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Bif&st 2018: un racconto dall'interno

Il Bif&st è tra i festival del cinema più in ascesa nel nostro paese: quest'anno ha ospitato la prima mondiale della versione restaurata in 4K di Ultimo Tango a Parigi.

Vi è mai capitato di poter effettuare un viaggio quasi per caso per poi tornare a casa totalmente cambiati?

A me sì.

 

E quel che mi è successo nella settimana tra il 21 e il 28 aprile scorso è davvero paragonabile a un viaggio nel mondo del cinema dal quale non posso che essere tornato cambiato.

 

Ho avuto la fortuna di essere l’inviato di Cinefacts al Bif&stBari International Film Festival, di assistere all’anteprima mondiale della versione restaurata in 4K di Utimo Tango a Parigi, di vivere a contatto con alcuni tra i più importanti addetti ai lavori, di ascoltare dalle loro bocche aneddoti su alcune delle più grandi pellicole mai realizzate e di poter rivolgere in prima persona una domanda a un gigante del cinema mondiale come Bernardo Bertolucci.

 

Volete sapere come?

Seguitemi e scoprirete tutto.

 

 

[Bernardo Bertolucci, Marlon Brando e Maria Schneider sul set di Ultimo Tango a Parigi, film protagonista del Bif&st 2018]

 

 

Ok, possiamo ammetterlo: Bari non è esattamente la prima città che viene in mente quando pensate alla cultura cinematografica.

 

Ed è piuttosto normale che sia così: il Festival Internazionale del Cinema di Bari, il Bif&st , è un evento giovane, dotato di un budget non esorbitante, che si propone di premiare le eccellenze cinematografica italiana e internazionale per i meriti ottenuti nell’anno immediatamente precedente o, in alcuni casi, nel corso di un’intera carriera.

 

A far grande la kermesse c’è stata per anni la presenza del compianto Ettore Scola nei panni di presidente, ruolo ora assunto dalla regista tedesca Margarethe von Trotta.

L’anima del regista, però, non ha mai abbandonato il Festival e rivive nel nuovo simbolo dell’evento: un piccolo dettaglio che segna indissolubilmente la continuità dell’evento con le proprie radici e quelle del cinema italiano.

 

Come avrete capito, dunque, sono i dettagli a far la differenza nella crescita un evento di questo genere.

Pensate ai nomi dei premi assegnati: “Premio Vittorio Gassman” per il miglior attore, “Premio Mario Monicelli” per il miglior regista, “Fellini Platinum Award” per l’eccellenza cinematografica e così via, a ogni premio il nome di una leggenda del nostro cinema.

 

Il Bif&st è dichiaratamente un evento che non ha paura di giocare con i nostri sentimenti, di ricordarci che siamo bambini sulle spalle di giganti, di usare ogni forma comunicativa per farci innamorare della Settima Arte: ogni ospite viene accuratamente scelto, viene soppesata ogni parola.

 

 

[Il simbolo del Bif&st la dice tutta: un austero profilo di Federico Fellini]

 

 

Già, la parola: il Bif&st è un evento che nasce, si nutre e muore grazie alla parola.

 

La peculiarità dell’evento, infatti, risiede principalmente nella possibilità da parte del pubblico di interagire con le personalità ospiti della kermesse che si offrono di tenere delle autentiche masterclass avvolti dalla cornice di uno dei teatri più belli d’Italia: il Teatro Petruzzelli. 

 

Nella rottura continua e quasi rituale della quarta parete che separa spettatori e artisti si consuma la magia stessa dell’evento.

Ora immaginate quanto possa incidere su una realtà di questo genere un annuncio come quello dato dal direttore artistico Felice Laudadio lo scorso 10 marzo, un mese e mezzo prima dell’evento:

 

“Il Bif&st ospiterà l’Anteprima mondiale della versione restaurata di “Ultimo Tango a Parigi”.

Cannes sarebbe stata contentissima di ospitare un’anteprima di questo calibro, ma Bernardo Bertolucci ha scelto di presentarla a Bari senza alcun indugio”.

 

Una dichiarazione di questo tipo è in grado di riscrivere immediatamente ogni tipo di definizione di hype.

