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#top8

8 film crudi e spietati con al centro una meritata vendetta

Avete voglia di vendicarvi? Traete ispirazione da uno di questi 8 film! 

"Prima di intraprendere la strada della vendetta, scavate due tombe."

 

Questa frase, attribuita a Confucio, ben descrive il motivo per cui tanto ci attraggono le storie di vendetta, in particolare quelle che si svolgono sul grande schermo: da una parte c'è la soddisfazione della rivincita, della giustizia servita con le proprie mani quando non sembra esserci altra possibilità; dall'altra c'è il viaggio tortuoso che finisce per cambiare per sempre chi cerca ed esercita la vendetta, uccidendo il vecchio sé per sostituirlo con una versione diversa, più spietata e disillusa. 

 

Due tombe quindi: una per chi ha fatto il torto e una per chi serve il proverbiale "pan per focaccia", per metterla giù in termini più morbidi; ma se cercate delicatezza, siete avvertiti: qui non ne troverete. 

 

Negli otto film che la nostra redazione ha scelto per voi incontrerete crimini atroci, indicibili, tanto orrendi nella loro rappresentazione quanto tesi a investire lo spettatore nel più terribile (quanto profondamente soddisfacente) dei viaggi dell'eroe. 

 

D'altronde i racconti di vendetta si prestano particolarmente alla tipica forma del racconto in tre atti: all'inizio c'è il crimine, il torto subito da essere generalmente spregevoli ma in certi casi anche inconsapevoli; in mezzo c'è il progetto di vendetta, che segue il dolore e vede l'eroe (molto spesso l'eroina) abbandonare il vecchio sé per trasformarsi in una macchina di morte a orologeria; infine, tanto attesa, arriva la vendetta. 

 

Per quanto soddisfacente rimane però sempre un senso di incompiutezza, se non di futilità: è la lenta, ma inesorabile realizzazione che col nostro nemico siamo morti un po' anche noi.

 

Il fascino della vendetta non ha mancato di ammaliare i grandi Maestri del Cinema: pensiamo a François Truffaut e al suo La sposa in nero o a Harakiri di Masaki Kobayashi; al Cinema della New Hollywood, in particolare a Cane di paglia di Sam Peckinpah (in trasferta inglese) e a Rolling Thunder di John Flynn (scritto da Paul Schrader); per non parlare del genere classico per eccellenza, il western, con esempi illustri come Sentieri selvaggi di John Ford, I sette assassini di Budd Boetticher o quella pietra miliare di C'era una volta il West di Sergio Leone. 

 

Il film che forse si è rivelato più influente nel corso del tempo è La fontana della vergine di Ingmar Bergman (ce ne parla in questa Top 8 Fabrizio Cassandro), capace - in maniera abbastanza curiosa - di creare il sottogenere del rape and revenge, in un caso più unico che raro di Cinema di genere che nasce da quello d'autore.

 

A partire dal primo, ufficioso, remake del capolavoro di Bergman, il seminale horror L'ultima casa a sinistra di Wes Craven, il genere rape and revenge ha conosciuto nel tempo un'evoluzione che l'ha portato da storie in cui la donna era la semplice vittima da far vendicare da genitori o partner a pellicole in cui sono proprio le donne a farsi giustizie da sole. 

 

Il genere rape and revenge, di cui ha scritto un approfondito articolo Alessandra Vignocchi, ha saputo nel tempo abbandonare le radici puramente exploitation di film come Thriller, Non violentate Jennifer e Savage Streets (di cui vi parlo in questa Top 8) per diventare un vero e proprio baluardo del Cinema femminista, come ne L'angelo della vendetta di Abel Ferrara e nel recente Revenge di Coralie Fargeat, di cui ci parla qui Jacopo Gramegna, tornando prepotentemente alle radici d'autore del film di Bergman, senza rinunciare alla brutalità e alla secchezza del Cinema di genere. 

 

I film di vendetta non si limitano al rape and revenge: con Il giustiziere della notte di Michael Winner nasce infatti il sottogenere del vigilante, che rende Charles Bronson un'icona del Cinema d'azione; ma solo un anno prima Jack Hill e la sua "musa" Pam Grier ci deliziavano con Coffy, autentica pietra miliare del Cinema blaxploitation, come ci viene raccontato in questa Top 8 da Emanuele Antolini. 

