  

Il fatto che siamo stati in grado di stringere accordi e firmare contratti per i film da quell'ufficio è assurdo."

 

La cosa davvero assurda fu che l’idea funzionava: i tre fondatori conoscevano bene il private equity e la decisione di abbattere del tutto i costi di marketing tradizionale per concentrarsi solo sul digital si rivelò vincente. 

A24 nel tempo è diventata un brand, che comunica un’idea di Cinema; non sono molte le compagnie che riescono in tale impresa. 

 

I ragazzi sapevano muoversi e i primi film a essere distribuiti con il logo A24 furono A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III di Roman Coppola, Ginger & Rosa di Sally Potter, The Spectacular Now di James Ponsoldt e soprattutto Spring Breakers di Harmony Korine e The Bling Ring di Sofia Coppola. 

Questi ultimi due fecero discutere parecchio, per ragioni diverse, ma guardandoli oggi si può già scorgere l’occhio aventiquattresco dietro a queste scelte. 

 

Spring Breakers è forse il film che mette davvero in moto A24: per convincere la produttrice a vendere a loro i diritti di distribuzione, A24 inviò a Megan Ellison un bong a forma di pistola, con inciso il logo del film. 

Risultato?  

Ottennero i diritti, promossero il film con un’immagine su Facebook che mostrava James Franco con le treccine e il resto del cast in stile Ultima Cena, raccolsero quasi un milione di like e misero in moto la campagna promozionale, che portò il film a incassare oltre 30 milioni di dollari.  

 

Ne era costati 5. 

 

 

[L'immagine usata dal reparto marketing di A24 per promuovere Spring Breakers su Facebook]

 

 

Chiudono il secondo anno di vita di A24 Enemy di Denis Villeneuve, Locke di Steven Knight, Under the Skin di Jonathan Glazer e The Rover di David Michôd.

 

Jake Gyllenhaal, Tom Hardy, Scarlett Johansson, Robert Pattinson: quattro super star in quattro film differenti ma simili per dimensioni, messa in scena e uno spiccato interesse per l’indagine dentro di sé.  

 

Denis Villeneuve: "Se non vado errato ero tra i loro primi film, all'epoca erano una compagnia giovane.

Non erano l'azienda che sono oggi. Ma ricordo vividamente che avevano scelto alcuni film specifici, uno dei quali era Under the Skin, di Jonathan Glazer, che è uno dei miei film preferiti degli ultimi 15 o 20 anni...

Quando l'ho visto ho pensato: "Okay, questi ragazzi sanno cosa stanno facendo"."

 

Alex Garland: "Under the Skin è esattamente il tipo di film che non vedresti distribuito da un grande studio." 

 

A24 era già sinonimo di scommesse riuscite, di proposte originali e interessanti, di high concept su cui puntare per raccontare con poco delle storie universali, che tocchino il dentro più che il fuori, dove l’effetto visivo è a favore della narrazione e non ne è il fulcro.  

Una ricerca dunque di chi sia in grado di comunicare in maniera meno convenzionale, meno diretta ma forse proprio per questo più impattante: A24 si è comportata allo stesso modo per la comunicazione dei film che sceglieva di distribuire, perché Spring Breakers fu solo il primo a essere promosso in maniera non convenzionale. 

 

In vista dell'uscita nel 2014 del piccolo horror Tusk, nato da un’idea assurda avuta da Kevin Smith durante il suo podcast, A24 ha collaborato con un rivenditore di cannabis di Los Angeles per creare della marijuana appositamente marchiata per una promozione incrociata. 

 

L’estate precedente alla distribuzione di The Vvitch su Twitter iniziò a twittare Black Phillip, il caprone del primo film di Robert Eggers.  

 

 

 

Poche settimane prima che uscisse Ex Machina, su Instagram e soprattutto su Tinder si poteva trovare l’account di Ava, il personaggio interpretato da Alicia Vikander nel film, che interagiva con la community. 

 

Nicolette Aizenberg: "Sapevamo di avere qualche possibilità al South By Southwest: quella fu la prima volta che Ex Machina venne proiettato per il pubblico statunitense." 

David Fenkel: "E abbiamo fatto questa roba illegale su Tinder, che ci urlava contro.

Continuavano a chiuderci l'account."  

 

Zoe Beyer: "Alicia Vikander penso che l'abbia letto, oppure ha visto la sua foto che veniva usata: la trovai in profondità nelle ricerca immagini di Google, non credo fosse legata alla sua carriera professionale, ma sembrava fantastica.

Il bot ha dirottato la sua immagine e personalità e non gliel'avevamo neanche chiesto.

Ricordo di aver sentito che era davvero sconvolta, qualcuno ha detto: "Da dove vengono quelle immagini?"

E io ero tipo "Google, forse? Non lo so!". 

