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#top8

8 registi che hanno girato un solo, meraviglioso, film

8 registi che si sono fermati a un solo film nella loro carriera, iscrivendo comunque il proprio nome nella Storia del Cinema

Non esiste un modo univoco di iscrivere il proprio nome all'interno della Storia del Cinema.

 

C'è chi è riuscito a lasciare il segno grazie alle innovazioni strutturali, tecniche e narrative apportate alla Settima Arte, chi si è mostrato in grado di riscrivere le logiche della stesse grazie alla destrutturazione del linguaggio, chi si è guadagnato un'aura di intoccabile grandiosità grazie allo studio e alla maniacale applicazione filosofica alla base del proprio credo cinematografico.

 

Chi ancora condensa il meglio della produzione artistica in uno spazio esiguo e chi, invece, affianca all'enorme qualità della propria filmografia anche una particolare longevità, che si riverbera in una grande mole di opere.

 

Insomma, il Cinema è sempre pronto ad accogliere chi ne comprende il respiro vitale e chi si prodiga per allargare i suoi confini, rendendola la multiforme e sfaccettata Arte che tanto amiamo.

 

Ecco perché talvolta capita che alcuni registi riescano a restare impressi nell'immaginario cinefilo anche con una sola opera alle spalle.

 

 

[Il grande Walter Matthau e il suo unico film da regista, Gangster Story, sono i primi esclusi eccellenti di questa rassegna]

 

 

Proprio in ragione di questo ho deciso di approfondire con voi le storie di otto autori e di otto pellicole (rigorosamente ordinate in ordine cronologico), in grado di stupire pubblico e critica grazie alle loro bellezza e importanza.

 

Ho cercato di attingere a opere scaglionate nella maniera migliore possibile lungo circa 90 anni di Storia del Cinema, selezionando registi che abbiano confezionato un solo lungometraggio di finzione, magari al termine di un percorso artistico che li avesse portati anche a realizzare cortometraggi e documentari, in maniera tale da poter ricostruire le tendenze autoriali degli artisti che li hanno realizzati.

 

Con una giustificatissima eccezione che sta a voi scoprire. 

 

 

[Scandalo Segreto di Monica Vitti è un altro titolo che vale la pena di citare: si tratta, oltre che dell'ultima interpretazione di una delle figure italiane più influenti sulla Storia del Cinema, anche dell'unico film da regista dell'attrice romana.]

 

 

Le opere selezionate dispongono al contempo anche di particolari storie produttive o di elementi di interesse tecnici e tematici.

 

Per questo motivo ho deciso di non includere chi abbia realizzato un solo corto/mediometraggio o si sia dedicato in via esclusiva all'attività documentaristica.

 

Così come, per ovvie ragioni, ho scelto di non soffermarci su registi esordienti, che hanno chiaramente la possibilità di moltiplicare le proprie opere a breve.

 

Pur se non eleggibili per la rassegna, ho comunque deciso di segnalarvi Last and First men, unico lungo che porta la firma del compianto compositore Jóhann Jóhannsson dopo il significativo corto End of Summer, l'interessantissimo Lost River di Ryan Gosling, le incursioni registiche di attori come Drew Barrymore (Whip It), di musicisti come David Byrne (True Stories) e sceneggiatori come Leonard Schrader (Tango nudo).

 

 

[The Wild Boys di Bertrand Mandico sarebbe stato perfetto per l'approfonimento. Il suo autore ha una lunghissima storia artistica alle spalle e uno stile estremamente riconoscibile. Perché è solo tra le menzioni d'onore? Perché, dopo lunga attesa, questo estroso autore francese ci ha regalato un secondo lungometraggio!]

 

Una volta elencati i criteri selezionati ed enumerate le numerose menzioni d'onore non resta che partire con il nostro approfondimento, augurandovi buona lettura!

 

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Posizione 8

Jean Vigo

 

L'Atalante, 1934

 

Impossibile non aprire questa Top 8 con Jean Vigo.

 

Il regista francese, definito a più riprese "artista maledetto", è uno dei pionieri della Settima Arte: nonostante la sua morte prematura giunta all'età di soli 29 anni, è riuscito a scrivere la Storia del Cinema con sole quattro opere, tutte fortemente permeate nell'immaginario collettivo dei cineasti delle generazioni successive.

