close

NUOVO LIVELLO

COMPLIMENTI !

nuovo livello

Hai raggiunto il livello:

livello

#CineFacts. Curiosità, recensioni, news sul cinema e serie tv

#top8

8 film cyberpunk che ci hanno fatto vedere il futuro

In occasione dell'uscita in sala dei film di Shin'ya Tsukamoto e di Blade Runner, la redazione di CineFacts.it vi consiglia alcune perle di un sottogenere tra i più affascinanti e influenti del Cinema

Parli di Cinema cyberpunk e subito la memoria si accende di neon riflessi su marciapiedi luridi e bagnati di pioggia, di peregrinazioni tra palazzi fatiscenti, vestiti in pelle nera, alla ricerca di una connessione pirata per innescare la rivoluzione umana contro corporation governate dall’algoritmo che tutto vede e controlla. 

 

Radicale per natura e rivoluzionario per vocazione, il cyberpunk nasce dalle ferite aperte della fantascienza tradizionale, con i suoi mondi fantastici e ottimisti che, col tempo, si sono progressivamente allontanati dal reale. 

 

Ad aprire il passo furono autori come James Ballard (celebre per Crash e Il condominio), che introdusse nella fantascienza il concetto di "possibilità illimitate" - ovvero la necessità di esplorare il potenziale contenuto nelle infinite configurazioni del presente - e Philip K. Dick, che dimostrò come il genere, spesso relegato al ruolo di romanzetto di consumo, potesse invece farsi profetico: occhio privilegiato sul futuro e sulle sue connessioni con il presente (e il passato).

 

Tanto Ballard e Dick erano influenzati dal surrealismo, dagli allucinogeni e dalle visioni apocalittiche di William Burroughs (il cui contributo al genere è spesso sottovalutato), quanto William Gibson e Bruce Sterling - padri putativi del cyberpunk - furono ispirati dal movimento punk e dalla consapevolezza che la creazione di reti cibernetiche per lo scambio di informazioni avrebbe finito, inevitabilmente, per essere assimilata dal Capitale, alla costante ricerca di un controllo sempre più stringente su individui ridotti a mera forza lavoro, se non a ratti costretti a nascondersi tra le macerie di un incubo distopico. 

 

[Blade Runner è senza dubbio il film più conosciuto tratto da un'opera di Philip F. Dick]

 

 

Coniugando l'urgenza rivoluzionaria e la rottura delle regole del punk con l'estetica futuristica della fantascienza, ancorata però al contesto urbano industriale, Neuromante di William Gibson (pubblicato nel 1984) scardina con violenza il racconto sci-fi tradizionale guardando in maniera creativa alla tenebrosità del genere noir.

 

L'incipit del romanzo di Gibson è entrato nella Storia della letteratura e vale la pena di essere riportato: "Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto." 

 

Parole che generano immagini indelebili, un'immaginazione che è già Cinema, tanto che possiamo trovare più precursori cinematografici del cyberpunk che letterari.

Giusto per fare qualche esempio: in Francia, in piena Nouvelle Vague, Jean-Luc Godard con Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville metteva in scena un'originale commistione tra estetica noir e racconto fantascientifico; Rainer Werner Fassbinder esplorava il legame tra corporation e realtà virtuale nella seminale miniserie Il mondo sul filo (da notare anche il suo ruolo nel tech-noir Kamikaze 1989) e John Carpenter in 1997: Fuga da New York ritraeva un'umanità marginalizzata in un incubo urbano che letteralizzava l'idea di vivere in un grande carcere, sotto l’occhio vigile del panopticon. 

 

Il 1982 è l’anno di nascita del cyberpunk cinematografico, grazie all’adattamento di Ridley Scott del romanzo Gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick. 

 

Blade Runner consolida l’estetica cyberpunk del Cinema a venire: metropoli soffocanti in cui c’è un alto occupato da chi governa il mondo (le corporation), e un basso in cui l’umanità lotta per sopravvivere in un incubo dove la luce del sole è un miraggio e la speranza un’utopia.

Nello stesso anno esce anche Tron di Steven Lisberger, primo vero blockbuster a trattare la realtà virtuale e tra i primi film a fare un uso estensivo della computer graphic. 

 

Sempre nel 1982 esce Burst City di Sogo Ishii, precursore del cyberpunk giapponese: più frenetico, più violento, più sporco, più tutto. 