 

David Fenkel: "Avremmo dovuto licenziare un finto stagista per quell'episodio". 

Daniel Katz: "Lo abbiamo fatto, abbiamo licenziato un finto stagista." 

 

 
 
 
Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da EX MACHINA (@meetava)

 

 

Adottare un approccio al marketing pensato principalmente per i social network sembra oggi una pratica abbastanza comune, ma ai tempi le grandi major non ci pensavamo nemmeno.  

 

"Non sono sicuro che ottengano abbastanza credito, ma Spring Breakers è stato davvero il primo film promosso dai social media", ha detto a Yahoo Gary Faber, co-fondatore di una società di strategie di marketing specializzata in Cinema e teatro.  

"A24 ha trovato un modo per utilizzare i social network per parlare direttamente con i propri clienti nella loro lingua".

 

Oltre a ciò c’era indubbiamente del talento e del coraggio: il primo nel trovare autori e autrici che stavano a tutti gli effetti cercando di fare del Cinema che raccontasse qualcosa di diverso in maniera diversa. 

E conseguentemente il coraggio per decidere di distribuirli, e a un certo punto anche di produrli. 

 

Citando The Vvitch siamo “già” al 2015 e nel frattempo A24 aveva portato nelle sale parecchi altri film, tra cui The Lobster di Yorgos Lanthimos, Amy di Asif Kapadia, i nuovi film di Noah Baumbach e Atom Egoyan e Room di Lenny Abrahamson, che grazie all’Oscar vinto da Brie Larson e gli innumerevoli riconoscimenti in giro per il mondo diventa uno dei film più in vista per A24. 

Il 2015 si chiude con Swiss Army Man, folle film d’esordio per i Daniels che qualche anno dopo avrebbero girato Everything Everywhere All at Once, il film che ha fatto registrare il più alto incasso di sempre per A24. 

 

Tra addetti ai lavori si parla apertamente di Artsploitation, quel momento in cui il film Art House si apre a un pubblico non esclusivamente formato da giornalisti, critici e habitué festivalieri. 

A24 ha dalla sua il cosa, storie riassumibili su un francobollo ma incredibilmente universali e introspettive, e anche il come, una promozione marketing mai vista prima e una grande capacità di credere nelle persone. 

Oltre a un notevole, nonché invidiabile, fiuto per i nuovi cineasti e uno stile di messa in scena che ormai sembra avvicinare generi diversi, particolare cura e attenzione per la confezione (scenografia, fotografia, costumi, color grading, movimenti di macchina) ma altrettanta nel significato che ogni scelta di confezione porta al senso della storia raccontata. 

 

Il 2015 cambia tutto: siamo in estate e per A24 Amy ed Ex Machina stanno andando parecchio bene ai botteghini, mentre Barry Jenkins sta cercando finanziatori per il suo prossimo film: Moonlight

 

[Moonlight ha cambiato tutto per A24]

 

 

Barry Jenkins ha un solo lungometraggio all’attivo e poi solo corti, nonostante il suo debutto con il mumblecoriano Medicine for Melancholy sia andato molto bene il regista è dal 2008 che si dedica ad altro, compresa la pubblicità. 

 

Moonlight però piace molto e sale a bordo la Plan B di Brad Pitt. 

Prima di mettere in moto la produzione entra in gioco anche A24, debuttando nel rutilante mondo della produzione cinematografica. 

 

"Siamo estremamente orgogliosi di essere coinvolti in questo film sincero e rivoluzionario", affermò A24 in una nota, "L'opportunità di lavorare con Barry, uno dei registi contemporanei più talentuosi e audaci, e Plan B, che fornisce costantemente una casa per i registi, è molto eccitante". 

 

Il film si fa sentire nella Award Season e arriva lanciato alla Notte degli Oscar dove ottiene 8 nomination, lo stesso numero di Arrival e dietro solo alle 14 di La La Land, che in quella stagione stava raccogliendo applausi dappertutto. 

 

Il primo film prodotto da A24 diventa il protagonista della serata agli Academy Awards.

Non tanto perché vince 2 Oscar per la Migliore Sceneggiatura non Originale e per il Migliore Attore non Protagonista, ma perché al momento dell’assegnazione della statuetta più ambita, quella per il Miglior Film, succede qualcosa che ci ricordiamo ancora tutti.  

 

Brian Cullinan, uno dei soci di PricewaterhouseCoopers addetti alla consegna delle buste con il nome dei vincitori, twitta una foto di Emma Stone e si distrae, consegna la busta sbagliata a Warren Beatty e il resto lo conosciamo. 

 

 

 

Il vincitore annunciato è sbagliato, vengono chiamati sul palco prima i produttori di La La Land, ebbri di gioia per il 7° Premio Oscar conquistato dal film, ma poi proprio uno di loro viene messo al corrente dell’errore e in mondovisione mostra il contenuto della busta corretta. 