 

Dopo i cortometraggi-documentari A proposito di Nizza e Taris, o del nuoto e il controversissimo mediometraggio Zero in condotta - inedito nelle sale francesi fino al 1945 a causa delle accuse di anti-nazionalismo - Vigo ha girato il suo unico lungometraggio di finzione, nonché una delle opere più influenti di ogni epoca: L'Atalante

 

Al centro dell'opera vi è la poetica e tormentata d'amore tra Juliette e Jean, comandante di una barca chiamata appunto L'Atalante, ma si potrebbe dire che la vera protagonista della pellicola è l'innovazione stilistica, la capacità di spostare il Cinema di decenni in avanti, avvicinandolo in maniera sensibile all'idea moderna che abbiamo di questa meravigliosa Arte.

 

Il primo e unico film di Vigo presenta alcune delle sequenze più famose della Storia, tra le quali è impossibile non citare la sequenza onirica in cui Jean si tuffa nel fiume e sogna Juliette vestita da sposa nelle acque, divenuta un autentico manifesto del Cinema nella sua espressione più pura.


Vi basti pensare che, tra le altre cose, è utilizzata da decenni come sigla per Fuori Orario, il programma che porta sugli schermi italiani le perle più rare della cinematografia mondiale.

 

Pensare che abbiamo rischiato di non vedere mai L'Atalante in tutto il suo splendore fa sinceramente scendere un brivido gelido lungo le nostre schiene.

 

Il film è stato figlio di una produzione tormentatissima: Vigo, che sarebbe morto di tubercolosi pochi mesi dopo la realizzazione dell'opera e che vide le sue condizioni aggravarsi seriamente a causa dell'umidità presente sui set fluviali dell'opera, era reduce dalla pesante censura di Zero in condotta. 

Ricevette, quindi, la possibilità di redimersi solo grazie al produttore Jacques-Louis Nounez, fervido ammiratore del suo talento artistico.


La sceneggiatura, tratta da un soggetto di Jean Guinée, venne più volte riscritta e il titolo dell'opera fu più volte cambiato, fino ad arrivare al titolo della prima edizione Le chaland qui passe, in chiaro riferimento al titolo della traduzione francese dell'arcinota canzone italia Parlami d'amore Mariù di Cesare Andrea Bixio.

Il film subì inoltre pesantissime censure: il finale fu tagliato di circa 20 minuti e rimontato.

 

Il risultato fu un clamoroso flop critico e di pubblico, malgrado la presenza sul set di collaboratori di grande spessore artistico come Boris Kaufman, nelle vesti di DoP, o dei noti attori Jean Dastè, Dita Parlo e Michel Simon

 

Vigo, morto il 15 ottobre 1934, non vide mai l'opera proiettata per il pubblico così come l'aveva immaginata.

 

Il titolo attuale risale a una riedizione rimontata e probabilmente non censurata dell'opera risalente al 1940, andata persa a causa della Seconda Guerra Mondiale. 

La sua sopravvivenza è stata dunque affidata alle copie diffuse dell'opera che, fortunatamente, ha raggiunto i giorni nostri.


La sua versione più nota attualmente dura 89 minuti ed è stata restaurata ben tre volte negli ultimi 30 anni: nel 1990, nel 2001 e nel 2011. 

 

L'Atalante ha scosso il Cinema mondiale dalle sue fondamenta, ispirando la poetica di Luis Buñuel, degli autori della Nouvelle Vague, di Bernardo Bertolucci, di Emir Kusturica, di Leos Carax e di decine di altri cineasti, diventando simbolo del Cinema coraggioso, indipendente e poetico.

 

Non è un caso che, sin dal 1951, venga assegnato per volontà del poeta Claude Avedine, il Premio Jean Vigo, riservato ai registi francesi che si sono distinti per indipendenza di spirito e per originalità di stile.

 

Quale riconoscimento migliore per un artista che ha realizzato un solo, leggendario, lungometraggio?