 

Dallo stesso miasma industriale nasce quell’oggetto filmico ancora inclassificabile che è Tetsuo, esordio nel lungometraggio di Shin'ya Tsukamoto.

 

[Se non conoscete Tetsuo, fatevi un'idea con il trailer]

 

 

Proprio per celebrare il ritorno in sala di 9 film del Maestro giapponese, profeta della carne e del metallo, la redazione di CineFacts ha ancora una volta scavato nei meandri delle reti per consigliarvi alcuni titoli fuori dai “soliti noti”: non troverete Blade Runner, né Terminator o Akira, per non parlare di Matrix; ma se siete appassionati del genere troverete sicuramente in questa Top 8 pane per i vostri denti. 

 

A partire proprio dal 1984, anno di Neuromante e di Decoder, in cui il Cinema cyberpunk incontra la sottocultura underground della Berlino divisa dal Muro. 

Eris Celentano ci parla come sempre di animazione, scegliendo un film a episodi emblematico: Manie-Manie - I racconti del labirinto, diretto a sei mani da Rintaro (Metropolis), Yoshiaki Kawajiri (La città delle bestie incantatrici, Ninja Scroll) e, soprattutto, dal creatore di Akira Katsuhiro Ōtomo, tra le personalità più influenti del cyberpunk in salsa anime.

 

Mattia Gritti sceglie di omaggiare Tsukamoto concentrandosi sul sequel di Tetsuo, Tetsuo II: Body Hammer, in cui il Maestro giapponese allarga l’universo dell’originale, forte di un budget più ampio, mantenendone lo spirito e creando nuove, allucinate soluzioni visive.

 

Pochi penserebbero a una connessione tra il cyberpunk e l’Italia e rimarrebbero sorpresi: non solo a Milano è nata la rivista underground Decoder, edita da Shake e ispirata agli scritti di Sterling, Burroughs e Dick, ma anche la fidata banda di Gabriele Salvatores (Diego Abatantuono, Claudio Bisio, Paolo Rossi, per citarne alcuni) si è cimentata col genere nell’autentico cult Nirvana; Teo Youssoufian lo ritiene un film da riscoprire e noi lo consigliamo a chi ha amato le atmosfere di Strange Days di Kathryn Bigelow.

 

L’intersezione tra tecnologia, virtuale e corporeo non poteva che affascinare un gigante come David Cronenberg, che applica a eXistenZ le ossessioni che già in Videodrome venivano rivolte alla sostituzione del reale da parte dello spettacolo: Matilde Biagioni ci parla di un film inimitabile, alienante e che - come molte opere del Maestro canadese - risulta attualissimo ancora oggi. 

 

[Forse il film più noto di questa nostra Top 8 cyberpunk: eXistenZ]

 

 

Se il 1999 vi fa venire in mente la paura per il Millennium Bug e Matrix, l’instancabile esploratore dei meandri del Cinema di genere Matteo Vergani ha il film per voi: Il tredicesimo piano, sottovalutato tech-noir cyberpunk di Josef Rusnak, con un Vincent D’Onofrio all’epoca nel pieno della sua carriera. Un film che, garantiamo, vi farà venire voglia di noleggiarlo in VHS! 

 

Passato il millennio cambiano le paure e Olivier Assayas le coglie tutte con eleganza nel neo-noir tecnologico Demonlover, in cui Connie Nielsen, nei panni di una spia industriale, scopre che se la realtà virtuale può fare paura, l’uomo rimane la vera minaccia.

Un incubo nei meandri più bui del dark web, un film che è difficile da credere abbia più di vent’anni.

 

Chiude la nostra selezione un film molto attuale e mai distribuito in Italia: Mars Express, film di animazione francese prodotto dallo stesso studio di Persepolis, che fornisce un inedito sguardo europeo su un genere perlopiù associato alle metropoli statunitensi e asiatiche. 

 

Avete voglia di allargare la vostra già sostanziosa watchlist con questi 8 titoli cyberpunk? 

Alla fine di ogni posizione trovate indicazioni su dove recuperare i film, anche quelli più rari. 

 

E se proprio non riuscite a resistere al richiamo del cyberspazio, leggetevi un manuale hacker, indossate il visore per la realtà virtuale e fatevi largo nel pozzo profondo, affascinante e terrificante della Rete.