 

Il Miglior Film agli Oscar 2017 è Moonlight

 

Vincere l’Oscar più importante al primo film prodotto non è una cosa che succede tutti i giorni. 

A maggior ragione se è il primo a vincere l’Oscar per il Miglior Film con un cast interamente formato da attori e attrici neri. 

 

Fare la lista della spesa dei titoli di A24 - distribuiti o anche prodotti - dal 2016 in poi sarebbe riduttivo e poco rispettoso; la cosa importante è a mio avviso sottolineare come la compagnia non si sia affatto seduta sul successo e abbia invece continuato la propria linea e la propria visione forte di quel Premio Oscar, che fu vissuto non come punto d’arrivo, ma come la conferma del fatto che le politiche messe in atto fino a quel momento erano evidentemente quelle giuste.  

 

Proseguono dunque le scelte su autori giovani, con un’idea di Cinema forte, personaggi profondi e senza il minimo accenno a sequel, reboot o remake proseguono anche le promozioni non convenzionali e la scelta di continuare a puntare sui nomi su cui si era scommesso.  

 

 

 

 

 

 

 

Il debutto di Robert Eggers è targato A24, che dopo The Vvitch ha prodotto anche The Lighthouse; il debutto di Ari Aster è sempre A24, che dopo Hereditary ha prodotto anche Midsommar e produrrà Disappointment Blvd.

 

Il primo film da regista di Greta Gerwig? Chissà se avremmo avuto lo stesso Lady Bird con un altro studio dietro. 

E ancora i primi film da regista di Jonah Hill e Bo Burnham, i Fratelli Safdie con Good Time e Diamanti grezzi, David Lowery con A Ghost Story e Sir Gawain e il Cavaliere Verde, il Macbeth di Joel Coen, il doppio Ti West del 2022 con X - A Sexy Horror Story e Pearl

 

Ma sto facendo la lista della spesa che avevo appena scritto di voler evitare. 

 

[Ecco il sorriso di cui parlavo prima, ve lo vedo addosso!]

 

 

Prima di lasciarvi agli 8 splendidi film scelti dalla redazione riporto le parole di due stelle del Cinema e di un regista, che spiegano molto meglio di me cosa davvero sia A24. 

 

Daniel Radcliffe, con A24 attore in Swiss Army Man: "Sanno di avere una reputazione e sanno di avere i soldi; molte persone in quella posizione penserebbero "Ok, è ora di diventare più conservatori nelle nostre scelte".

La cosa bella è che invece stanno ancora scegliendo di supportare iniziative strane, diverse e ambiziose, qualcosa di incredibilmente raro nell'industria cinematografica."

 

Robert Pattinson, con A24 attore in The Rover, Good Time, The Lighthouse e High Life: "Sono sicuramente il posto dove stare adesso.

Hanno un'ottima comprensione dello Zeitgeist: tutti parlavano qualche anno fa di come fosse morto il Cinema.

Penso che A24 e aziende del genere siano... sai, la gente vuole andare al cinema. La gente vuole vedere i film; penso che stiano creando una sorta di rinascita nel Cinema.

Stanno facendo desiderare alla gente di andare di nuovo al cinema per vedere questo genere di cose, piuttosto che stare a casa." 

 

Barry Jenkins, con A24 sceneggiatore e regista di Moonlight: "Quello che stanno facendo è così fluido e in forma libera che tra due anni potrebbe essere molto diverso da quello che era due anni fa.

Nessuno avrebbe mai pensato che A24 avrebbe finanziato un film come Moonlight e lo avrebbe distribuito nel modo in cui lo hanno fatto, ottenendo l'Oscar per il Miglior Film e incassando 55 milioni di dollari nel mondo.

Quindi chi può dire che, ad esempio, A24 non diventerà Warner Brothers tra cinque anni?

Ne dubito, perché conosco le persone che ci lavorano, ma... non metto limiti a ciò di cui sono capaci." 

 

Non li mettiamo nemmeno noi, perché anzi abbiamo solo voglia di scoprire con quali altri meravigliosi film A24 ci sorprenderà nei prossimi anni, sperando che la strada intrapresa da questa piccola casa di produzione e distribuzione possa essere un esempio per gli altri. 

 

Perché di Cinema avremo sempre bisogno.

Se il Cinema è quello promosso da aziende come A24, noi appassionati potremo essere solo contenti. 

 

[Introduzione a cura di Teo Youssoufian]

[Copertina a cura di Drenny DeVito]  

 

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Posizione 8

Spring Breakers - Una vacanza da sballo 

di Harmony Korine, 2013 

 

Che Harmony Korine fosse un regista anarchico e fuori dagli schemi era intuibile fin da Gummo, esordio cinematografico tanto rilevante per parte della critica quanto oggetto di discussioni e dubbi per l’altra.