 

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Posizione 7

Charles Laughton

 

La morte corre sul fiume, 1955

 

Charles Laughton ha vissuto un'intera carriera sul palcoscenico: che si trattasse dei teatri inglesi, di Broadway o del Cinema, il suo talento recitativo gli ha permesso di esprimersi per circa quarant'anni come uno degli attori più prolifici e influenti della sua epoca, portandolo a recitare per autentici giganti come James Whale, Cecil B. DeMille, Josef von Sternberg, Alfred Hitchcock, Charles Vidor, Jean Renoir, David Lean, Billy Wilder, Stanley Kubrick e Otto Preminger.

 

La sua unica volta dietro la cinepresa è stata, però, un'autentica epifania. 

 

La morte corre sul fiume rappresenta, infatti, uno degli esempi più fulgidi di noir statunitense degli anni '50, nonché un trattato senza tempo di tecnica cinematografica.

 

Adattando il libro The Night of the Hunter di David Crubb, Laughton ha portato in scena con uno stile peculiarissimo la torbida storia del sordido predicatore Harry Powell - interpretato da un monumentale Robert Mitchum - animato dalla spasmodica voglia di ottenere ad ogni costo il bottino del suo ex compagno di cella Ben Harper, in un West Virginia animato da superstizione, fanatismo religioso e ignoranza.

 

La messa in scena di Laughton, infatti, risulta essere figlia di un coacervo di ispirazioni di ogni tipo, su cui spiccano con forza l'espressionismo tedesco per la forza artistica dei tagli di luce scelti e la potenza rappresentativa del cinema eziologico di David W. Griffith su tutti.

 

Il risultato della commistione è risultato essere un noir epocale e postmoderno, che pianta le proprie radici nella Storia del Cinema, traendo forza dall'insegnamento dei Maestri, riuscendo a innovare la Settima Arte.

 

Un'opera che tuttora dispone della forza necessaria per smascherare il volto più oscuro dell'America, quello in cui ignoranza, superstizione, religione e violenza si mescolano senza soluzione di continuità 

 

Inoltre, l'opera ci ha donato uno dei cattivi più iconici della Storia. 

 

Harry Powell, con quelle scritte LOVE e HATE tatuate sulle nocche, rappresenta un'icona saldamente impressa nella nostra memoria.

 

Anche a causa del suo tono poco accondiscendente, il film si rivelò un insuccesso commerciale, motivo per cui Charles Laughton non ebbe la possibilità di aggiungere un secondo film alla propria filmografia, adattando per il grande schermo Il nudo e il morto di Norman Mailer (adattamento che poi toccò a Raoul Walsh). 

 

Una casualità che ammanta sempre più di leggenda un'opera come La morte corre sul fiume, ormai assurta al grado di autentica milestone imprescindibile.

 

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Posizione 6

Marlon Brando

 

I due volti della vendetta, 1961

 

Marlon Brando non ha bisogno di grandi presentazioni: stiamo parlando di uno dei più grandi attori di ogni epoca, di una delle pochissime stelle in grado di brillare tanto nell'epoca d'oro del Cinema classico statunitense quanto negli anni della New Hollywood, di uno dei pionieri del Metodo, una figura controversa e ammaliante, un talento come ne passa davvero uno ogni cinquant'anni.

 

Tra le numerose etichette che gli sono state cucite addosso nel corso degli anni, Brando possiede anche quella di vero e proprio incubo per i registi con cui ha collaborato.

Lo sa bene Francis Ford Coppola che pur di averlo nel cast de Il Padrino mise in gioco la sua intera carriera e che sul set di Apocalypse Now rischiò addirittura la propria salute pur di provare a recuperare il suo rapporto con l'attore.

Lo sanno bene tutti i registi che nel corso degli anni '60 hanno avuto a che fare con questo mostro sacro dal fare scostante, che inevitabilmente li portava a dei flop critici e di pubblico.

 

E lo sanno bene anche Stanley Kubrick e Sam Peckinpah!

 

Entrambi, infatti, in tempi diversi furono coinvolti nella lavorazione de I due volti della vendetta (titolo originale One Eyed Jacks), unico film del Marlon Brando da regista che ha visto la luce dopo una lavorazione a dir poco tribolata.

 

Ambo gli autori furono, infatti, contattati da Brando che deteneva i diritti cinematografici sul romanzo The Authentic Death of Hendry Jones di Charles Neider.