 

Sicuri di non essere osservati?

 

[introduzione a cura di Marco Lovisato]

___ 

cyberpunk 

Hai aggiunto altri film alla tua lista dopo aver letto questa Top 8? Hai notato che non consigliamo mai sempre i soliti titoli che si trovano ovunque?  

Se ti piace quello che facciamo e il nostro modo di affrontare il Cinema, sostienici entrando tra Gli Amici di CineFacts.it: aiuterai il sito, le pagine social, il podcast e il canale YouTube a crescere e a offrirti sempre più qualità!



Posizione 8

Decoder 

di Muscha, 1984

 

"High Tech, Low Life" 

 

Con questa frase Bruce Sterling - tra i padri fondatori del cyberpunk e presenza fissa su un ipotetico Monte Rushmore del genere - riassumeva l’essenza di un intero movimento, sottolineando il contrasto tra l’utopia promessa dall’avanzamento tecnologico e la dura realtà degli emarginati sociali, esclusi dal banchetto del progresso dagli interessi del Capitale. 

 

Se film come Blade RunnerMatrix hanno saputo rappresentare al meglio l’estetica futurista del cyberpunk grazie ai loro importanti mezzi produttivi, opere meno conosciute come Decoder sono preziose per riconnettersi con lo spirito più autentico, underground e controculturale del movimento - anche se non mancano giacche di pelle, luci al neon e monitor di controllo! 

 

Decoder è un film che guarda alle radici del cyberpunk e in particolare all’influenza seminale degli scritti di William S. Burroughs - in primis la raccolta di saggi The Electronic Revolution, in cui il profeta della Beat Generation riflette sul potere sovversivo della musica, capace di scardinare le convenzioni sociali. 

 

Esattamente ciò che fa il protagonista F. M. (interpretato dal musicista industrial Frank-Martin Strauß), che scopre che sostituire la muzak (ossia quell'inoffensiva musica ambientale usata spesso in spazi pubblici come ad esempio gli ascensori) in una catena di fast food con del sano noise può scatenare rivolte tra gli avventori.

Secondo film di Muscha - al secolo Jürgen Muschalek, filmmaker legato alla scena punk berlinese e purtroppo morto suicida nel 2003 - Decoder è un autentico cult underground, che conserva tuttora l’effetto di un’interruzione pirata delle trasmissioni.

Un po’ come quella, divenuta celebre, che nel 1987 colpì due emittenti televisive di Chicago, la cui programmazione fu brevemente dirottata da un inquietante individuo con una maschera di Max Headroom, altra icona del cyberpunk e protagonista dell’omonima serie TV.  

 

Decoder è impreziosito da diversi cameo di figure centrali della controcultura dell’epoca: non solo lo stesso Burroughs, ma anche il filmmaker Bill Rice, figura chiave del New American Cinema, Christiane Felscherinow (la celeberrima Christiane F. de I ragazzi dello zoo di Berlino) e l’indimenticabile Genesis P-Orridge, membro fondatore dei Throbbing Gristle e dei Psychic TV, che nel film regala una performance da brividi in una scena dal sapore messianico in cui il musicista inglese veste i panni di un predicatore industrial.  

Irreperibile per diverso tempo, Decoder è stato finalmente restaurato nel 2019 dalla label americana Vinegar Syndrome, che ne ha curato un’edizione in Blu-ray ricca di contenuti speciali, tra cui la colonna sonora che vanta la partecipazione di band come Soft Cell, Einstürzende Neubauten e The The

 

Oggetto underground per eccellenza, Decoder incarna con furore anarchico la seconda metà della parola cyberpunk e la sua influenza è arrivata anche in Italia: il film di Muscha ha infatti dato il nome all’omonima rivista dedicata alla controcultura, edita dal 1987 al 1998 dallo storico editore underground milanese Shake, il cui logo riprende proprio il rospo della locandina del film. 

 

Disponibile in home video

 

[a cura di Marco Lovisato]

 

Posizione 7

Manie-Manie - I racconti del labirinto

di Rintarō, Yoshiaki Kawajiri e Katsuhiro Ōtomo, 1987   

 

Una bambina insegue il suo gatto in un bizzarro, desolato e distopico paese delle forse-non-troppo meraviglie, un automobilista professionista spinge sé stesso in una gara futuristica diventando tutt’uno con la sua vettura, un salaryman viene spedito in una visionaria città in costruzione supervisionata da robot per fermare i lavori in corso. 