Un evento di queste dimensioni è in grado di rivoluzionare completamente l’idea che si ha del Bif&st in tutta Italia.

 

Avete presente ciò che diceva Pablo Neruda parlando di ciò che fa la primavera con i ciliegi?

Ecco, questo è quello che è in grado di fare l’arte anche sui terreni più aridi.

E Bari non è mai stato un campo arido.  

 

Le dimensioni dell’evento e la ricchezza del programma non hanno fatto altro che aumentare a dismisura l’interesse del pubblico: gli ospiti inizialmente previsti per le masterclass erano, in quest’ordine, Pierfrancesco Favino, Pippo Baudo, Micaela Ramazzotti, Antonio Albanese, Mario Martone, Giancarlo De Cataldo, Vittorio Storaro e Bernardo Bertolucci.

 

Una sfilata di stelle capace di abbracciare i gusti più disparati, una parata ideata per condurci chiaramente all’evento di sabato 28 aprile.

La sola Micaela Ramazzotti non ha potuto presenziare all’evento: a sostituirla, però, è arrivata Andrea Ferreol, protagonista de La grande abbuffata, film presente all’interno della retrospettiva dedicata a Marco Ferreri.

Nel corso della settimana, la città si è completamente trasformata.

 

Il Teatro Petruzzelli, universalmente riconosciuto come il salotto buono della città, è stato letteralmente preso d’assalto: ogni masterclass veniva vissuta in maniera vibrante da un pubblico che aveva una voglia immensa di nutrirsi delle parole dei protagonisti.

 

Nel frattempo, il Multicinema Galleria non ha mai smesso di ribollire: grazie a una programmazione straordinaria, le sale sono state piene per 15 ore al giorno e gli spettatori non hanno smesso un attimo di scambiarsi opinioni ed esperienze.

Che fosse in programma uno dei documentari di Werner Herzog, uno degli scabrosi film della retrospettiva su Marco Ferreri, una pellicola in concorso nel panorama nazionale o un classico prodotto da Franco Cristaldi, il risultato è stato il medesimo: un meltin’ pot sulla settima arte che ha coinvolto chiunque, in ogni fascia d’età.

 

In più, per chi come me avesse avuto la fortuna di ricevere un accredito, c’era la possibilità di intervistare numerose personalità giunte a Bari per parlarci dei film in concorso o per ritirare i propri premi. Inutile dirvi che ho passato i primi giorni della kermesse a sentirmi come Tobey Maguire alle feste di Leonardo DiCaprio ne Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann.

 

Dovevo, però, riprendermi in fretta dalla sbornia: gli ultimi due incontri del festival, quelli con Storaro e Bertolucci, stavano per arrivare e io dovevo essere il più lucido possibile, dovevo assorbire il meglio e portarlo da voi.

 

Quando, ormai giunti al giovedì, pensavo di averci fatto l’abitudine, arriva l’ennesima notizia in grado di sconvolgere i miei piani.

Nel corso di una conferenza stampa, Felice Laudadio ci annuncia che nella mattinata di sabato 28 avremmo potuto prender parte a un’anteprima riservata alla stampa di Ultimo Tango a Parigi, seguita da una conferenza stampa con Bertolucci che avrebbe preceduto la sua masterclass.

 

 

[Felice Laudadio: sceneggiatore, presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia e ideatore del Bif&st]

 

 

C’era la remota possibilità di fare una domanda a un artista di quel calibro: dovevo andarci, anche solo per guardarlo da vicino, per ascoltare cose che avrebbe detto a un pubblico così ristretto.

Con questo stato d’animo e in attesa di Vittorio Storaro, potete immaginare quanto abbia dormito nella notte tra giovedì e venerdì.

 

L’emozione, come ben sapete, gioca brutti scherzi: venerdì mattina sono stato il primo tra gli accreditati ad arrivare davanti al foyer del Petruzzelli.

Essendo però in corso la proiezione de Il Conformista, non potevo entrare fino a nuovo ordine: sono rimasto bloccato fuori 30 minuti ma, in compenso, ho fatto amicizia con il bodyguard.

Poi è arrivato il momento: ci hanno lasciati entrare e, cinque minuti dopo, eccolo nel foyer.