 

Il tema della vendetta è particolarmente presente nel Cinema asiatico e in questa nostra Top 8 troviamo due esempi molto diversi: il primo è Lady Snowblood di Toshiya Fujita (raccontato da Lorenza Guerra), noto per aver ispirato Quentin Tarantino per Kill Bill, film che rappresenta un caposaldo dell'exploitation giapponese insieme alla serie Female Prisoner, con il quale condivide la protagonista, l'iconica attrice e cantante Meiko Kaji

 

Eris Celentano ci porta invece in Corea del Sud, ma non per parlare di Park Chan-wook e della sua Trilogia della Vendetta (Mr. Vendetta, Old Boy, Lady Vendetta) bensì del più crudo (se possibile) e compianto Kim Ki-duk, che con un film senza compromessi come Pietà ha vinto il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia.

 

Chiudiamo la nostra retrospettiva con altre due perle da scoprire o riscoprire: Alessandra Vignocchi ci riporta al Cinema di cassetta degli anni '90 parlandoci di un thriller sottovalutato come La mano sulla culla di Curtis Hanson, che da sceneggiatore aveva anche contribuito, negli anni '70, a un heist movie intriso di vendetta come L'amico sconosciuto; mentre Riccardo Melis punta i riflettori sul danese Riders of Justice, adrenalinico thriller d'azione venato di black comedy e interpretato da un sempre in forma Mads Mikkelsen.

 

Buona lettura e speriamo che le nostre scelte vi siano piaciute… nel caso vogliate vendicarvi di qualche omissione, mi raccomando: limitatevi ai commenti.

 

[introduzione a cura di Marco Lovisato]

 

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Posizione 8

La fontana della vergine

di Ingmar Bergman, 1960

 

Nel film tutto prende vita dall'innocenza tradita: la vendetta acquista così la dimensione del simbolo quasi teologico nel suo rapporto con la colpa.

 

La fontana della vergine, infatti, non si limita a narrare una storia di brutalità e giustizia, ma si innalza a un livello di astrazione e universalizzazione che riflette profondamente le influenze della formazione cattolica del Maestro svedese e la figura centrale nella sua poetica del padre Erik.

 

Svezia medievale: Karin è una giovane vergine che viene mandata attraverso un bosco per portare delle candele alla Madonna in un giorno di festa, accompagnata dalla serva Ingeri.

Durante il viaggio la giovane viene violentata e uccisa da alcuni pastori, scatenando la vendetta implacabile di suo padre Töre, vero protagonista del film. 

 

Il conflitto iniziale tra il rito pagano (Ingeri) e quello cristiano (Karin), centrale all'interno dell'analisi de La fontana della vergine, trova una parziale conciliazione (com'è parziale, se non fasullo, il sollievo che Töre cerca nella vendetta) proprio nella risposta alla colpa, una vendetta tanto umana quanto dalla gravità divina che si abbatte unendo entrambe le componenti mentre i simboli dell'una e dell'altra si mischiano. 

Töre emerge così come figura centrale con il suo percorso dalla decisione di vendicare la figlia fino all'evoluzione spirituale culminante nel miracolo della fontana: non è solo una rappresentazione della giustizia umana di fronte alla sofferenza, ma anche un confronto tra la figura paterna e quella divina, entrambe imperscrutabili e silenti, ma allo stesso tempo capaci di percepire la colpa e risponderle con severità.

 

Un'analisi della vendetta e della bestiale violenza umana che Ingmar Bergman sceglie di inserire in un contesto quasi espressionista, utilizzando simboli, contrasti e astrazioni per esplorare la psiche ed evidenziare la costante tensione tra la finitezza umana e l'infinità imperscrutabile di un divino violento e sordo messo in costante dubbio. 

 

Il tema della vendetta e l'innocenza tradita di Karin non sono solo quindi solo elementi di sviluppo narrativo, ma diventano veri e propri agenti di riflessione profonda sulla condizione umana.

Attraverso la discesa nella caverna cieca della vendetta di Töre, Bergman si interroga sulla natura umana così strettamente legata a quella del male, della colpa e della redenzione.

 

La fontana della vergine è un'intensa meditazione sulla fragilità dell'innocenza umana di fronte alla crudeltà del mondo e sulla complessa dinamica tra fede, colpa e perdono in cui spesso la brama di vendetta si inserisce, obbligandoci a confrontarci con i dilemmi morali e spirituali che permeano l'esistenza umana e la sua ricerca di senso.