 

RintarōYoshiaki Kawajiri e Katsuhiro Ōtomo dirigono i tre frammenti del film (rispettivamente Labyrinth, L'uomo che correva e Interrompete i lavori!), tutti rigorosamente gestiti secondo il proprio personalissimo stile e le proprie prospettive, rendendo Manie-Manie un lavoro corale unico, che ricorda vagamente i vecchi futuristici racconti della collana italiana Urania. 

 

Labyrinth si apre con l’Orco, uno dei famosi mostri di Bomarzo, che attraverso la sua inquietante bocca spalancata ci introduce all’avventura.

 

Il corto fa da cornice alle altre due vicende e sembra sia un inno alla fantasia, un invito a perdersi e godersi lo spettacolo, sia una riflessione su come l’essere umano si sia deumanizzato, perdendo di vista tutto – anche la Natura – e che, se si abbandonerà completamente, ciò che avrà sarà innovazione ma al contempo distruzione.  

 

L'uomo che correva è proprio la dimostrazione di quanto detto in precedenza: in un futuro ipertecnologico, dove tutto è possibile, non rimane che stabilire da sé i propri limiti.

 

Il pilota Zack Hugh, pur di vincere tutte le gare, sfrutta i suoi poteri telecinetici per sconfiggere gli avversari e dimostrare di essere imbattibile, il migliore in assoluto, non senza conseguenze devastanti sul suo corpo e sulla sua psiche. 

 

Infine c’è Interrompete i lavori!, con quell’estetica cyberpunk riconoscibile anche nel successivo capolavoro di Katsuhiro Ōtomo: Akira.

 

Nel cortometraggio vi è lo scontro tra uomo e macchina, dove le macchine sono ormai fuori il controllo dell’uomo.

 

In questo caso specifico non c’è una ribellione robot, anzi: questi ultimi lavorano così bene che sembra impossibile, appunto, fermare i lavori da parte di Tsutomu Sugioka; il loro perfezionismo porta piano piano alla distruzione in un luogo in cui anche la Natura non si è lasciata sopraffare dalla dominazione umana.

 

L’uomo, senza lo spazio necessario per sopravvivere né ai primi né alla seconda, si “risveglia”. E sarà proprio il ritorno di un sentimento umano più puro a dare un briciolo di speranza.  

 

Disponibile in home video

 

[a cura di Eris Celentano] 

 

Posizione 6

Tetsuo II: Body Hammer

di Shin'ya Tsukamoto, 1992

 

È quantomeno curioso – per addolcire con un eufemismo – che nell'arco di un settimana d'aprile, con un ritardo ultra-ventennale, le sale italiane abbiano accolto due opere che hanno segnato la Storia del Cinema prendendo le mosse o evocando la Lost Decade, una crisi non solo economica. 

 

A una prima occhiata si tratta di Tetsuo: The Iron Man e di Cure, le folgorazioni con cui Shin'ya Tsukamoto e Kiyoshi Kurosawa hanno dato forma ai manifesti del cyberpunk e del J-Horror. 

Nel caso del primo, peraltro, parlare di un dar forma rischia di tradire un carico sovversivo essenzialmente s-formante, de-formante, capace di ascoltare in termini estetici la marcia del mondo della macchine.

 

Ma se Cure risale al 1997 e dà voce a uno Zeitgeist più maturo, Tetsuo nel 1989 non punta in maniera diretta verso gli stessi nodi. 

Se questo accade con maggior evidenza in Tsukamoto, è semmai nel secondo pannello di un trittico innalzato sull'altare della mutazione oltre-umana. 

 

Nel 1992, quando il Giappone ha ormai contezza del collasso, fa la sua comparsa Tetsuo II: Body Hammer, passato in sordina forse perché reputato, non così a torto, meno radicale del predecessore. 

In effetti la de-formazione cede il passo almeno a un primo dispositivo retorico: al bianco e nero che tutto intrecciava subentrano dei cromatismi che proliferano nell'incontro-scontro tra toni caldi e toni freddi. 

 

Inoltre, se la sovversione de-formante traeva origine dall'intuizione fondamentale di Tetsuo, ossia dal coglimento del carattere desiderante della tecnica moderna, afferrata in quanto lavoro sui e dei corpi, è difficile ignorare come in Tetsuo II tale coalescenza sembri perdere terreno, non configurandosi in chiave direttamente sessuale.