 

Vittorio Storaro, sorridente, ha stretto la mano agli organizzatori, ha firmato i poster di alcuni dei suoi film e si è concesso alle foto istituzionali: mentre tutto ciò avveniva, tutti noi attorno avevamo timore anche solo ad avvicinarci.

Sembrava fosse circondato da un cordone di sicurezza creato dalla nostra stessa ammirazione per lui.

Poi, improvvisamente, viene condotto verso la sala.  

 

Noi prendiamo posto, ci viene mostrato uno showreel in cui sono raccolti i migliori film della sua carriera e poi, accolto da uno scrosciante applauso, eccolo prendere il suo posto.

Con la stessa naturalezza con la quale ha piegato la luce alla sua volontà nel corso di tutta la sua carriera, ci ha presi per mano e ci ha condotti in un viaggio nella sua carriera che ci ha lasciati letteralmente senza parole.

 

Non c’è tema inerente al suo percorso che Storaro non abbia toccato: dal motivo per cui ha scelto di farsi chiamare “cinematographer” alla sua transizione dall’ombra alla luce, dagli inizi in bianco e nero alla scoperta del colore e dei suoi significati, dalla sua preparazione tecnica alla costante ricerca del ritmo che lo contraddistingue, dalla nascita del suo rapporto con Bertolucci alle collaborazioni con Francis Ford Coppola e Woody Allen, dal genio di Marlon Brando alla regia-recitazione “non usuale” di Warren Beatty.

 

 

[Vittorio Storaro sul palco del Petruzzelli per il Bif&st]

 

 

Ora, però, voglio raccontarvi due aneddoti inerenti alla fotografia di due capolavori assoluti, riportatici direttamente da Storaro.

 

Questa la storia sulla fotografia di Ultimo Tango:

“Quando Brando ha accettato di lavorare in “Ultimo Tango a Parigi”, ci ha detto che lo avrebbe fatto a patto che aspettassimo sei mesi perché lui aveva dei problemi familiari.


Questa è stata la mia fortuna, perché la sceneggiatura inizialmente prevedeva un film ambientato in estate.

Lo spostamento mi ha, invece, permesso di lavorare con un set invernale: questo ha portato a un cambiamento della luce.

Nei mesi precedenti all’inizio delle riprese, volavo ogni weekend a Parigi per cercare l’ispirazione giusta per quel film. Volevo ricreare una Parigi diversa da quella de “Il Conformista” in cui era il blu a dominare.

 

Così, camminando al tramonto con Bernardo per le strade della capitale francese, sono stato stregato dall’arancione che si allungava per le strade di Parigi mentre scendeva la sera.

Così è nato l’arancio di “Ultimo Tango a Parigi”. Io ancora non conoscevo il vero significato dei colori, ma ho sentito di volerlo utilizzare per il film”

 

 

Questo, invece, il racconto sulla nascita di una scena leggendaria nel capolavoro di Coppola:

“Come è noto, Marlon Brando è arrivato sul set di “Apocalypse Now” a riprese inoltrate. Era fuori forma e non aveva voglia di entrare regolarmente in scena.

 

Francis lo prese da parte per tre giorni provando a convincerlo ma Marlon sembrava non sentire ragioni.

Così, al terzo giorno, ricordandomi di una conversazione avuta con Coppola mesi prima a riguardo del senso del film, ho preso da parte Martin Sheen e la controfigura di Brando e ho preparato un minuscolo raggio di luce che fendeva l’oscurità.

Ho girato la scena e, quando Francis è tornato dalla sua chiacchierata con Brando, gli ho mostrato il risultato.

 

A lui è piaciuto e ha pensato che potesse piacere pure a Marlon.

Brando ha immediatamente detto che per lui avrebbe potuto funzionare, ma mi ha chiesto come potesse fare per trovarsi perfettamente illuminato dal raggio. Io gli ho detto di non preoccuparsi: io mi sarei messo lì con una piccola bandiera e poi lui avrebbe dovuto scegliere cosa e quanto illuminare di se stesso.

 

 

Il risultato è quello che vedete. Ha fatto tutto Marlon: un genio!”

