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Everything Everywhere All at Once - Recensione: Warrior of love

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Il 6 ottobre grazie a iWonder Pictures arriverà nelle sale italiane Everything Everywhere All at Once, film scritto e diretto da Dan Kwan e Daniel Scheinert: la coppia di registi, conosciuta anche come Daniels, ha esordito con Swiss Army Man, divenuto molto velocemente un cult.

 

Con Everything Everywhere All at Once i Daniels hanno conquistato un crescente successo di critica e pubblico.

 

Il film presentato al festival South by Southwest lo scorso marzo ha ammaliato la critica e si è conquistato il titolo di maggiore incasso di A24, superando Diamanti grezzi: con appena 25 milioni di dollari di budget Everything Everywhere All at Once ha incassato 69 milioni in patria e 100 milioni nel resto del mondo. 

 

Il film, un'assurda dramedy sci-fi, in patria è stato al centro di un’accesa bagarre con Doctor Strange nel Multiverso della Follia, uscito nella stessa finestra temporale, con il quale condivide il concept del multiverso ma che è, stando alle parole di Jamie Lee Curtis, decisamente superiore sotto ogni punto di vista alla produzione Marvel Studios.   

 

Quello che ora vi starete chiedendo è: com’è Everything Everywhere All at Once?   

 

[Il trailer internazionale di Everything Everywhere All at Once]

 

 

Parte I: Arti marziali e multiversi   

 

Il mio interesse verso Everything Everywhere All at Once è nato, inizialmente, nel momento in cui ho visto il volto di Michelle Yeoh protagonista.

 

L’attrice si è distinta fin dagli esordi per la sua confidenza con le arti marziali e per la volontà di eseguire in prima persona i propri stunt; nel 1992 recita accanto a Jackie Chan in Police Story 3, celebratissimo capitolo della saga che fa della spettacolarità di stunt e coreografie il suo marchio di fabbrica. 

Alcuni di voi la conosceranno invece per il suo ruolo in film come Il domani non muore mai, La tigre e il dragone, Memorie di una Geisha, La congiura della pietra nera, Crazy & Rich e più recentemente Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli.  

 

Per farla breve: Michelle Yeoh è un’icona che in nessun modo sfigura nel prendere il ruolo di protagonista in un film dove Jamie Lee Curtis, icona assoluta, fa da co-protagonista; se non avete visto nessuno dei suoi fil, rimediate immediatamente.   

 

Everything Everywhere All at Once ha un impianto narrativo basato sull’assurdo e racconta la storia di Evelyn Wang, nevrotica proprietaria di una lavanderia a gettoni alle prese con una figlia dalla quale si sente sempre più distante, un matrimonio al capolinea e una zelante impiegata dell’ufficio delle tasse che sta per distruggere quello che rimane del suo universo.

Evelyn non ha proprio il marchio dell’eroe sulla pelle, tuttavia viene chiamata a salvare il multiverso da una minaccia cosmica.  

 

Everything Everywhere All at Once si presenta al pubblico come una nevrotica dramedy familiare, contaminata in una manciata di minuti da elementi sci-fi che definire sopra le righe sembra alquanto riduttivo. 

 

Il lavoro dei Daniels parte molto da lontano e in un presente del Cinema pop in cui il pubblico sembra aver ben compreso cosa sia un multiverso (o le logiche di mondi paralleli), con Everything Everywhere All at Once dovrà ricredersi, per entrare in una storia la cui prima preoccupazione è quella di proporre un’interpretazione totalmente nuova, piegata all'estro e alla comicità dei due registi e sceneggiatori.    

 

 

 

 

A livello di scrittura e messa in scena i Daniels risolvono l’annoso problema che si pone quando si cerca di costruire le regole di un universo di fantascienza, il famigerato elefante nella stanza che mostra la sua massa in sceneggiature i cui dialoghi, invece di servire la storia e la crescita dei personaggi, si spendono in spiegoni nozionistici estremamente pesanti e con almeno un cul-de-sac che costringerà il film a tradire ogni sua regola con un colpo di scena tanto d’impatto quanto ridicolo.