Entrambi provarono ad adattare il romanzo in una sceneggiatura e, secondo diverse fonti, a entrambi fu affidata momentaneamente la regia dell'opera.

 

Il primo richiese e ottenne di essere affiancato dallo sceneggiatore Calder Willingham, mentre il secondo fu vittima di ben due ripensamenti di parte di Brando, che per un momento lo aveva richiamato alla produzione dell'opera dopo aver stravolto il suo lavoro e averlo allontanato in un primo momento.

A completare lo script fu dunque Guy Trosper, che alla fine fu l'unico accreditato alla sceneggiatura assieme a Willingham.

 

Con una storia produttiva così complessa, chiaramente, Brando non riuscì a convincere nessuno degli A-lister hollywoodiani che aveva in mente per la regia (tra cui Elia Kazan e Sidney Lumet) a incaricarsi della regia dell'opera. 

La scelta del divo fu dunque quella di sdoppiarsi tra la direzione artistica e il ruolo del protagonista Rio.

 

Il risultato della lunga lavorazione risulta essere un western atipico, palesemente ispirato alla storia di Pat Garrett e Billy the Kid, in cui i protagonisti - Rio e Dad, interpretato da Karl Malden - dopo una rapina in banca si ritrovano a prendere strade opposte, pur essendo destinati a reincontrarsi.

 

Brando tenne bene le redini dell'epopea intrisa di sete di vendetta e un insolito romanticismo ma, anche il suo sforzo registico, venne parzialmente frustrato dagli altri produttori. 

Verrebbe quasi da dire chi la fa l'aspetti: Brando vide la propria versione originale dell'opera, lunga oltre 280 minuti, tagliata esattamente di metà della sua durata.

 

Paradossalmente il risultato di questo tribolato percorso produttivo non influenzò l'accoglienza critica del film, che vinse il premio speciale del pubblico al Festival di San Sebastian, la Concha de Plata alla Migliore Attrice per Pina Pellicer nel corso della medesima kermesse e ottenne le nomination ai Laurel Awards e al Premio Oscar per la fotografia di Charles Lang Jr..

 

E il lavoro specifico di Brando come fu accolto?

Una nomination come Miglior Film Drammatico ai Laurel Awards e una nomination come Miglior Regista ai Director Guild of America Awards possono bastare?

 

C'è poco da fare: quando qualcuno ha talento è in grado di ergersi anche al di sopra dell'odio che genera con le proprie scelte. 

 

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Posizione 5

Dalton Trumbo

 

E Johnny prese il fucile, 1971

 

Dalton Trumbo è universalmente conosciuto come uno degli sceneggiatori più importanti nella Storia del Cinema, oltre che come uno degli intellettuali dissidenti statunitensi più importanti del XX secolo.

 

Trumbo, infatti, non ha solo sceneggiato opere imprescindibili come Ho sposato una strega, Vacanze Romane, La più grande corridaSpartacus e Papillon, ma ha anche dovuto spesso scrivere le proprie opere senza che il suo lavoro potesse essere in nessun modo riconosciuto.

 

Gli Oscar vinti per Vacanze romaneLa più grande corrida non potè mai ritirarli, essendo costretto a lavorare sotto pseudonimo.

 

Nel 1947, infatti, un Dalton Trumbo all'apice della carriera entrò a far parte degli Hollywood Ten.

 

Il gruppo, composto da dieci artisti hollywoodiani, in nome del proprio credo politico si oppose alla famosa caccia alle streghe voluta dal senatore Joseph McCarthyrifiutandosi di testimoniare dinnanzi alla Commissione per le attività antiamericane.

 

Com'è noto, ben documentato e più volte rappresentato anche da diverse opere cinematografiche, i membri del gruppo pagarono questa scelta con le proprie carriere, venendo iscritti nell'ormai arcinota lista nera di Hollywood.

 

A questa storia è ispirato il film L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo, che però omette la più grande rivincita dello sceneggiatore nel mondo del Cinema.

 

Nel 1971, anche grazie al clima di libertà artistica, rivalsa autoriale e antimilitarismo della nuova Hollywood, Trumbo ricevette dalla World Entertainment la possibilità di adattare per il grande schermo il suo romanzo E Johnny prese il fucile, già vincitore dell' American Book Sellers Award.