 

Nel secondo pannello guadagna infatti il proscenio l'odissea dell'impiegato protagonista, col suo corpo e la sua famiglia doppiamente in crisi.

Tra quali forze è preso questo salaryman qualunque?

Tra il blu e il rosso, come fossimo nelle rime di Petrarca: il blu di una Tokyo che torreggia iperuranicamente quanto la finanza incorporea a cui allude, scissa rispetto all'economia reale, e il rosso della fabbrica, luogo di origine del lavoro capitalistico e del connaturato disciplinamento del corpo. 

È precisamente questo l'incontro-scontro (di desideri sublimati nei colori) che si gioca nella (nuova) carne. 

 

È questa – cioè – la divisione (krisis) su cui Tsukamoto, trasfigurando il decennio perduto, impianta un discorso estetico comunque radicale. 

 

Disponibile su Raro Video

 

[a cura di Mattia Gritti] 

 

Posizione 5

Nirvana

di Gabriele Salvatores, 1997 

 

Nirvana è una delle dimostrazioni della libertà artistica garantita dalla vittoria di un Premio Oscar. 

 

Dopo la "quadrilogia della fuga" e una capatina in Sicilia, Gabriele Salvatores decise di affrontare di petto un genere che il Cinema italiano aveva per vari motivi sempre snobbato e in ogni caso abbandonato da più di trent'anni: la fantascienza.

L'Oscar vinto nel 1992 con Mediterraneo gli garantiva la possibilità di scegliere il progetto che più preferiva e la gestazione del film fu lunghissima, dato che passarono 4 anni tra Sud e questo esperimento, girato in 4 mesi durante l'estate 1996 a Milano e uscito in sala solo il gennaio successivo. 

 

Il film ci proietta in un futuro prossimo tra tentacolari megalopoli, identità frammentate e realtà virtuale, che all'epoca era una novità affascinante e misteriosa. 

 

Jimi (Christopher Lambert) è un programmatore che scopre che il personaggio principale del suo nuovo videogioco ha acquisito coscienza di sé a causa di un virus: Solo (Diego Abatantuono) chiede di essere cancellato, ma per esaudire il suo desiderio Jimi dovrà entrare nei server della sua stessa compagnia, affrontando un faticoso viaggio fisico e mentale.  

Oltre ai citati il film vede la presenza di Emmanuelle Seigner, Stefania Rocca e quella che si può considerare una buona parte della "cricca di Salvatores", un manipolo di interpreti perlopiù meneghini formato da Gigio Alberti, Claudio Bisio, Antonio Catania, Silvio Orlando, Ugo Conti, Paolo Rossi, Sergio Rubini, Amanda Sandrelli e Bebo Storti. 

Senza dimenticare un'irriconoscibile Luisa Corna nei panni della Dea Kali (sic). 

 

L’intreccio tra biologico e bionico e tra realtà e simulazione è il cuore di Nirvana: Salvatores gioca con ambientazioni post-urbane, colori saturi, suoni disturbanti e spazi labirintici, dando vita a un mondo inquietante e affascinante che ricorda inevitabilmente Blade Runner ma accentua le influenze orientali già presenti nel film di Scott; come nei migliori noir metropolitani i luoghi del film sono un crocevia di culture, idiomi e contraddizioni in cui convivono suggestioni indiane e napoletane ricoperte da uno spesso strato di cyberpunk. 

La narrazione a mio avviso risulta a volte confusa e il ritmo non è sempre costante, ma è innegabile il fascino che il film è in grado di trasmettere grazie a un'estetica curata e alla riflessione sull’identità nell’era digitale, un discorso che anche Hollywood avrebbe affrontato davvero solo a partire da un paio d'anni dopo, con Matrix

 

Con Nirvana Salvatores riesce a nascondere un’intensa riflessione sull’umanità dietro le pieghe del film di genere, riempiendolo di un’umanità fragile e solitaria, alla ricerca di un significato in un mondo dominato dalla tecnologia. 

Tra Philip K. Dick e Strange Days, William Gibson e Tron, non si tratta di un film perfetto né di un film che ha cambiato la Storia del Cinema, ma senza dubbio rimane una perla italiana in un genere che il nostro paese non ha mai davvero preso in considerazione, che diventa un unicum del Cinema italiano se si parla strettamente di cyberpunk. 