 

Disponibile a noleggio su AppleTV

  

[a cura di Fabrizio Cassandro

 

Posizione 7

Coffy 

di Jack Hill, 1973

 

Una ragazza di dodici anni finisce nel giro della droga, venendo poi ricoverata in una clinica per disintossicarsi; la sorella, che lavora in ospedale, decide che non ne può più di questo mondo e inizia a prendere di mira e uccidere gli spacciatori.

 

Una trama molto semplice per un film che ha segnato la Storia del Cinema.

 

Coffy di Jack Hill è la pellicola che ha creato - al pari di Shaft - l’immaginario della blaxploitation, rendendo giustizia a una cultura (visiva, sonora, musicale nel linguaggio e perciò identitaria) sul grande schermo.

Se l’intreccio è dunque di per sé lineare - occhio però al colpo di scena finale - la violenza che viene mostrata in Coffy non lo è sicuramente.

 

Basterebbero i primi minuti del film per accorgersene, dove una Pam Grier all’apice della sensualità blackness spara in testa con un fucile a pompa a uno spacciatore urlando: “Questa è la fine della tua fottuta vita, figlio di puttana di uno spacciatore!”.

 

Da quel momento in poi Coffy è un tripudio di estetica black anni ‘70, con abiti e canzoni a fare da scenografia a un sottobosco criminale che non lesina su nessun aspetto della malavita.

 

Non è un caso che Quentin Tarantino abbia preso a piene mani da questo film, a partire dalla colonna sonora, ma soprattutto nella scelta come protagonista di Pam Grier per Jackie Brown.

 

Attrice, ma soprattutto star, Pam Grier incarna il desiderio non solo scopico di una generazione, ma anche politico.

 

Lei rappresenta l’atto di ribellione identitario contro il dominio fascista del popolo bianco su quello nero.

 

Una donna capace di scalare le gerarchie del potere criminale per scoprire che i panni sporchi si lavano in casa: un’icona di pensiero, un simbolo di libertà.

 

Ricordate: “No one sleeps when they mess with Coffy!”.

 

Disponibile su Amazon

 

[a cura di Emanuele Antolini]

 

Posizione 6

Lady Snowblood

di Toshiya Fujita, 1973

 

Lady Snowblood è un film giapponese del 1973 diretto da Toshiya Fujita, basato sul manga omonimo di Kazuo Koike e Kazuo Kamimura.

 

Il film è un classico del genere chanbara - sottogenere del Cinema giapponese che si concentra sulle storie di samurai e combattimenti con la spada - ambientato nel Giappone del periodo Meiji (1868-1912).

 

La protagonista Yuki Kashima, interpretata da Meiko Kaji, nasce in una prigione, concepita con l'unico scopo di vendicare la morte del padre e del fratello e lo stupro della madre, ad opera di una banda di criminali.

Sin da bambina Yuki viene addestrata per diventare un'arma letale, coltiva in sé una ferocia glaciale e un'inflessibile determinazione.

Il suo nome, che significa "neve", riflette la sua freddezza e purezza di scopo.

 

La storia è raccontata con una serie di flashback che rivelano gradualmente il passato tragico della protagonista e i dettagli della sua missione.

 

Il film è caratterizzato dalla sua stilizzazione visiva, come per l'uso abbondante del colore rosso sangue a contrasto con i paesaggi innevate.

 

Le scene di combattimento mescolano brutalità e bellezza in un balletto di morte.

La colonna sonora, composta da Masaaki Hirao, contribuisce a creare un'atmosfera carica di tensione e dramma.

 

Lady Snowblood esplora temi complessi come la vendetta, la giustizia e il destino e pone domande sull'inevitabilità del ciclo di violenza e sulle sue conseguenze.

 

La performance di Meiko Kaji porta sullo schermo un personaggio tanto implacabile quanto vulnerabile, il cui viaggio di vendetta è al contempo personale e simbolico.

 

Il film ha avuto un impatto duraturo sulla cultura popolare, ispirando registi e autori di tutto il mondo.

 

Quentin Tarantino ha citato Lady Snowblood come una delle principali influenze per il suo Kill Bill e le somiglianze tra le due opere sono evidenti, sia nella struttura narrativa sia nell'estetica visiva.

