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Dossier 137 è il nuovo film di Dominik Moll presentato in concorso al Festival di Cannes 2025.
Nel Cinema di Moll la giustizia non è mai un concetto astratto, ma una materia viva, problematica e dolorosamente umana. Con Dossier 137 il regista firma un film teso e carico di implicazioni morali, capace di catturare l’attenzione dello spettatore senza mai abbandonare l’austerità della parola e della procedura.
È un thriller senza inseguimenti, un'indagine senza armi, un dramma che si consuma tra stanze grigie, faldoni e interrogatori; eppure raramente un film tanto parlato ha saputo tenere così incollati alla poltroncina.
[Una clip di Dossier 137]
Léa Drucker è Stéphanie Bertrand, agente dell’IGPN - l’organo interno che in Francia vigila sul comportamento e gli abusi degli agenti di polizia - chiamata a indagare su un episodio di brutale violenza da parte delle forze dell’ordine durante le manifestazioni dei Gilet Gialli del 1° dicembre 2018.
Il caso di Dossier 137 all’apparenza sembra semplice: un giovane manifestante è stato colpito alla testa da un proiettile antisommossa e si trova in prognosi riservata: bisogna stabilire chi ha sparato e perché.
L’indagine però si rivela subito intricata, piena di reticenze, omertà, versioni discordanti e, soprattutto, piena di ostilità da parte di colleghi e superiori dato che Stéphanie, come dice uno dei personaggi nel film, “non indaga sui criminali, indaga sui colleghi”.
Il lavoro di Dominik Moll e del co-sceneggiatore Gilles Marchand è chirurgico: la sceneggiatura costruisce l'indagine passo dopo passo, verbalizzando ogni fase della ricerca e utilizzando dialoghi espositivi non solo come strumento narrativo, ma come scelta stilistica coerente con l’ambiente burocratico e legale che il film rappresenta.
Gli spazi sono quelli chiusi e impersonali di uffici, camere d’albergo, corridoi anonimi e la tensione nasce tutta dal confronto, dallo scavo psicologico e dalla verità che emerge lentamente.
Dossier 137 è un’esercitazione di rigore narrativo ed è un film che sa far arrabbiare, che provoca frustrazione, che mette lo spettatore nella stessa posizione impotente della sua protagonista.
Moll non cerca facili assoluzioni né colpevoli caricaturali: raccontando un intero sistema scegliendo la sineddoche del caso isolato, il regista mostra come il potere (soprattutto se in divisa) tenda a proteggersi da solo e salvaguardarsi; le istituzioni si chiudono a riccio e chi cerca la verità viene visto come un traditore, non come un giusto.
In questo contesto la figura di Stéphanie Bertrand emerge con forza: è una donna metodica, contenuta, empatica e mai retorica.
[Léa Drucker in una scena di Dossier 137]
Léa Drucker la interpreta con una sobrietà che incanta: bastano uno sguardo, una pausa, un gesto per restituire tutta la complessità di un personaggio che non è una classica eroina, ma una professionista che cerca di fare il proprio lavoro nel modo più onesto possibile.
Emblematica in questo senso una (quasi) tenera scena in cui la protagonista salva un gattino sporco da un parcheggio sotterraneo e lo lava poi nel lavandino di casa seguendo un tutorial su YouTube; è un momento di Dossier 137 che sembra apparentemente fuori tono, ma che in realtà diventa rivelatore: Stéphanie si prende cura di chi è vulnerabile anche quando nessuno è interessato a farlo.
La tensione morale del film cresce di pari passo con l’indagine e quando Stéphanie scopre che la vittima proviene dal suo stesso paese natale la missione si carica di un coinvolgimento personale, che rischia di compromettere la sua oggettività.
Sarà proprio questa vicinanza emotiva - più che geografica - a rendere la donna ancora più determinata, anche se più fragile.
Dossier 137 mescola a mio avviso fiction e realtà con intelligenza.
Oltre al palese riferimento ai veri Gilet Gialli all’interno della narrazione vengono inseriti materiali d’archivio, video di reali manifestazioni girati con gli smartphone e immagini dalle telecamere di sorveglianza, una stratificazione mediatica che dà corpo e verità al racconto e che non risulta essere un mero espediente stilistico, quanto una precisa scelta politica: mostrare la carne viva della protesta e i volti dei giovani che sfilano pieni di speranza, prima che le manganellate inizino a piovere sulle loro teste.
Tra i momenti più forti penso di poter annoverare l’incontro tra Stéphanie e Alicia, una donna delle pulizie di un hotel che diventa fondamentale ai fini della risoluzione dell'indagine: il loro dialogo, pur leggermente sopra le righe, tocca le corde profonde della sfiducia, della rassegnazione e del giustificato timore di esporsi contro un sistema che punisce chi parla e difende chi sbaglia.
La verità però riesce a farsi largo proprio grazie a chi quotidianamente non ha voce.
[Léa Drucker e Jonathan Turnbull in una scena di Dossier 137]
Dossier 137 ha forse il limite secondo me di non andare mai davvero fino in fondo: in alcuni momenti il film sembra voler aggiungere tensione extra a una storia che ne ha già fin troppa e alcune svolte risolutive mi sono sembrate un po’ forzate.
L’opera possiede però in ogni caso il coraggio di affrontare la brutalità istituzionale senza concessioni né manicheismi, senza eroi di nessun tipo ma con una chiarezza e una dignità che raramente si vedono sul grande schermo.
“Ha fatto molto bene il suo lavoro, ma a cosa serve il suo lavoro?”
Questa terribile e oscura domanda è ciò che più resta addosso alla fine di Dossier 137, assieme alla certezza che film come questo servono eccome, per ricordarci che la giustizia, prima di essere pronunciata, va cercata.
Anche nei silenzi, anche da soli, anche quando il mondo intero ti odia per ciò che sai fare meglio.
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