 

Anche solo per questo motivo Nirvana e Salvatores meritano il nostro applauso. 

 

Disponibile in home video

 

[a cura di Teo Youssoufian] 

 

Posizione 4

eXistenZ

di David Cronenberg, 1999

 

La game designer Allegra Geller (Jennifer Jason Leigh) inventa un gioco di realtà virtuale basato sull'utilizzo di pod, dispositivi organici collegati alle spine dorsali degli utenti - dunque al sistema nervoso centrale - attraverso porte neurali biologiche. 

 

Durante un playtest, la donna subisce un attentato e viene aiutata a fuggire da Ted (Jude Law), un semplice apprendista dell'azienda videoludica Antenna Research che non ha mai sperimentato l'utilizzo dei pod per l'accesso alla realtà virtuale. 

Convinto di doverla proteggere, Ted decide di farsi installare una bio-porta per esplorare insieme ad Allegra il suo gioco e provare a preservarne il funzionamento. 

 

Nel contesto di una carriera già ampiamente messa a fuoco, David Cronenberg dà alla luce la sua ennesima opera ribelle e indisciplinata: eXistenZ, film del 1999 premiato al Festival del Cinema di Berlino con l'Orso d'argento per l'eccezionale contributo artistico, al cui centro si impone il viaggio assurdo di due esseri umani tra il reale e il virtuale.

 

L'intero universo di eXistenZ regge sulla fragilità dell'uomo rispetto alle forme di esistenza possibili in un futuro in cui la tecnologia immersiva è ormai definitivamente alterazione della realtà. 

Un sistema di manipolazione virtuale gestito da aziende interessate al profitto che continuano a finanziare l'ossessiva integrazione tra l'uomo e la macchina contribuendo a una graduale disumanizzazione delle persone.

 

Cronenberg costruisce un cyberpunk che per certi versi possiamo definire atipico, cioè in grado di sostituire alcuni degli elementi caratteristici del genere con intuizione che fanno parte della sua particolare cifra stilistica.

 

Non esiste un'estetica high-tech in eXistenZ: gli oggetti della tecnologia sono veri e propri esseri viventi, organismi carnosi che invece di potenziare il corpo dell'utente lo trasformando biologicamente, deformando persino la sua dimensione sessuale. 

Il cyberspazio di Cronenberg è contestualizzato alla riflessione sull'effetto reality che, negli anni di uscita del film, cominciava a essere un tema di grande interesse. 

Le realtà simulate del regista sono infatti luoghi fisici in cui la materia è tangibile, sono ambienti in cui non sembra esistere la sospensione della realtà.

 

In un'atmosfera di decadenza urbana, eXistenZ è anche un film di delirio e paranoia che fa sprofondare i suoi protagonisti nell'incapacità di separare due realtà incompatibli.

eXistenZ è senza dubbio uno dei migliori cyberpunk mai realizzati che ancora oggi costringe lo spettatore a una riflessione sul nostro ruolo all'interno di società ipertecnologiche. 

 

Un cyberpunk che inserisce l'alienazione delle distopie tipiche del genere e la conseguente disgregazione identitaria dell'essere umano in un'ottica biotecnologica, organica e spaventosamente concreta.

 

Disponibile in home video

 

[a cura di Matilde Biagioni] 

 

Posizione 3

Il tredicesimo piano

di Josef Rusnak, 1999 

 

Curiosa annata il 1999.

 

Curiosa e decisamente gloriosa, soprattutto per gli accoliti del cyberpunk.

Da una parte un titolone come Matrix, capace di squarciare il velo della modernità per trascinarci di peso attraverso quel post dal quale tutto sarebbe (re)iniziato.

Dall’altra, invece, un titolino come Il tredicesimo piano, con un piede ben piantato in una classicheggiante concezione di futuribilità ancora squisitamente analogica ma, al contempo, con uno scarpone già pronto a battere gli ancora inesplorati terreni di una digital culture di cui proprio le sorelle Wachowski si sarebbero magistralmente rivelate lungimiranti apripista. 