 

 

Inebriato dalla forza evocativa delle parole di Storaro, mi sono concesso altri due film in concorso, prima di tornare a casa e (provare a) riposare, in attesa del giorno dedicato a Bernardo Bertolucci.

Prima di andare a dormire ho visto il video riassuntivo della giornata appena trascorsa, pubblicato dai canali ufficiali del festival.

C’era Valerio Mastandrea, premiato come miglior attore protagonista nella sezione opere prime, che ha dichiarato:

 

“Questo non è più un festival sottovalutato.

E io sono molto contento di questo.”

 

Già: non è più sottovalutato, questo piccolo festival ai confini sud-orientali del nostro paese.  

 

 

[Come essere rapiti sempre, sin dal primo sguardo, anche al Bif&st]

 

Inutile dirlo, l’anteprima stampa è stata un climax di emozioni.

Ho assistito al film con la stessa fame di chi è a digiuno di vero cinema, malgrado fossi ben conscio del fatto che avrei rivisto quella pellicola per ben due volte in un giorno.

Il restauro ha donato a Ultimo Tango a Parigi un fascino quasi ancestrale: l’arancione così fortemente voluto da Storaro è tornato a pervadere i film con tutto il suo calore, l’armonia tra corpi e macchina sembrava fosse stata appena generata.

 

Persino Marlon Brando e Maria Schneider sembravano ancora più belli di quanto ricordassimo.

Un lungo applauso dopo il film. L’ingresso di Laudadio, l’annuncio. Eccolo.

Non ci crederete, ma avevo davvero il cuore in gola.

 

Bernardo Bertolucci è entrato in sala, ovviamente, circondato dagli applausi di quella ristretta cerchia.

Si è detto emozionato per aver rivisto il film dopo tanti anni, ha detto che gli é sembrato di averlo girato poco fa e che avrebbe, forse, accorciato leggermente le parti con Maria Schneider e Jean-Pierre Leaud ma che forse gli servivano per sottolineare la distanza del personaggio di Marlon Brando.

 

 

Ci ha poi confessato di riconoscere una velata patina vintage sull’immagine che arriva ai nostri occhi, una patina che serve, però, per sottolineare l’età del film.

 

Poi si è concesso alle nostre domande.

Beh, parlare di “nostre” ora potrebbe sembrare un po’ esagerato e autoreferenziale ma, dopo gli interventi dei giornalisti delle più grandi testate italiane restava lo spazio per una sola domanda e, per fortuna, hanno portato il microfono da me.

 

Il Maestro aveva già ripercorso numerose tappe della sua carriera, dagli incontri coi grandi attori precedenti alla scelta di Brando alle difficoltà legali successive al film, passando per alcuni elementi del suo processo creativo.

Ci aveva già rilasciato dichiarazioni di una bellezza ammorbante.

 

“Inizialmente ero andato da Trintignant, con cui avevo appena fatto “Il Conformista”, ma lui mi disse che non avrebbe recitato nudo.

Allora andai da Jean-Paul Belmondo che era il mio idolo, visto che era il protagonista di “Fino all’ultimo respiro” di Godard, ma lui mi cacciò malamente dal suo studio dicendo che non avrebbe girato un porno.

 

Allora andai da Alain Delon, che invece era molto più liberale e disponibile, solo che voleva necessariamente anche produrre il film: capii che voleva in qualche modo avere un certo controllo sul film e a quel punto rifiutai io.

Poi, una, sera ero cena a Piazza Navona e, non ricordo esattamente come, venne fuori il nome di Marlon Brando.

 

 

 

 

 

In quel periodo lui era considerato in disgrazia ma noi non lo sapevamo e lui nemmeno, visto che viveva in un mondo tutto suo.

Riuscii a farlo venire tre giorni a Parigi, gli mostrai “Il Conformista” e dalla sua reazione capii che sarebbe andato tutto bene.”  

 

“Senza il ’68 non ci sarebbe stato Ultimo Tango.

Non ero un diciottenne, avevo 28 anni, ma comunque condividevo quegli ideali e spesso mi univo a quel coro di giovani.
“L’immaginazione al potere” e “Vietato vietare” sono degli slogan che rappresentano molto anche nella mia filmografia.