 

Il risultato fu quello che si può definire il film della sua vita.

 

Il titolo (in originale Johnny got his gun) risponde in maniera evidente allo slogan "Johnny, get your gun!", usato dal servizio di leva dell'esercito statunitense e mette subito in chiaro il proprio intento di denuncia.

 

La pellicola rappresenta l'orrore della guerra e di una società che limita la possibilità di autodeterminazione di un individuo attraverso il personaggio Joe Bonham, soldato rimasto mutilato dei quattro arti, cieco, sordo e muto, cosciente ma incapace di comunicare con il prossimo. 

 

Come perfettamente inquadrato da Jacopo Troise nel suo approfondimento legato alle opere incentrate sulla Prima Guerra Mondiale, la potenza del film risiede nelle scelte artistiche da cui è contraddistinta: la separazione delle scene afferenti a un presente in bianco e nero e dei frammenti a colori di un passato ormai andato, la voce narrante che riproduce il punto di vista del protagonista. 

 

L'opera fu accolta in maniera calorosissima al Festival del Cinema di Cannes nel 1971, vincendo il Grand Prix Speciale della Giuria e divenendo uno dei simboli di quell'occidente che si opponeva con ogni sua forza ai conflitti.

 

Una rivincita ben più grande della tardiva ammissione di colpa dell'Academy, che gli ha restituito l'Oscar guadagnato - e a lungo attribuito a Ian McLellan Hunter -  per Vacanze Romane soltanto nel 2011.

 

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Posizione 4

Gerald Kargl

 

Angst, 1983

 

C'è poco da fare: questa Top 8 è piena di film che hanno segnato in maniera profonda la poetica degli autori che ne sono entrati in contatto. 

 

Angst di Gerald Kargl non è assolutamente da meno.

 

Parliamo di un autentico caposaldo del thriller-horror, nonché di uno dei massimi cult del Cinema europeo degli anni '80.

 

Stiamo parlando di un'opera che - come già rilevato da Adriano Meis all'interno della sua rassegna di film disturbanti - ha fortemente condizionato l'immaginario tanto di registi coevi dell'autore (quali Lucio Fulci), quanto successivi (ovviamente Gaspar Noé ma anche Fatih Akin).

 

L'opera è arrivata per Kargl al termine di un percorso artistico nel Cinema che affonda le sue radici nella sua adolescenza: ha iniziato a girare i suoi primi lavori a quattordici anni e a soli 23 anni ha fondato sia il magazine cinematografico Filmschrift che il festival austriaco Die Österreichischen Filmtage, che diresse dal 1976 al 1982.

 

Nel frattempo cominciò a farsi un nome con i suoi primi cortometraggi professionali: Ratatata nel 1977, Skiszenen mit Franz Klammer (lett. Scene di Sci con Franz Klammer) nel 1980 e Das vertraute Objekt (L'oggetto familiare) nel 1981. 

 

Angst arriva dunque al culmine di un percorso di formazione fondamentale per l'artista.

 

Una maturazione che ha raggiunto il suo perfezionamento grazie all'incontro tra il regista austriaco e un altro grande nome del Cinema sperimentale europeo come Zbigniew Rybczyński, montatore, direttore della fotografia, co-sceneggiatore e vero e proprio secondo padre dell'opera.

 

Già dal titolo (lett. Paura) lo spettatore comprende di trovarsi dinanzi a un film che gli entrerà sottopelle.

 

La storia rappresentata, ispirata al reale caso di Werner Kniesek, è quella di un serial killer psicopatico senza nome che dopo essere uscito di prigione per omicidio continua a essere tormentato dai demoni interiori che gli impediscono di stare al mondo.

 

La tecnica di Kargl, l'interpretazione folle di Erwin Leder e la martellante colonna sonora di Klaus Schulze si fondono in un'esperienza sensoriale che cambierà la vostra percezione dei serial killer cinematografici per sempre.

 

Una volta portato a termine il suo unico, terrificante, lungometraggio, Kargl non si è fermato: nel decennio successivo ha diretto oltre cento pubblicità e cortometraggi a fini commerciali, facendo incetta di premi prima di dedicarsi con assiduità all'attività di documentarista e produttore.