 

Cantore della suburbia statunitense e della deflagrazione del Sogno americano, Korine - coerentemente alla sua idea di Cinema e di mondo - nel 2013 sceglie di mettere in scena il controcampo dei suoi precedenti film: l’edonismo del successo e il trionfo dell’American way of life.

 

La scena d’apertura di Spring Breakers mostra un ammasso di corpi oliati intenti a ballare musica dubstep, dove l’unico obiettivo è divertirsi con ogni mezzo e sostanza possibile in un trionfo dell’immagine - l’aspetto fisico di tutte le persone è da copertina di una rivista o da post su Instagram - dal sapore reaganiano.

Un film moralista? No di certo e nemmeno dallo sguardo scopofilico nei confronti delle quattro protagoniste, di cui tre - genialmente - ex star di Disney Channel (Selena Gomez, Vanessa Hudgens e Ashley Benson).

 

Spring Breakers è un’opera che indaga con tutto il potere del mezzo cinematografico un mondo fatto di superfici, dove ogni aspetto è portato all’eccesso per mascherare - come le ragazze con il passamontagna durante la prima rapina - un vuoto derivato dall’immobilismo della società.

Il film di Korine perciò è il controcampo di Gummo, ma ne è anche la diretta evoluzione.

La ripetizione come un mantra di “Make it, Don’t fake it” nel folle Trash Humpers diventa nel 2013 “Spring Breakers forever, Spring Breakers forever”, due visioni di vita entrambe specchio della natura capitalistica degli Stati Uniti.

 

Non c’è più spazio per persone lacerate da condizioni economico sociali disastrose eppure, una volta terminato il terzo lungometraggio distribuito da A24 nella sua breve storia, la sensazione di sconforto rispetto a ciò che abbiamo visto è ugualmente alta.

 

Essendo Spring Breakers perciò “Un film sulle superfici” come dichiarato dallo stesso Korine, anche l’estetica ricalca quest’idea.

Grazie al fondamentale contributo di Benôit Debie (Climax) alla fotografia, le immagini a cui assistiamo sono un connubio tra l’avant pop sfrenato e il videoclip, il cui successivo Beach Bum ne sarà il naturale figlio.

Le immagini sfrontate che utilizzano la bellezza come autocritica di ciò che mostrano si sposano con il montaggio antinarrativo che libera le protagoniste e - di rimando - il film da ogni banalità narrativa.

 

È difficile trovare perciò una canonica struttura del racconto in Spring Breakers, perché è Korine stesso a rifiutarla, realizzando un’opera respingente e avanguardistica, che riduce il nostro patinato mondo a una canzone di Britney Spears cantata al pianoforte.

 

Disponibile su MUBI

 

[a cura di Emanuele Antolini]

 

Posizione 7

Tusk

di Kevin Smith, 2014 

 

Grottesco, estremo, inquietante.

 

Tusk racconta l'assurda avventura di Wallace Bryton, un podcaster americano giunto in Canada alla ricerca di storie strampalate da raccontare al suo pubblico. 

 

 

In particolare, il film si focalizza sull'incontro inaspettato del protagonista con un interessante vecchio marinaio che nasconde intenzioni piuttosto bizzarre.

 

Kevin Smith costruisce una horror comedy che attinge al monster movie e al sottogenere del body horror, alternando sapientemente l'elemento (dark) humor all'intensità drammatica.

 

Senza scadere nel trash involontario, Tusk prende forma grazie ai suoi dialoghi iper-caricati, alla sensazione di irrealtà scaturita dalla messa in scena e all'elegante linguaggio satirico tipico del regista, espresso - per esempio - nella rappresentazione stereotipata dei canadesi e della percezione dello statunitense medio nei loro confronti.

 

Non solo: il film parla anche di disperazione giocando con l'abusata metafora uomo-animale per ironizzare sullo stesso essere umano, ridicolo e patetico al di là del proprio destino biologico.

 

 

Nel ruolo di uno dei nostri preferiti psicopatici del Cinema, Michael Parks è squisitamente disgustoso, intrigante nella prima parte e terrificante quando si svela la controversa natura del suo personaggio.

 

Altrettanto notevole Justin Long che riesce a spiccare, persino alla presenza di evidenti limiti imposti da esigenze narrative, tanto nell'atteggiamento fastidiosamente infantile quanto nella sofferenza inferta dal suo tragico destino.

 

Haley Joel Osment e Génesis Rodríguez completano timidamente il cast, oscurati anche dall'apparizione di Johnny Depp nei panni di un macchiettistico ex ispettore di polizia québécois, di sua figlia Lily-Rose Depp e della figlia del regista Harley Quinn Smith.