 

Disponibile su Amazon

 

[a cura di Lorenza Guerra]

 

Posizione 5

Savage Streets

di Danny Steinmann, 1984

 

Nel 1984 uscirono, a distanza di poche settimane l'uno dall'altro, due film che presentavano tra le loro caratteristiche un'eroina tosta e senza fronzoli e un certo gusto per i vestiti di pelle: uno era Terminator, l'altro Savage Streets.

Se il film di James Cameron è entrato (meritatamente) nell'immaginario collettivo cinematografico, quello di Danny Steinmann hanno cercato di farlo dimenticare il più in fretta possibile.

Lurido esempio di exploitation senza remore o rimorsi, Savage Streets nasce come veicolo per Linda Blair, l'indimenticabile Reagan de L'esorcista, che nel 1984 era riuscita a liberarsi dai ruoli di ragazzina, ma si era incastrata in un'altra nicchia, quella di sex symbol di b-movies.

Savage Streets, come molti prodotti exploitation degli anni '70, mischia generi e registri e sembra essere stato montato da diverse persone che non avevano letto bene le note lasciate dai predecessori: questo prima ancora che il film venisse brutalmente tagliato in fase di post-produzione, una volta scoperto il contenuto "un tantino" più spinto rispetto ad altri film dell'epoca. 

Il male gaze pervade tutto il film, colmo di scene di nudi gratuiti e lotte tra ragazze sotto la doccia, come era usanza dell'epoca, ma non furono le scene osé a provocare i maggiori problemi al film.

Savage Streets, infatti, contiene una delle più terribili scene di stupro di gruppo mai mostrate sul grande schermo: vittima nel film è la sorella di Brenda (Linda Blair), una ragazza sordomuta interpretata dalla scream queen Linnea Quigley, che l'anno dopo avrebbe interpretato l'indimenticabile punk danzante Trash ne Il ritorno dei morti viventi di Dan O'Bannon.

La gang perpetrante (gli Scars, composta da membri uno più spregevole dell'altro), non contenta, decide anche di lanciare da un cavalcavia la migliore amica di Brenda, per giunta incinta, scatenando la furia vendicativa della ragazza.

Coperta di pelle dal collo ai piedi e armata di balestra e trappola per orsi, Linda Blair crea un'icona trash difficile da dimenticare, isolando i suoi nemici uno ad uno in un terzo atto di gloriosa azione pulp.

Savage Streets, pur rientrando a pieno diritto nel sottogenere del rape and revenge, ha la particolarità di essere costantemente, terribilmente divertente, nonostante gli orrori messi in mostra: Steinmann infatti riempie il film di elementi da teen comedy ("The gang war of the sexes" era la tagline di lancio), tratteggiando le gang come gruppi di cosplayer de I guerrieri della notte, scegliendo un gruppo di criminali tra i più brutti visti sul grande schermo e farcendo il gruppo delle ragazze di attrici dal particolare sex appeal. 

Savage Streets è un ottimo esempio di exploitation "da cassetta", che respinge e attrae allo stesso tempo, forte di un'interpretazione di Linda Blair da annali del camp, premiata ovviamente con il Razzie Award.

Il film fu brutalmente tagliato in fase di censura dalla MPAA, per riuscire a convertire il suo X Rating iniziale (vietato ai minori) con un più morbido Rated R (vietato ai minori non accompagnati), nella speranza di guadgnarne al botteghino: il film passò da 93 minuti a poco più di 80, con gran parte dei tagli concentrati nella terribile scena di stupro.

Nonostante i problemi di censura, Savage Streets ottenne un successo sotterraneo grazie al passaparola degli appassionati ed è oggi considerato a tutti gli effetti un film di culto, ricevendo il trattamento blu-ray da Kino Lorber nella sua versione integrale. 

 

Un'occasione per recuperare un film che avrebbero voluto farci dimenticare, ma che a distanza di quarant'anni risulta ancora colpevolmente divertente ed emozionante, lasciando comunque al termine il bisogno impellente di farsi una doccia.

 

Disponibile su Amazon

 

[a cura di Marco Lovisato

 

Posizione 4

La mano sulla culla 

di Curtis Hanson, 1992

 

I Bartel sembrano proprio la famiglia perfetta: Michael è un ricercatore scientifico, ma anche un padre presente; Claire una casalinga con la passione per il giardinaggio incinta del secondo figlio; Emma la loro dolce e sveglia bambina.