 

La verve comica del duo riempie i semplicistici elementi fantascientifici e in questo modo si evita l’estenuante e ingarbugliato "fattore Tenet", come le incongruenze piuttosto ridicole che ne conseguono, presentate fin da subito anche dalle recenti uscite del MCU.   

 

Everything Everywhere All at Once è immediato e ogni regola dietro il funzionamento di questo multiverso passa per la messa in scena, per una manciata di regole date alla protagonista tra scene d’azione concitate o dialoghi serrati scanditi dai ritmi leggeri che permeano il film.

 

I protagonisti non hanno doppioni sullo schermo, ma versioni alternative in universi paralleli tra i quali si spaccano contemporaneamente e che vengono organicamente introdotti visivamente e narrativamente con intelligenza ed eleganza, facendo di essi non solo divertenti espedienti utili per il senso leggero - e a volte demenziale - del film ma principalmente per ragioni narrative più profonde ed elaborate di quanto si possa pensare inizialmente.   

 

Prima di addentrarmi in quest’ultima affermazione, molto importante nel dare un quadro completo di Everything Everywhere All at Once, è giusto sottolineare come contrariamente ad altre opere il multiverso non è un bieco elemento di fan service o uno strumento per sciorinare gag e siparietti slegati, quanto un elemento sci-fi che si presta come straordinario concept per parlare dei personaggi, indagare nella loro morale e divertire lo spettatore, implementando idee che sono organiche rispetto a quanto raccontato, piuttosto che corpi estranei slegati dal contesto e dall’incedere della storia.   

 

 

 

 

Il multiverso dà una perfetta giustificazione all’idea che una mite donna di mezza età, come tutti i comprimari presenti nel film, diventi protagonista di un film che non sfigurerebbe in una selezione dedicata al Cinema di arti marziali.   

 

I Daniels hanno anche il merito di mostrare a tutta l’industria come sia possibile realizzare del grandissimo Cinema di intrattenimento dallo spettacolare impatto visivo, condito anche da effetti visivi a soddisfare il concept sci-fi, evitando di emulare o rincorrere le intenzioni dei grandi studios, scrivendo e ideando soluzioni che siano misurate alle possibilità di budget, senza sfigurare e garantendo al pubblico la soddisfazione di aver pagato un biglietto per uno spettacolo sul grande schermo.   

 

Everything Everywhere All at Once sfrutta effetti visivi chiaramente pensati con perizia ancora prima di mettere piede sul set e girare. 

 

Gli effetti speciali e le soluzioni di montaggio, sempre meno utilizzate in favore di enormi green screen e VFX poco rifiniti, sono il valore aggiunto di una coppia di registi che sa benissimo come sfruttare quello che ha senza rimettere all’indulgenza dello spettatore la riuscita del film: quello che si vede sullo schermo è stupendo, di intrattenimento, credibile, scritto e messo in scena per divertire e divertirsi con il pubblico senza chiedergli di chiudere un occhio o innescando il confronto con produzioni più ricche e attrezzate, trovando quindi un proprio carattere o stilema impossibile da scambiare per altro.   

 

 

 

 

Parte II: The tree of life growing in a multiverse in the mood for love  

 

Quello che sorprende di Everything Everywhere All at Once è quanto riesca a stordire lo spettatore, lasciandolo dopo i titoli di coda preda di una sindrome bipolare: si ride moltissimo, ma ci si commuove moltissimo e si spende il tragitto verso casa preda di strani postumi emotivi.

Si riflette sulla propria vita, sulle strade prese o da prendere, su quanto sia importante esercitare l’amore in ogni sua forma, per una persona o per un figlio, e ovviamente ci si scopre a ridacchiare pensando alle trovate umoristiche del film.   

