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#CinemaeFilosofia
Il presupposto sul quale si regge la trama di Room – soprattutto la prima parte – presenta dei tratti decisamente filosofici, nello specifico gnoseologici (relativi alla “conoscenza”: a “ciò che si conosce e si può o meno conoscere”).
Room (la stanza) è per Jack il tutto: ciò che non possiede un confine - e quindi un esterno, più grande - perché è esso stesso tutto lo spazio possibile.
Non proprio l'"universo" (perché Jack possiede il concetto di spazio cosmico), ma quasi.
Stanza gli pare abbastanza grande, proprio come a noi sembra grande abbastanza il pianeta Terra, e di più ancora, perché non possiede alcun termine di paragone che gli possa far connotare Room come piccola.
Come si può conoscere ciò che trascende le categorie del pensiero?
Kant disse che semplicemente “Non si può farlo”.
E la sua osservazione è difficilmente confutabile: come possiamo pensare di conoscere qualcosa che sia totalmente altro rispetto alle categorie con cui organizziamo il nostro universo percettivo (il principio di somiglianza, di contiguità, di causa-effetto)?
Uno schiaccia-patate non può che ridurre le cose in "fili cilindrici": quella è la sua struttura e può assimilare/filtrare solo ciò che sia stato ridotto in quella forma.
E così noi: come potremmo mai pensare di vedere e, quindi, conoscere – direttamente – se non a colori, visto che sappiamo che i nostri occhi vedono a colori?
Sempre come suggeriva Immanuel Kant, in primo luogo non è possibile conoscere alcunché che si situi al di fuori delle forme dello spazio e del tempo.
Come immaginare qualsiasi cosa se non come identificabile da una coordinata spaziale ed una temporale?
Ogni immagine è in un "lì'" e in un'"allora"!
Possiamo forse conoscere qualcosa che non si possa immaginare?
Pensiamo di conoscere ciò che è astratto e privo di contenuto: indeterminato?
Sempre Kant direbbe di no, e che tutt'al più lo possiamo sentire.
Ecco perché in Room Jack fatica a credere a sua madre quando cerca di spiegargli la natura della stanza e dell'esistenza dell'esterno, perché non ha nulla – o quasi, ma lo vedremo – a cui aggrapparsi quando sente le sue parole.
Una certa definizione di conoscenza potrebbe essere la possibilità di rendere immagine i suoni di una voce, e l'immagine mentale può essere: o immediatamente riconducibile a sè o può essere costruita per associazione di elementi noti.
Per fare un esempio: ecco perché posso immaginarmi la forma di un "raccogli-briciole", o di un "centauro" - pur non avendoli mai visti - se mi vengono debitamente descritti nelle loro componenti a me note.
Per Jack, invece, i racconti sul "fuori" che fa la madre sono solo suoni privi di significato (il significato è conoscenza e quindi, come si è detto, immagine).
Più precisamente bisognerebbe dire che per lui quelle particolari parole non denotano alcunché.
Esattamente come per un bambino il suono “fisica quantistica” non significa (denota) nulla più di quanto significhi per noi adulti la parola “kjjhijhiugllhnijh”.
Tutto Room sembra sceneggiato direttamente sul famoso mito platonico della caverna.
Il film pare un saggio sull’ontologia (lo studio dell’”essere”), che è un'espressione tecnica esatta, ma forse poco chiara, per dire che - soprattutto nella prima parte della pellicola - si passa in rassegna lo “statuto” di tantissimi elementi interrogandosi sul loro grado di partecipazione all'essere: se siano, insomma, "più, o meno, reali".
Mi spiego, ci pare ovvio dire che, ad esempio, un pallone sia “più reale” di un numero; ecco, questa è un’analisi ontologica.
Platone, poi, non sarebbe affatto d’accordo con noi, ma ho reso l’idea...
Jack, però, riesce lo stesso a comunicare con sua madre, non perché eluda le indicazioni kantiane, ma perché – esattamente come i prigionieri incatenati del Mito – possiede un produttore di immagini, di simulacri (parvenza di realtà) che è la televisione; non è totalmente isolato e privo di categorie per pensare oltre il suo più prossimo spazio percettivo.
Sono bellissime le discussioni circa l’esterno della stanza, e sono tutte discussioni in cui Kant e la sua Critica della ragion pura c’entrano perfettamente (Fenomeno e Noumeno, per capirci)!
La seconda parte, pure, presenta ottimi spunti di riflessione: uno su tutti – e Platone (e Matrix) ci avevano avvertiti – che “uscire dalla caverna” può essere shockante, e certamente richiede più tempo per adattarsi di quanto, prima, si potesse preventivare.
L'intera seconda parte del film è, infatti, una lunga elaborazione mentale di un nuovo e sconvolgente stato di cose.
E a cambiare sarà l'intera Weltanschauung, la visione del mondo; una "rinascita".
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