 

Un magico trio tutto in famiglia che verrà poi ripreso dal regista in Yoga Hosers, spin-off di Tusk, e nel successivo Moose Jaws, capitolo finale della sua folle e geniale True North Trilogy.

 

Disponibile a noleggio su Apple TV, Rakuten TV, Google Play e Amazon Store

 

[a cura di Matilde Biagioni

 

Posizione 6

Moonlight

di Barry Jenkins, 2016

 

Opera seconda del regista Barry Jenkins, Moonlight è stato il primo lungometraggio a essere non solo distribuito ma anche prodotto da A24 (insieme a Plan B Entertainment), dando così il via a una serie di scelte produttive vincenti da parte dell’azienda cinematografica.

 

La sceneggiatura non originale di Moonlight, premiata con il Premio Oscar della relativa categoria, venne elaborata da Jenkins a partire da In moonlight black boys look blue, opera teatrale scritta nel 2003 dal drammaturgo Tarell Alvin McCraney che, però, non vide mai la luce di un palcoscenico.

 

Moonlight racconta la storia di Chiron, un bambino afroamericano che vive a Liberty City, uno dei quartieri più malfamati di Miami, dove spaccio e violenza sono all’ordine del giorno.

La sua è un’infanzia difficile: scorre al fianco di una madre tossicodipendente ed emotivamente instabile che si prostituisce per comprarsi la dose quotidiana e viene resa ancora peggiore a causa dalle continue vessazioni da parte dei bulli della scuola.

 

Il lungometraggio è diviso in tre capitoli, ognuno inerente a una fase della vita di Chiron: infanzia, adolescenza, età adulta.

È lo spaccato di una società aggressiva, primitiva, che schiaccia i più sensibili, li induce a nascondersi dietro pesanti maschere e che, peggio, promuove la parte intollerante dei più deboli, in direzione di un modello di vita da carnefice.

Una società che giudica con violenza e umilia chi non si conforma a essa, in un'atmosfera di mascolinità tossica e anaffettività in cui la crescita diventa sinonimo di sopravvivenza.

 

Il tema dell’amore come sentimento tra i più anarchici è fondamentale in Moonlight ed è chiaro il messaggio che, per comprenderlo e accettarlo, è necessario svincolarlo da ogni limite.

Genere, sangue, classe sociale non esistono: va benissimo che persone dello stesso sesso si innamorino, che un ragazzino possa considerare madre una donna che non l’ha partorito - per il semplice motivo che questa gli ha regalato più affetto - o padre un uomo che l’ha ispirato e che gli ha voluto bene.

 

Indimenticabile la prova attoriale di Mahershala Ali che, vestendo i panni di Juan - spacciatore di Liberty City che si affeziona e si prende cura di Chiron - fissa ancora meglio il concetto che, indipendentemente dai legami biologici, l’ingrediente fondamentale perché una famiglia possa essere considerata tale è l’amore al suo interno.

L’interpretazione di Juan valse ad Ali il suo primo Premio Oscar per Miglior attore non protagonista e uno Screen Actors Guild Award.

 

Una pioggia di altri riconoscimenti tra cui l’Oscar per Miglior film e il Golden Globe per Miglior film drammatico compongono il palmarès di questo toccante film da non perdere.

 

Disponibile su Sky e NOW

 

[a cura di Morena Falcone

 

Posizione 5

Il sacrificio del cervo sacro

di Yorgos Lanthimos, 2017 

 

Yorgos Lanthimos è un regista che non ha bisogno di presentazioni: non solo è l’emblema del Nuovo Cinema Greco ma è anche riuscito a traslare la sensibilità di questa corrente oltreoceano, diventando un vero proprio caso internazionale.

 

I suoi sono film che raccontano di un’umanità alienata che si muove all’interno di spazi – solo apparentemente – confortevoli, deformandoli fino a renderli irriconoscibili ed estranianti sia per i personaggi che ci si muovono all’interno che per lo spettatore che si trova ad osservarli.

 

Belle case, famiglie felici ed altri emblemi della media borghesia sono sospesi in spazi indefiniti e futuri prossimi – o in passati claustrofobici come nel caso de La favorita – che contengono in sé i semi della putrefazione, della paura, della morte. 

 

Il sacrificio del cervo sacro non fa eccezione. L’incipit del film è emblema del film stesso: l’austera Stabat Mater di Schubert, l’ambiente asettico di una sala operatoria, un cuore pulsante pronto a essere dissezionato dalle mani di un chirurgo esperto ma che pecca di tracotanza.

 

Nel mito e nella tragedia greca il topos di tracotanza (hybris, ὕβρις) è fondamentale: è un ampliamento della superbia che presuppone una ribellione all’ordine costituito e che viene punito, senza via di scampo.