 

Davvero strano pensare che, in un qualche multiverso parallelo nel quale le toste ragazze di Chicago avessero scelto un sentiero alternativo a quello che le ha infine condotte a imbracciare una macchina da presa, probabilmente i semi della visionaria e avanguardistica Ipotesi della Simulazione profetizzata dalle sacre pagine di Philip K. Dick e William Gibson sarebbero probabilmente stati raccolti, piantanti e opportunamente filmati - con l’assoluto privilegio dell’esclusività - proprio dal caro vecchio Josef Rusnak

 

Si sa che nel Cinema, così come nella vita, il destino si rivela spesso assai beffardo.

Un destino dimostratosi decisamente ingrato nei confronti di un racconto a dire il vero assai intrigante che vede l’aitante programmatore informatico John Ferguson (Craig Bierko) costretto a immergersi nella realtà virtuale da lui stesso co-creata - ispirata nientemeno che al ruggente immaginario della Los Angeles di fine anni ’30 - con l’obiettivo di far luce sulla misteriosa morte dell’amico e collega Hannon Fuller (Armin Mueller-Stahl).

Una tragica quanto inconcepibile dipartita avvenuta - in differita e per procura - proprio all’interno di questo universo simulato, nel quale gli avatar e i benamati NPC, esattamente come nell’avveniristico Nirvana di Gabriele Salvatores, paiono avere coscienza di sé ma non della finzione che gli circonda.  

 

Se riuscissimo a creare una simulazione talmente avanzata da risultare del tutto indistinguibile dalla realtà, allora come potremmo affermare con assoluta certezza di non vivere noi stessi in una tale fittizia condizione?

Ben quattro anni prima che il visionario Nick Bostrom sollevasse la spinosa questione fra i polverosi scranni universitari, il buon Rusnak aveva dunque già tentato di fornire una coraggiosa filmica risposta con Il tredicesimo piano; confezionando un’opera fortemente debitrice nei confronti di quel video(ludico) immaginario pseudo-telematico - e forse anche un tantino ingenuo - plasmato a suon di coloratissimi poligoni dal tosto Brett Leonard con Il tagliaerbe e, ancora prima, dal seminale Tron di Steven Lisberger. 

 

Se ciò tuttavia non bastasse ancora a rendere un titolo del genere meritevole di (ri)visione e (ri)scoperta, allora forse servirebbe segnalare la presenza di un giovanissimo Vincent D’Onofrio, che giusto qualche mese prima di prender parte alle oniriche scorribande da sciroccato serial killer nel lisergico The Cell di Tarsem Singh, si ritrovava già qui a fare i conti con quel lynchano e potenzialmente pericoloso Labirinto della Mente di cui lo scalmanato Robert Rossen ci avrebbe di lì a pochissimo (ri)parlato volentieri. 

 

Disponibile a noleggio su Prime Video e AppleTV

 

[a cura di Matteo Vergani]

 

Posizione 2

Demonlover

di Olivier Assayas, 2002

 

Una delle componenti caratteristiche della fiction cyberpunk è l'elemento tech-noir - rivisitazione fantascientifica del noir classico, in cui la distopia tecnologica si mescola al crime più dark, condito da paranoie cospirative e spionaggio industriale. 

 

Tale pastiche postmodernista non poteva che affascinare un autore coraggioso come il francese Olivier Assayas, che in Demonlover crea un racconto che entra in dialogo con la New French Extremity, corrente dell’horror francese di inizio millennio caratterizzata dall'estrema violenza e dal contenuto disturbante (cito a mero esempio Martyrs di Pascal Laugier e Alta tensione di Alexandre Aja). 

In Demonlover, però, la violenza è tanto più disturbante in quanto spesso solo suggerita.

Protagonista del film è Diane (Connie Nielsen), giovane manager della francese Volf Corporation, alle prese con le negoziazioni per l’acquisizione dei diritti di uno studio di animazione giapponese specializzato nella creazione di hentai in 3D (stile di anime di contenuto pornografico).

Mentre Diane fa il doppio gioco come spia industriale per la concorrente di Volf, nell'affare entra prepotentemente la Demonlover, compagnia americana che agisce come copertura per il sito di torture sessuali trasmesse in diretta Hellfire.

Una rete di intrighi e tradimenti porterà Diane a sprofondare in una sorta di tana del Bianconiglio virtuale, costringendola a confrontarsi con la vera natura di un’industria che concepisce i corpi come avatar e il dolore come spettacolo.