 

I Daniels hanno seguito quella che a mio avviso è una ricerca cinematografica infinitamente più gratificante, affascinante e artisticamente complessa rispetto al mezzo. 

Per me un regista sarà sempre più interessante quando gratifica la propria arte e quella cinematografica, in quanto arte pop figlia anche di Georges Méliès, massimizzando il proprio estro e le possibilità date dal mezzo per far riflettere e commuovere il pubblico con la fantasia, l’invenzione, l’avventura, i sogni e i mondi immaginifici. 

 

Perché Everything Everywhere All at Once, dietro la comicità demenziale a volte triviale e dissacrante, dietro il Cinema di arti marziali di Hong Kong e dietro gli elementi sci-fi, nasconde la volontà di affrontare un dramma familiare attraverso il genere, costruendo con questo una metafora di grande intrattenimento e sostanzialmente piantando nello spettatore, con un preciso colpo al plesso solare, il germe di una storia accorata e commovente che sboccerà in lui quando meno se lo aspetta.   

 

Per i Daniels il multiverso diventa quindi un meraviglioso espediente per sfruttare la logica di The tree of life: parlare del microcosmo familiare attraverso un macrocosmo che è l’universo, raccontarci dell'amore, dei conflitti e delle incomprensioni generazionali, delle scelte, dei rimpianti e dell'abbandono.   

 

Everything Everywhere All at Once ci trasporta in un viaggio attraverso le realtà di Evelyn, un universo personale nel quale i suoi protagonisti e le loro storie sono il cosmo da salvare, il caos nel quale portare equilibrio.   

Per fare ciò i Daniels diventano citazionisti, mettendo a frutto la loro inventiva per rielaborare i frammenti del loro cuore cinefilo, parlando allo spettatore non attraverso una pigra riproposizione, ma profondendo un valore emotivo e un senso narrativo alla citazione.

 

Everything Everywhere All at Once diventa parodia di un film Pixar mescolando comicità, morale e, inaspettatamente, una barriera linguistica parte dello specchio dello spaccato culturale raccontato.

 

Quando invece serve grazia e garbo, ci trasporta in una realtà dove il Cinema è la vita e l’amore è quello di Wong Kar-wai, gli stilemi visivi e narrativi del regista diventano il linguaggio romantico del film (il marito di Evelyn è interpretato da Ke Huy Quan, assistente alla regia di Wong Kar-wai in 2046). 

 

Everything Everywhere All at Once viaggia tra i multiversi per scardinare anche il cliché che ci si aspetterebbe di seguire quando si guarda al film di arti marziali e, seguendo con eleganza la narrazione ben imbastita dal duo, porta una morale e una coscienza superiore allo spettatore, facendo di Evelyn una “warrior of love” (parafrasando la famosa canzone incisa da Arthur Alexander). 

 

 


 

Parte III: Everything Everywhere All at Once  

 

Di questo film potrei lodare ogni singolo membro del cast, a partire dalla voglia di Jamie Lee Curtis di reinventarsi a 63 anni in un film alieno rispetto a qualsiasi percorso cinematografico, passando a Stephanie Hsu, in un ruolo bipolare come tutto il film, a dimostrazione di quanto la sua presenza e prova ne La fantastica signora Maisel non sia solo il frutto di una brillante sceneggiatura e direzione artistica.

Tuttavia mi preme fare una chiosa diversa.

 

Everything Everywhere All at Once è un racconto universale dedicato alla famiglia, alle diramazioni che la nostra vita può prendere, all’amore, a come esercitare gentilezza sia, soprattutto nel conflitto, la nostra unica salvezza.

 

I Daniels scrivono e dirigono un film di intrattenimento che è metronomo del tempo, che non può fare altro che tenere il pubblico avvinto allo schermo del cinema tra lacrime e risate, costringendolo a portare a casa un pezzo di quella folle, inaspettata e meravigliosa esperienza che è Everything Everywhere All at Once, manifesto del miglior Cinema indipendente e non.

 

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