 

Ed è proprio sull’ineluttabilità della punizione e sull’ereditarietà della colpa – anche questo concetto di matrice classica, basti pensare all’emblematica e tragica sorte della progenie del celebre Edipo – che si basa Il sacrificio del cervo sacro: Steven (Colin Farrell) è un cardiochirurgo molto sicuro di sé, stringe un’amicizia sospetta e morbosa con Martin (Barry Keoghan), il figlio di un uomo che ha ucciso durante un’operazione, mentre era ubriaco.

 

La vendetta di Martin si riversa anche su Anna (Nicole Kidman), la moglie di Steven, e i loro figli e attinge al metafisico; l’elemento sovrannaturale, tanto inquietante quanto ne è ignota la matrice, non funge da ponte con le divinità, quanto più come specchio di un’umanità in decomposizione, mortuaria nelle relazioni, meccanica nell’approcciarsi ai sentimenti.

 

Il lungometraggio rilegge in chiave contemporanea e antropologica l’Ifigenia in Aulide di Euripide: nella tragedia il sacrificio di Ifigenia, figlia di Agamennone, da parte del padre per ingraziarsi gli dei e permettere alla flotta greca di partire verso Troia viene interrotto da una cerva sacrificale inviata dalla dea Artemide.

 

Anche ne Il sacrificio del cervo sacro Steven dovrà compiere un sacrificio, scegliendo un capro espiatorio – un altro elemento ricorrente delle culture antiche – tra i membri della sua famiglia; d’altra parte nel microcosmo ipotizzato da Lanthimos non c’è nessun pantheon a cui rivolgersi per ottenere la grazia. 

 

Disponibile su Sky e NOW

 

[a cura di Lorenza Guerra

 

Posizione 4

Una preghiera prima dell'alba 

di Jean-Stéphane Sauvaire, 2017 

 

La boxe, tra tutti gli sport, ha sempre avuto un rapporto speciale con la Settima Arte.

 

Toro scatenato, Rocky, Million Dollar Baby, The Fighter sono solo alcuni dei titoli che hanno saputo inserire magistralmente la veemenza e la fisicità dello sport da combattimento nelle storie problematiche dei protagonisti.

Tuttavia, nell'immensa mole di pellicole sull'argomento, l'espediente della boxe come mezzo di riscatto ha finito pian piano per appiattirsi fino a diventare, spesso, uno schema ripetitivo, privo di spunti innovativi.

 

Una preghiera prima dell'alba (2017) del regista francese Jean-Stéphane Sauvaire, distribuito da A24, rappresenta in tal senso una ventata d'aria fresca, grazie alla capacità di iscriversi nello sfruttato filone riuscendo a offrire uno sguardo singolare e rivestito da una rinnovata tragicità.

 

Ispirato all'omonimo racconto autobiografico dell'ex boxer inglese Billy Moore, il film vede Joe Cole (attore britannico principalmente noto come uno dei fratelli Shelby in Peaky Blinders) nel ruolo di Billy, pugile tossicodipendente che viene arrestato in Thailandia per possesso di droga e spedito nella prigione di Klong Prem a Bangkok, una delle più rigide del paese.

Da questo momento in poi ci insinuiamo sotto la pelle di Billy, buttato in un ammasso di corpi tatuati, senza privacy, senza un letto, senza nemmeno dei vestiti, eppure totalmente chiuso nella propria testa, isolato dalle barriere culturali e linguistiche.

 

Sauvaire sceglie intelligentemente di non sottotitolare i dialoghi in thailandese - presenti lungo gran parte della pellicola - in modo da restituirci lo stesso senso di straniamento provato da Billy.

Decide, inoltre, di coinvolgere totalmente lo spettatore nell'esperienza preferendo l'immagine alla parola e rimanendo incollato in maniera quasi ossessiva sui corpi, sudati e ammassati, che fungono da vera e propria gabbia per il protagonista.

 

La fisicità del film si declina in movimenti di macchina che sembrano quasi volerci mostrare una coreografia, un movimento costante, sinuoso e violento che - combinato a un eccezionale accompagnamento sonoro - finisce spesso per stremare lo spettatore.

Lo sguardo si apre un po' nel momento in cui Billy decide di reagire con la boxe al malessere fisico e mentale che avrebbe finito per paralizzarlo, allenandosi per partecipare a un torneo di Muay Thai organizzato dalla prigione.

Per le scene di lotta, Sauvaire opta per long takes e camera a spalla, rimanendo così tanto addosso ai lottatori da bloccarci nel ring con loro e farci arrivare stremati alla fine di ogni incontro.

 

Nota di merito per Joe Cole che ci regala qui l'interpretazione migliore della sua carriera fino a questo punto e per la scelta degli interpreti degli altri detenuti, tutti attori non professionisti, lottatori ed ex detenuti che hanno contribuito a conferire a Una preghiera prima dell'alba il senso di realtà, asprezza e voglia di sopravvivenza di cui è ammantato.