 

Tra le altre cose si deve a lui la nascita, nel 1996, del progetto Hotel-TV CITY LIGHTS, da cui si è poi allontanato nel 2002.

 

Dal 1983 in poi, però, mai più un lungometraggio di finzione: con ogni probabilità questo complesso autore tedesco sapeva di aver espresso a pieno le proprie potenzialità nella sua unica, imprescindibile, opera.

 

Se una volta terminato questo approfondimento avrete voglia di tuffarvi in film in grado di scuotere la vostra psiche tanto quanto Angst, abbiamo diversi articoli che fanno per voi (a partire dal secondoterzo capitolo della sopracitata collana di Top).

 

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Posizione 3

Tom Stoppard

 

Rosencrantz e Guildenstern sono morti, 1990

 

Nato nel 1937 nell'allora Cecoslovacchia come Tomáš Straussler da genitori di origine ebrea, Tom Stoppard ha vissuto una prima parte di vita a dir poco romanzesca, che non può che aver influito sul suo strepitoso talento artistico.

A seguito dell'occupazione nazista si trasferì prima a Singapore e poi in India per sfuggire all'invasione giapponese. Furono, però, l'educazione britannica ricevuta in India, il secondo matrimonio di sua madre con il maggiore inglese Kenneth Stoppard e il trasferimento definitivo in Inghilterra, avvenuto nel 1946, i tre passaggi fondamentali al fine della nascita di una delle figure più importanti del teatro inglese del dopoguerra.

 

Tom Stoppard è, infatti, senza mezzi termini, uno dei drammaturghi più importanti dell'ultimo cinquantennio: è autore di oltre venti pièce teatrali dal finire degli anni '60 a oggi, intrise di una profonda ricerca filosofica, di sofisticati artifici verbali e di un'inimitabile verve umoristica.

 

Ciò che non sapete è, però, che Stoppard è anche probabilmente autore della sceneggiatura di uno dei vostri film preferiti: se avete amato Despair di Rainer Werner Fassbinder o Il fattore umano  di Otto Preminger, se siate stati rapidi dalla follia di Brazil di Terry Gilliam o emozionati da L'impero del sole di Steven Spielberg , sappiate che dietro questi film c'è il suo, sensibilissimo, talento.

 

Un talento multiforme, esplicitato anche in opere ben diverse da quelle appena citate, quali Indiana Jones e l'ultima crociata, il controverso Shakespeare in Love per cui ha vinto il suo unico Premio Oscar, o nei più recenti La bussola d'oro, Anna Karenina e La ragazza dei tulipani.

 

Prima come giornalista, poi come critico infine come autore teatrale e cinematografico, la sua principale predilezione è sempre stata la scrittura, tranne che in un'occasione, per la quale proprio non poteva esimersi dall'andare oltre.

 
Se, infatti, tecnicamente, la sua prima opera è stata A Walk on the Water, risalente addirittura al 1960, il suo primo vero capolavoro mai rappresentato è Rosencratz e Guildenstern sono morti, andato in scena per la prima volta nel 1967.

Solo a seguito del successo della pièce, il suo primo dramma fu prodotto, nel 1968, col titolo Enter a Free Man.
Poi, a cascata, è arrivato il suo gigantesco successo.

 

Rosencratz e Guildenstern sono morti è il principale motivo per cui Stoppard ha potuto intraprendere con successo una carriera che gli permette di fregiarsi dei titoli di Commendatore dell'Ordine dell'Impero Britannico, Knight Bachelor e Membro dell'Ordine al Merito del Regno Unito

 

L'opera, incentrata sulle vicende di Rosencrantz e Guildenstern, amici d'infanzia di Amleto, esprime la propria potenza mediante l'assurdità delle situazioni vissute dai protagonisti e lo spessore tematico delle discussioni degli stessi, interamente fondate sui temi del caso e della morte. Un testo di totale culto, da cui non poteva non essere tratto un film.

 

Un film in cui, ovviamente, non esiste nessuna linearità tra il giorno e la notte, viene recisa ogni concatenazione tra gli eventi e la consapevolezza dei personaggi di trovarsi in un racconto è sempre lì, pronta a emergere.