 

Per me il ’68 conserva una sensazione di freschezza indescrivibile, come se l’avessimo vissuto ieri.”

 

“Brando spesso ricorreva a dei gobbi su cui annotava solo parte del monologo, per richiamare alla memoria e far suo il copione.

Non è che aveva poca memoria, proprio non voleva imparare, voleva far sempre qualcosa di diverso, di suo.” 

 

“Quando l’ho convinto a fare il film lui mi ha detto di raggiungerlo a Los Angeles per parlare della sceneggiatura. Io ci sono andato, per la prima volta, in quella non-città che amo molto.
In quella sorta di grande parcheggio a ridosso del deserto, sono andato per un mese a casa sua, a Mulholland Drive, per lavorare alla sceneggiatura di Ultimo Tango, abbiamo passato giorni interi a parlare dell’estistenza, della cultura, di qualsiasi cosa, tranne che della sceneggiatura.


E io ero serenissimo così, perché voleva dire che non c’era alcuna difficoltà, alcun problema, che il ruolo era perfetto per lui.”

 

Ecco, dopo queste risposte mi serviva una domanda che creasse continuità con il percorso che avevamo vissuto fino a quel momento, così gli chiedo:

 

“Ieri Vittorio Storaro ci ha parlato a lungo della sua ricerca del ritmo. 

Un ritmo che, ovviamente, fa parte anche della sua filmografia grazie all’armonia dei suoi film tra uomini, musiche e macchina.

Qual è il rapporto di Bernardo Bertolucci con il ritmo, come nasce questo elemento dei suoi film?”

 

Bertolucci mi guarda un attimo stranito e poi risponde:

 

“Con ritmo si intende “il passo del film”? Non ho idea di cosa volesse dire esattamente Vittorio.

I miei film prendono ritmo principalmente grazie al montaggio.

 

Il ritmo armonico dei miei film viene sviluppato principalmente grazie al lavoro quotidiano, alla conoscenza reciproca, al naturale modo in cui si sviluppano i rapporti sul set.”

 

Lì per lì credevo di aver sprecato una possibilità unica.

Poi, però, ci ho riflettuto: siamo dinnanzi a due artisti giganteschi, quindi è davvero possibile che entrambi pervenissero a risultati simili pur partendo da ragionamenti diversi.

La loro lingua è quella del cinema, non sono mai serviti altri mezzi di comunicazione.

Ecco perché non avevano mai realmente concordato un significato comune per quella parola.

 

Arriviamo al Petruzzelli, Bertolucci viene accolto da una fiumana di gente ma non si scompone.

Ci racconta tutto il suo cinema, punto per punto, senza aver paura di pronunciarsi sui temi più spigolosi.

 

“Quando a seguito della censura di Ultimo Tango ho perso la possibilità di votare ci sono rimasto molto male: è come se qualcuno ti dicesse di non parlare per cinque anni.”


“Io scelgo i miei attori per il mistero che nascondono.

Recitare non è altro che dar forma a un personaggio partendo dalle zone oscure di noi stessi.” 

 

“Per anni ci siamo lamentati del fatto che il cinema italiano non fosse mai assurto al grado di “industria cinematografica”, come era avvenuto oltreoceano.

Poi mi sono reso conto di come non fosse possibile: una volta ero negli USA per girare per soli due giorni.

Al termine del primo giorno, la mia troupe mi ha chiesto dove mettere le macchine per il giorno dopo e io non ho saputo rispondere.

 

Come faccio a saperlo? Non so come sarà la luce, non so che ritmo avranno i miei attori, non so nulla.

In quel momento mi sono reso conto di come non fossimo pronti per diventare “industria”.

 

 

“Ho sentito che in Cina si dice che senza di me non esisterebbe il loro cinema moderno.
Quando ci sono andato io per girare L’Ultimo Imperatore, lì c’erano due cinematografie diverse: quella di Pechino, più realista e tendente al documentario, che era di matrice filo-sovietica, e quella di Shangai, più filo-hollywoodiana, che si lasciava sedurre maggiormente dalla frivolezza della finzione.