 

Disponibile a noleggio su Apple TV, Chili, Rakuten TV e Google Play

 

[a cura di Nadia Pannone]  

 

Posizione 3

Eighth Grade - Terza media

di Bo Burnham, 2018 

 

Se l’adolescenza viene universalmente considerata come l’età più difficile e problematica nel percorso di crescita personale di un essere umano, forse la preadolescenza riesce in qualche modo a superarla. 

 

Si tratta, infatti, di un periodo di vita tanto breve quanto determinante, forse l’unico che si pone come passaggio tra due fasi esistenziali che presentano livelli di sviluppo di mente e corpo completamente diversi, quasi diametralmente opposti.

L’infanzia è appena finita, ma l’adolescenza è ancora lontana dal cominciare. 

 

Di questa dimensione ibrida, precaria e per molti versi brutale parla Eighth Grade - Terza media.

Forse di più di quanto parli della sua protagonista: una dolce, intelligente, discreta e sensibile Kayla, interpretata magnificamente da Elsie Fisher

 

Kayla deve affrontare l’ultimo anno delle scuole medie (l’eighth grade statunitense, appunto) tra una sensazione di inadeguatezza crescente e un disagio che si annida dietro ogni sua relazione con chi la circonda: dal padre ai coetanei (e non), passando per il rapporto con se stessa.

 

L’unica maniera per esprimersi e interagire con l’esterno – anche se spesso indirettamente – è la tecnologia con la quale la sua generazione è nata e cresciuta, che se da una parte rappresenta un ottimo supporto alla comunicazione, dall’altro implica anche un bisogno obbligato di apparire.

 

La pellicola, infatti, affronta in modo molto onesto e intelligente anche il tema della necessità di autoaffermazione in una società nella quale piacersi ed essere se stessi non è sufficiente, ma è determinante anche il giudizio degli altri: Kayla prova a esorcizzare tutto ciò pubblicando online il suo pensiero, con consigli diretti forse più a se stessa che ai potenziali followers. 

 

Non è un caso che dietro alla scrittura e alla regia di questa piccola perla prodotta da A24 ci sia Bo Burnham, il brillante stand-up comedian americano che nel 2021 ha stupito critica e pubblico con il suo Bo Burnham: Inside, un’altra immersione in tutte le idiosincrasie create dalla nostra società e le loro conseguenze psicologiche.

Il regista sforna un esordio coinvolgente, divertente, tenero e delicato al punto giusto, con una scrittura che non sfocia mai nel retorico né nelle raffigurazioni di stereotipi inflazionati dell’immaginario collettivo.

 

Eighth Grade - Terza media si presenta quindi come un sincero omaggio alla Generazione Z da parte di un autore proveniente da quella precedente, come a dimostrare che determinate tematiche e sentimenti non sono caratteristici di una singola epoca, ma – se approcciati con la giusta prospettiva – possono essere letti con uno sguardo universale.

 

Uno sguardo che sembra indicarci che, nonostante tutto, l’unico segreto per superare tutte le fasi di passaggio della nostra vita è una totale accettazione di noi stessi. 

 

Disponibile per l'acquisto su Apple TV, Chili, Google Play e Amazon Store

 

[a cura di Jacopo Troise]

 

Posizione 2

The Souvenir

di Joanna Hogg, 2019  

 

Sul finire del XIX secolo, il filosofo francese Henri Bergson dà alle stampe Materia e memoria, nel quale tenta - in un periodo di generale reazione al positivismo - di oltrepassare il dualismo cartesiano incoronando l'immagine (non cinematografica, ma su questo punto interverrà Gilles Deleuze) come punto di raccordo percettivo di materia e memoria, di mondo e coscienza.

Si tratta di spunti agevolmente applicabili a film contrassegnati da una pertinenza di tipo diegetico, se non - superando proprio la diegesi e adottando la prospettiva deleuziana - a ogni flusso di immagini in movimento.

 

The Souvenir, tuttavia, guadagna una specificità relativa che non rende del tutto vana la ripresa di un simile, consunto discorso: l'opera di Joanna Hogg, prima parte di un dittico che, nelle sue differenze, conviene ricomporre concettualmente, salda difatti una serie di riferimenti già collaudati se presi singolarmente. 

 

Come avrà modo di fare anche in La figlia oscura, la regista britannica - allieva di Derek Jarman, dalla cui sensibilità artistica è stata parzialmente influenzata - aggancia all'autobiografismo un'attenzione metalinguistica invero multiforme: partendo dalla trasfigurazione finzionale del dato personale, diluito (e per questo paradossalmente potenziato) attingendo dai percorsi narrativi storicamente più battuti, Hogg definisce un approccio estetico che - a prescindere dal metacinema smaccato di The Souvenir Part II - incorpora modelli cinematografici e pittorici di rilievo in una maniera non così dissimile, negli intenti, dallo stratificato citazionismo di Barry Lyndon.