 

Una pellicola per la cui regia Stoppard, assoluto padrone dell'opera e demiurgo dei suoi rivoli simbolici più nascosti, doveva inevitabilmente calarsi in un ruolo inedito. La storia, però, gli ha dato ragione.

 

Presentata alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 1990, l'opera, interamente poggiata sulle spalle di due ex talenti del teatro inglese divenuti star cinematografiche come Tim Roth e Gary Oldman, ha strabiliato la giuria aggiudicandosi il Leone d'oro.

 

Ennesima dimostrazione del fatto che quando un'opera e un autore sono legati dal fil rouge del destino, il successo è una conseguenza naturale.

 

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Posizione 2

Yoshifumi Kondō

 

I sospiri del mio cuore, 1995

 

Il nome di Yoshifumi Kondō è uno dei più noti tra gli appassionati del Cinema d'animazione, in particolare per chi conserva un posto speciale del proprio cuore alle meravigliose opere dello Studio Ghibli.

 

Kondō, infatti, è stata una delle menti più brillanti dell'animazione giapponese e mondiale per circa trent'anni.

 

Ha svolto il ruolo di animatore, direttore dell'animazione, character designer e supervisore dell'animazione per alcune delle opere più rilevanti di ogni epoca, debuttando giovanissimo e tenendo sempre elevatissima la qualità dei propri lavori.

 

La sua storia nel mondo dell'animazione parte alla verdissima età di 15 anni, quando nel 1965 entra a far parte del club artistico della scuola superiore Muramatsu della prefettura di Niigata, dove incrocia il proprio destino con quello di Kimio Yanagisawa, importante mangaka giapponese con cui condivide il percorso di formazione artistica.

 

A soli 18 anni entra al Tokyo Design College e comincia a collaborare con la A Production, compagnia alla quale si legherà per un decennio collaborando a produzioni arcinote come Lupin III e Panda, Go Panda!

 

I suoi successivi passaggi alla Nippon Animation e alla Telecom Animation Film sono scanditi da titoli come Conan il ragazzo del futuro, Anna dai capelli rossi e Il fiuto di Sherlock Holmes, ma è il suo passaggio del 1987 allo studio fondato, tra gli altri, da Hayao Miyazaki e Isao Takahata a segnare definitivamente la sua carriera.

 

Oltre a collaborare a dei veri capisaldi come Una tomba per le lucciole, Kiki - Consegne a domicilio, Pioggia di ricordi, Porco Rosso e Pom Poko, nel 1995 riceve la possibilità di dirigere in prima persona il suo primo e unico film: I sospiri del mio cuore.

 

La pellicola - sceneggiata da Miyazaki adattando il manga Sussurri del cuore di Aoi Hiiragi - narra la storia della giovane e sognante appassionata di lettura Shizuku Tsukishima, che si innamora in maniera viepiù concreta del giovane liutaio Seiji Amasawa. 

 

La delicatezza nel descrivere la formazione dei due giovani e l'importanza del concetto di mettersi alla prova e di assecondare i propri sogni sono gli elementi tematici su cui si sorregge un'opera che riveste un ruolo fondamentale nella Storia del Cinema d'animazione.

 

Si tratta infatti di un film epocale all'interno del prestigiossimo percorso artistico dello Studio Ghibli: è il primo adattamento puro di un manga shōjo, la prima virata decisa verso un soggetto che fosse essenzialmente fondato su una storia d'amore e la prima esperienza con l'animazione digitale nella storia dello studio.

 

Al film collaborò inoltre l'artista giapponese Naohisa Inoue, apprezzatissimo in patria per il suo stile impressionista-surrealista.

 

Inoue realizzò gli sfondi e i disegni per una particolare sequenza dai toni fantastici all'interno dell'opera, donando al lavoro di Kondō e Miyazaki un tocco ancor più speciale.

 

Dopo quest'opera, Kondō svolse il ruolo di supervisore dell'animazione per un altro film storico dello Studio, La Principessa Mononoke, ultimo suo lascito nel mondo del Cinema.

 

Questo meraviglioso artista fu, purtroppo, tragicamente stroncato a soli 48 anni da un aneurisma, prima di poterci donare altre perle di inestimabile valore. 

 

Ma ogni volta che ascoltiamo Take Me Home, Country Roads di John Denver la nostra mente non può che riportarci a lui e alla sua, indimenticabile, unica opera.