Glaciale e misurato nella sua perversa eroticità, Demonlover è un film che riflette lucidamente sulla morbosa fascinazione umana per la violenza e sul modo in cui la tecnologia viene impiegata per controllare gli individui, riducendoli a marionette in un teatro di corpi e reti cibernetiche.

 

Fine osservatore del Cinema come industria dell’immagine (si veda a proposito Irma Vep), Assayas esplora in Demonlover temi già cari al filosofo Jean Baudrillard, come ad esempio il modo in cui la rappresentazione virtuale della realtà finisca, nell'epoca della spettacolo e dei simulacri, per sostituirsi ad essa.

Assayas trova nella letteratura cyberpunk, e in particolare nell'opera di William Gibson - con la sua ossessione per lo scontro tra corporation che finisce per ridurre l'individuo a cavia da laboratorio - un territorio fertile per esplorare in pellicola le proprire inquietudini sul presente. 

Thriller in cui il brivido nasce più dalla tensione del dialogo e dalla presenza tangibile e opprimente del Male, Demonlover può contare su un cast femminile d’eccezione: accanto a Connie Nielsen, infatti, spiccano due regine del Cinema indipendente come Gina Gershon e Chloë Sevigny.

 

Accompagnato dalle musiche dissonanti e ipnotiche dei Sonic Youth, scritte appositamente per il film, Demonlover è un viaggio profetico nel pozzo infinito del dark web e delle sue più inquietanti possibilità - un viaggio nel quale non importa quanto si entri "puliti", perché se ne esce inevitabilmente sporchi.

L'indimenticabile finale rimane tra i più terrificanti del Cinema contemporaneo e dimostra come Assayas non abbia bisogno di ricorrere a truculenti effetti gore per instillare paura; quello che ci lascia Demonlover è un terrore cieco e opprimente, che si prova quando ci si rende conto che l’ignoto è più reale e tangibile di quanto si voglia ammettere.

 

Dista solo un paio di clic.

 

Disponibile a noleggio su Prime Video

 

[a cura di Marco Lovisato]

 

Posizione 1

Mars Express

di Jérémie Périn, 2023  

 

La scuola è quella del Cinema d’animazione tradizionale francese da cui provengono i grandi film di René Laloux (Il pianeta selvaggio); lo studio che produce invece è il Je Suis Bien Content di Persepolis; i riferimenti cinefili e dell’immaginario visivo infine rispondono ai nomi di Blade Runner, Terminator e Ghost in the Shell.  

 

Non poteva che essere dunque un grande film Mars Express di Jérémie Périn, noir cyberpunk presentato in vari festival europei ma, purtroppo, ancora inedito in Italia.

 

 

Siamo nel 2200, in un’epoca in cui la linea che demarca cosa è umano e cosa no è stata superata sulla destra. 

 

Un’investigatrice privata, tale Aline Ruby, è alla ricerca di una studentessa accusata di aver manomesso un robot provocando un'escalation di crimini di tutto rispetto.

 

Il compito in apparenza semplice si rivela per Aline Ruby il passepartout per accedere a un sottobosco popolato da personaggi dalla morale dubbia e dalle intenzioni quasi mai sincere.

 

L’indagine alla base di Mars Express dà modo a Jérémie Périn di proiettare le ansie contemporanee di un mondo in cui il vero e il falso non hanno più un significato ben preciso, con la conseguenza che le immagini che vediamo possono essere riprodotte e manovrate a seconda dei propri scopi. 

 

Il futuro immaginato (o è già in atto?) in Mars Express è quasi del tutto figlio di una virtualizzazione sistemica di ogni elemento che conosciamo, in modo tale che anche la nostra dimensione esistenziale corrisponderà a un dato semplicemente algoritmico.

 

Le ombre, perciò, come in ogni noir che si rispetti, sono la cifra morale dei personaggi a cui però sono affiancati bagliori di luce che non sempre riflettono la natura umana, bensì quella dell’intelligenza artificiale.

 

 

Anche perché a provocare l’escalation di eventi del film è la sete di denaro di chi è al vertice del potere: questo, d’altronde, è più umano che mai.

  

Disponibile in home video

 

[a cura di Emanuele Antolini]

 



Chi lo ha scritto

TI POTREBBERO INTERESSARE ANCHE

Top8

Top8

Top8

Lascia un commento