 

A muovere la cineasta è uno sguardo decisamente autoriale che lavora sulla costruzione di atmosfere, in un film che altro non è se non l'affermazione di un sentimento, di un sentire.

 

Ambientato negli anni '80, questo si concentra sulla turbolenta vicenda amorosa che avvicina e allontana inesorabilmente Julie, alter ego della regista su cui è posto il focus, e Anthony.

Il contesto è borghese, la repressione palpabile, il geometrismo (filmico e profilmico) soffocante, la palette smorta, l'ellitticità dissipante, e proprio un'idea di dissipazione continua (leggibile alle luce del concetto di dispendio definito da Georges Bataille) attraversa The Souvenir, che guarda al cinema europeo più tedioso, se il tedio è il taedium vitae lucreziano.

 

Con un atteggiamento agilmente congiungibile allo stereotipo della upper class londinese, Hogg rimastica il senso di decadenza di Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti - come nota Peter Bradshaw - ma anche un certo Joseph Losey e quell'intermittenza di vitalismo che contraddistingue complessamente, ad esempio, esiti Rococò come il dipinto di Jean-Honoré Fragonard a cui si deve il titolo.

 

Rimastica e si fa rimasticare da questa materia, ne (ri)plasma l'assetto, fonde questa memoria collettiva mediale, questo già visto, con una memoria autobiografica, rende la dissipazione incessante fulcro (quasi facendo toccare Bergson e Bataille) sia sul versante contenutistico sia su quello formale, immortalando esteticamente un sentire che è, nel presente, tanto un souvenir - e si noti a questo proposito l'uso del voice-over - quanto un déjà vu. 

 

Disponibile in home video

 

[a cura di Mattia Gritti

 

Posizione 1

Saint Maud

di Rose Glass, 2019

 

Dopo una serie di corti, molti dal taglio sperimentale, Rose Glass approda al lungometraggio con Saint Maud, presentato nel 2019 al Toronto Film Festival e arrivato in Italia - con colpevole ritardo, solo nel 2021 - in VOD.

 

Maud è una dimessa infermiera privata che ha appena accettato un nuovo lavoro presso l’abitazione - in una cittadina inglese sul mare - di Amanda Köhl, ex ballerina e coreografa costretta ad abbandonare la sua carriera a causa di un linfoma, e ad avvalersi di cure palliative per un male che l’ha resa cinica e al tempo stesso terrorizzata da ciò che la aspetta dopo la morte imminente e inevitabile.

 

Messa a parte dell’estrema debolezza che si nasconde dietro la facciata sprezzante della donna, Maud, recentemente convertitasi alla religione cattolica e divenuta fedele fervente ai limiti del fanatismo, riveste la sua mansione di un significato più alto e proveniente direttamente da Dio: deve salvare l’anima di Amanda, e farà tutto ciò che è in suo potere perché ciò accada.

 

In questo sorprendente esordio, Glass affronta la tematica religiosa, tanto cara all’horror, dalla peculiare e inquietante prospettiva dell’incontro tra la fede forsennata e il male, delle convinzioni che salvano dal baratro ma si rivelano malriposte, della pericolosa cecità a cui il disperato bisogno di certezze e rassicurazioni può portare.  

 

La cura nella composizione dell’inquadratura, nella strutturazione del profilmico, è ciò che conferisce dinamismo a Saint Maud.

 

Similmente al Cinema di Ari Aster, in cui i movimenti di macchina si riducono all’osso, sono proprio assonanze e contrasti di luce, colore, linee, spazi e i movimenti dei personaggi ad animare la staticità delle inquadrature fisse, in una narrazione in cui il montaggio domina sul movimento, che spesso si limita ad accompagnare, avvolgere, accarezzare quasi, gli elementi in scena.

 

Si pensi al momento in cui vediamo per la prima volta Maud inebriata, “posseduta”, dalla presenza di Dio: in un’inquadratura dove prevale l’obliquità, cifra caratteristica della scena, Maud sale le scale mentre la macchina da presa indietreggia con passo lento e panoramica per seguire l’estasi della donna.  

 

Morfydd Clark - ora sulla cresta dell’onda nel ruolo di Galadriel ne Il signore degli anelli - Gli anelli del potere - incarna con una naturalezza spaventosa la placida fragilità e fermezza di Maud, coadiuvata da una altrettanto convincente Jennifer Ehle nei panni di Amanda.  

 

Una sobria immersione nel trauma e nelle conseguenze che il terrore dell’ignoto provoca nell’essere umano, Saint Maud vi terrà incollati fino all’ultima, terribile, inquadratura.

 

Disponibile su Rakuten TV

 

[a cura di Alessandra Vignocchi

 



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