 

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Posizione 1

Hu Bo

 

An Elephant Sitting Still, 2018

 

Hu Bo è uno dei più grandi talenti che il Cinema mondiale abbia generato nel corso del XXI secolo. 

 

Un artista puro, capace di scindersi perfettamente tra il mondo della scrittura e la Settima Arte con la medesima - spiccatissima - sensibilità, con la profonda capacità di penetrare nelle zone più oscure e tormentate dell'animo umano e rappresentarle con una maturità sconcertante.

 

Prima di dare vita a An Elephant Sitting Still, suo primo e unico film, si è laureato alla prestigiosa Bejing Film Academy e ha sfoggiato una produzione artistica degna di un fuoriclasse: ha girato ben tre cortometraggi nello spazio di tre anni, Distant Father (per cui ha anche vinto il premio di miglior regista al Koala Chinese Film Festival), Night Runner e Man in the Well.

 

Con il nome d'arte di Hu Qian ha anche pubblicato tre romanzi, Huge Crack, Bullfrog e Farewell to the faraway, quest'ultimo edito postumo.

 

Già, perché purtroppo Hu Bo è morto suicida il 12 ottobre del 2017, pochi mesi dopo averci donato An Elephant Sitting Still, che è già definibile a tutti gli effetti come una delle opere più importanti degli ultimi vent'anni.

 

L'unica pellicola di questo talentuosissimo cineasta cinese è un trattato sulla condizione umana, intriso di una scrittura densissima, della una cupezza di fondo che caratterizzava Huge Crack - la sua opera dalla quale è tratto il soggetto per la sceneggiatura - e girato con una padronanza del mezzo inspiegabile per un ventottenne alle prese con la sua opera prima.

 

Il titolo del film deriva dal monologo iniziale del protagonista, Yu Cheng, che racconta la storia di un elefante nel circo di Mazhouli che resta perennemente immobile, qualsiasi cosa gli accada, anche a fronte di maltrattamenti e umiliazioni.

 

Già dal prologo, quindi, lo spettatore viene catapultato in un'anabasi all'interno di una Cina in cui la solitudine, la violenza, la mancanza d'amore e il disagio esistenziale muovono i personaggi come marionette inermi.

 

Un mondo nel quale la luce filtra a malapena, sono le tinte scurissime a dominare e nel quale i personaggi comunicano attraverso dialoghi rarefatti, ma pregni di una lucida consapevolezza sulla propria condizione.

 

Non si tratta di pessimismo: Hu Bo riesce a innervare i propri personaggi di quel senso di accettazione del destino che deriva direttamente dalla tragedia greca, donando loro dignità anche nelle situazioni più estreme e degradanti.

 

Presentato nella sezione Panorama della 68ª edizione del Festival di Berlino, An Elephant Sitting Still è stato unanimemente accolto come un capolavoro: ha vinto il premio FIPRESCI alla Berlinale e il Golden Horse Award per il Miglior Film nel 2018 ma - cosa ancor più importante - ha scosso nel profondo degli autentici giganti del Cinema mondiale come Wang Bing, Ang Lee, Gus Van Sant e soprattutto Béla Tarr, che considerava Hu Bo come un autentico figlio d'arte.

 

Tanto da impegnarsi in prima persona per la presentazione della sua opera tanto a Berlino quanto in altre proiezioni in tutto il mondo e da vergare una commovente lettera di saluto all'autore e introduzione all'opera che vale più di ogni plauso critico in occasione.

 

Pertanto, non possiamo che chiudere questo approfondimento con le parole del grande Maestro ungherese:

"Mi dispiace non averlo protetto a sufficienza, è un peccato.

Ma come si può proteggere una persona costantemente nel cuore di una tempesta? (...)

Era costantentemente di corsa. Forse sapeva di non avere molto tempo a sua disposizione.

Era una candela che ardeva da entrambe le estremità.

Voleva tutto e subito. Non poteva accettare il mondo e il mondo non poteva accettare lui.

Nonostante lo abbiamo perso, le sue opere saranno con noi per sempre.

 

Per favore: date il benvenuto al film di Hu Bo e amatelo come faccio io". 

 

Lo trovate su Amazon e RaiPlay.

 



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