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Videodrome: Eros e Thanatos tra filosofia e visceralità

Cult anni ’80, brillante e di cattivo gusto contemporaneamente, Videodrome è profondamente ancorato alla nostra realtà, profondamente centrato sull’ontologia della nostra percezione

Videodrome, film del 1983 scritto e diretto da David Cronenberg, rappresenta un antesignano di tutto il grande movimento post-human degli anni '90, nonché un punto di congiunzione tra media di massa passati (la televisione) e nuove tecnologie dell’informazione (Internet), tra una percezione sociale della realtà e il nichilismo di una società illusoria, tra la propaganda d’informazione e il potere biopolitico di controllo.

 

Nel Cinema di Cronenberg il corpo rappresenta sempre un’urgenza, qualcosa da analizzare non nella sua ideologia ma nella sua materialità più profonda (seppur sempre avvezzo ad inserire tesi filosofiche nei suoi prodotti).

 

Ecco che i film del regista canadese ci mostrano sempre una straniante visceralità, come una lente d’ingrandimento sulle mutazioni dell’uomo prodotte dal “mondo tecnologico”.

 

[Il trailer originale di Videodrome]

 

 

Videodrome è uno dei film indipendenti simbolo del terremoto artistico attuato da diversi giovani registi nella ormai tradizionale e stantia Hollywood e rappresenta il punto di svolta del regista, la presa in analisi di un tema controverso, quello espresso con la famosa frase del film: "Morte a Videodrome! Gloria e vita alla nuova carne!".

 

Ma procediamo con ordine: il profetico horror cyberpunk in oggetto rappresenta l’altro lato della medaglia dell’ottimismo esistenziale di quel periodo.

 

Lo dimostra l’intera messa in scena, che non sembra avere l’obiettivo di “piacere” alle masse ma quello di indirizzare una riflessione sotto forma di un surrealismo in alcuni tratti anche di cattivo gusto con trasformazioni grottesche, atmosfere cupe, scene orrido-erotiche.

 

 

[Una scena di Videodrome]

 

Un immaginario che guarda ai film mostruosi degli anni ‘50/‘60, ma che parla di qualcosa di molto contemporaneo.

 

Le riflessioni che Marshall McLuhan sintetizzava con la frase "Il medium è il messaggio" sono rappresentate dal canale “Videodrome”, canale televisivo pirata che mostra violenza e pornografia e che produce nel cervello di chi lo guarda un tumore che porta ad un perverso stato allucinatorio.

Proprio la pornografia, l’esasperazione dell’Eros, che prende forma sugli schermi dei media, nella prima parte della pellicola ha un ruolo fondamentale.

 

Mano a mano che i minuti passano sullo schermo, lo spettatore è sempre più disorientato dalla difficile scissione tra scene reali e allucinazioni del protagonista, Max Renn (James Woods), e proprio come lui si sente fagocitato dal perturbamento dei mass media, metaforica bocca femminile avvenente che spinge sullo schermo, non più muro trasparente ma membrana di una realtà ormai spuria.

Realtà e finzione - nel piano bidimensionale della narrazione e mai a stretto contatto con la realtà analogica - si mescolano irrimediabilmente così come ha teorizzato Jean Baudrillard poco dopo.

 

La realtà scompare nell’illusione del reale e la finzione a quel punto gode di uno status pari ad essa.

 

 

[James Woods in una scena di Videodrome]

 

La trasformazione del protagonista in un organico videoregistratore pronto ad accogliere nel suo ventre una fetale videocassetta fa parte della realtà filmica o della sua finzione?

 

Il delirio audiovisivo chiaramente travalica la trama per entrare nella nostra realtà come produttrice di senso e il regista ci riesce attraverso la contraddizione grottesca dell’incredibile, che ci fa sentire allo stesso tempo dentro e fuori la messa in scena, nella sua realtà e nella sua allucinazione.

Anche i fatti che riguardano lo strano Professor O’Blivion (Jack Creley) riflettono sul potere demiurgico dei nuovi media: lui è morto ma nella televisione continua a vivere grazie alla registrazione di numerose interviste fatte in vita.

 

Tutti credono che sia vivo perché la televisione lo mostra vivo, in una sorta di immortalità catodica.

 

Nella seconda parte del film scopriamo che Videodrome non è altro che uno strumento moralista per eliminare quella parte di umanità attirata dal sesso e dalla violenza, ed ecco che in una contaminazione noir di complotti, fughe rocambolesche e uomini senza scrupoli si compie l’assoluto misconoscimento della realtà da parte del protagonista, tradotto nel suo suicidio.

 

 

[Jack Creley in una scena di Videodrome]


Si spara in testa con la pistola assorbita dal suo corpo in un’allucinazione precedente, comparsa in quel momento al posto della sua mano destra.

 

Riecheggia il concetto di biopolitica foucaultiano, il potere atto a ordinare, dirigere e gestire la vita comunitaria gestendone i loro corpi, ma la biopolitica di uno strumento atto a gestire la popolazione attraverso una malattia fisica e cognitiva non può che farsi “psicopolitica”, nell’accezione che ne dà: il potere non disciplina più i corpi, bensì ne plasma le menti, non costringe ma seduce.

 

La frase “Gloria e vita alla nuova carne” riecheggia nelle fasi finali della pellicola.

 

Ma cos’è la “nuova carne”?

 

 

[Debbie Harry in una scena di Videodrome]

 

 

“Per divenire nuova carne dovrai prima uccidere la tua vecchia natura” dice Nicki, amante perturbante del protagonista (interpretata da Debbie Harry, cantante dei Blondie), a Max, da dentro lo schermo di un allucinato televisore.

 

Un istante dopo il protagonista è nello schermo. Il punto di vista dello spettatore diviene lo schermo stesso.

Max si punta la pistola alla tempia e spara.

Il televisore esplode in viscere e sangue. 

 

Max fuori lo schermo simula la stessa scena, la raddoppia.

 

Fine.

 

La serie di transfert accolgono la natura divina e dogmatica delle tecnologie elettriche (e digitali), il loro carattere ubiquitario ed eterno.

Morire per rinascere in “nuova carne” è estremamente inerente ad un discorso religioso.

 

Ci parla di una nuova essenza incorporea, la stessa dei simulacri visti nel tubo catodico, e ancor di più, oggi, nei nostri personali spazi digitali.

 

 

[James Woods nella scena finale di Videodrome]

 

Un film visionario, diviso tra due poli, realtà e illusione, uomo organico e strumento elettronico, Eros nella prima parte e Thanatos nella seconda, l’horror che va a catalizzarsi nel grottesco, che mostra con quell’estetica tipica degli anni ’80, imperfetta e sgraziata, il dramma percettivo contemporaneo.

 

Se volessimo sostituire alla televisione i moderni cellulari e la rete Internet ci accorgeremmo che essi sono esattamente Videodrome, e noi gli inconsapevoli protagonisti della pellicola incapaci ormai di scindere finzione e realtà, o forse siamo già la nuova carne, liberati dal peso del senso per abbracciare un mondo mentale che abbiamo reso sovrapponibile a quel capitalismo delle illusioni che è lo spazio digitale.

 

Se oggi prodotti contemporanei si trastullano su concetti a volte banalizzanti, a volte insensati - in estrema coerenza con il Videodrome contemporaneo - del rapporto con “le nostre amputazioni tecnologiche”, per citare ancora McLuhan, Cronenberg 40 anni fa centrava il principale problema ontologico, mostrandolo nel suo orrore edulcorato, grezzo, talmente finto da dimostrarne la sua profonda metafora.

 

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