Io, in quei giorni, invitavo sempre sul set i giovani registi cinesi, tra cui Zhang Yimou, e dicevo loro di non aver paura di fare qualcosa di grande, di uscire dalla loro propensione a produrre piccoli documentari.

Non dovevano aver paura di pensare in grande.”

 

“Una volta ero a casa di Jean Renoir, grande regista di cui ero follemente innamorato, e lui mi disse “toujorus laisser une porte ouverte sur le set”.

Dovevo sempre lasciare una porta aperta sul set, lasciar fluire ciò che veniva da fuori, perché non potevo mai sapere ciò che sarebbe accaduto, ciò che mi avrebbe aiutato”  

 

Dopo queste dichiarazioni che hanno portato molti di noi quasi ai confini della Sindrome di Stendhal, il Maestro ha scelto di parlare anche di un avvenimento recente ma dall’enorme impatto nella storia del cinema:

 

“Ridley Scott ha accettato di sottostare a una logica razzista.

Quando ho visto ciò che era stato fatto a Kevin Spacey, ho avuto due reazioni: per prima cosa ho scritto un messaggio a Pietro Scalia, che cura il montaggio di quasi tutti i film di Scott, in cui dicevo “Dì’ a Ridley di vergognarsi”.

 

Subito dopo mi è venuta voglia di fare un film con Kevin Spacey.”  

 

 

Al termine di ciascuno dei suoi interventi, Bertolucci ha ricevuto un applauso e, prima che ci salutasse, il pubblico gli ha tributato una lunghissima standing ovation, che ha riportato di nuovo il mio cuore in gola.

 

Ero in piedi, avevo trovato un posto di fortuna su un palco laterale,un postazione scomoda dalla quale, però, ho potuto osservare l’incedere di un signore canuto che pian piano ha raggiunto il palco tra la folla festante.

Era Vittorio Storaro che, dopo raggiunto Bertolucci, si è piegato sulle ginocchia, per stare accanto all’amico di sempre in un momento così emozionante.

 

Con ogni probabilità è l’immagine più bella dell’intero festival, quella che porterò dentro più a lungo.  

 

Mancavano ormai poche ore all’Anteprima Mondiale di Ultimo Tango a Parigi.

 

Il Petruzzelli si è preparato all’evento assistendo alla versione restaurata di Nuovo Cinema Paradiso, a 30 anni dalla sua anteprima mondiale, avvenuta proprio a Bari nel 1988.

Sia Margarethe von Trotta che Giuseppe Tornatore sottolineano come in quasi nessun festival sia riscontrabile l’entusiasmo che ritrovano ogni volta a Bari.

 

La città era pronta ad accogliere il grande evento.

 

 

[Bernardo Bertolucci premiato da Giuseppe Tornatore e Felice Laudadio sul palco del Bif&st]

 

 

Vi è mai capitato di assistere a due standing ovation nel giro di pochi minuti?

A me sì, nella prima serata.

 

Nel giro di 10 minuti il pubblico si è alzato per ben due volte con l’intento di salutare Bertolucci, arrivato sul palco e premiato con il Fellini Platinum Award da Tornatore, mentre Vittorio Storaro li osservava dalla platea.

 

Ben 6 premi Oscar presenti nella stessa stanza. Incredibile.

Prima di lasciarci, Bertolucci si è lasciato andare ad un’ultima dichiarazione, volta spazzare via ogni foschia attorno a quella meravigliosa giornata:

 

“A chi non ha mai visto questo film, chiedo di immaginare e capire il contesto in cui è nato.

Non credete a tutto ciò che leggete, soprattutto se viene da internet.

 

Maria Schneider non è mai stata violentata da Marlon Brando.

Lui era molto paterno nei suoi confronti e lei era contentissima quando abbiamo completato il film.

In quella scena non c’è altro che la recitazione di due grandissimi attori.”  

 

Una nuova standing ovation.

Poi il buio.

Ecco nuovamente l’arancio di Vittorio Storaro.

 

Maria Schneider e Marlon Brando, belli come non mai.

Quell’Ultimo Tango.

 

La Settima Arte aveva fatto con noi quello che la primavera fa con i ciliegi.  

 

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