 

L'eden coniugale viene bruscamente interrotto da una visita ginecologica in cui Claire viene molestata dal dottor Mott: la sua denuncia dà il coraggio ad altre donne di farsi avanti (profetico, se si pensa che l'attrice Annabella Sciorra è stata una delle testimoni chiave per il processo contro Harvey Weinstein), e l'infido ginecologo, piuttosto che affrontare la giustizia, si toglie la vita. 

 

Sei mesi dopo ha inizio la vendetta.

"Di chi?", vi chiederete: la moglie di Mott, Peyton, incinta come Claire, perde il bambino in seguito allo shock per la morte del marito e per le sue conseguenze finanziarie, e viene costretta a sottorporsi a un'isterectomia.

Fingendosi una babysitter in cerca di lavoro, la donna si introdurrà come una serpe sotto premurose e languide mentite spoglie in seno alla famiglia, cercando di prendere il posto - quel posto che le sarebbe spettato, se solo le cose fossero andate in altro modo - di madre, sostituendo o eliminando la figura che ai suoi occhi le ha tolto tutto: Claire. 

 

Al contrario di ciò che succede nella maggior parte dei revenge movie, che spesso presentano protagonisti dalla morale problematica - essendo la vendetta, quindi la giustizia autoamministrata, moralmente problematica di per sé - qui colei che esercita la vendetta non è la protagonista designata del film, ed è un personaggio che potremmo sommariamente definire negativo.

L'algida donna dai capelli biondi e dagli occhi di ghiaccio che vediamo creare fratture sempre più vertiginose all'interno della famiglia Bartel non è colei con cui il film vuole che ci allineiamo empaticamente.

Eppure, sempre senza appoggiarne le azioni, riusciamo bene a comprenderne le motivazioni: Claire ha indirettamente privato Peyton del suo ruolo di madre, usurpandoglielo, quasi, ai suoi occhi ciechi di rabbia.

In assenza di un colpevole immediato, la sua ira si è indirizzata sul capro espiatorio più vicino alla colpa, e l'irragionevolezza del suo agire non rende più ingiustificato il suo dolore. 

 

Il film mette sul piatto tutto e subito: noi sappiamo che la baby sitter è la vedova del dottore, sappiamo che ha perso il bambino, capiamo le sue intenzioni.

La mano sulla culla agisce quindi tutto sulla suspense, piuttosto che sulla sorpresa: per citare Alfred Hitchcock, noi sappiamo già che c'è una bomba pronta a esplodere e sta quindi tutto nella tensione creata dall'inconsapevolezza della presenza della medesima, che gradualmente si trasforma in allarme dei personaggi, nello scoprire come questa bomba è stata innescata e nella possibilità di disinnescarla prima che esploda.

Il film di Hanson è proprio uno di quei bei film classici che forse ormai non si fanno più.

 

Uno di quei bei thriller solidi, quasi confortevoli, dai risvolti di trama prevedibili ma dalle scelte registiche e di sceneggiatura talmente azzeccate e recitati talmente bene che, alla fine, non si può che essere soddisfatti di ciò che si è appena visto.

 

Disponibile su Amazon

 

[a cura di Alessandra Vignocchi]

 

Posizione 3

Pietà
di Kim Ki-duk, 2012

 

Kang-do (Lee Jung-jin) è un uomo solitario: abbandonato appena nato dalla madre e cresciuto nei sobborghi di Seul, si occupa di riscuotere crediti dai clienti per il suo strozzino.

 

Kang-do agisce in modo sadico e morboso, sprezzante verso chi si trova sul suo cammino e non si preoccupa di chi subisce le conseguenze dei danni - fisici e morali - da lui inferti.

 

 

Tutto cambia quando incontra Jang Mi-son (Cho Min-soo), una donna che sostiene di essere sua madre; dapprima Kang-do la tratta in modo violento e irrispettoso, ma pian piano inizia ad affezionarsi inevitabilmente a lei, cambiando lentamente prospettiva sul mondo. 

 

Non è la prima volta che Kim Ki-duk nella sua filmografia tratta la vendetta (altri esempi sono La samaritana, One on One, Bad Guy, Ferro 3…) ma forse è la prima in cui vi è uno specifico parallelo con la pietà, come se le due - pietà e vendetta - fossero facce della stessa medaglia e, in alcuni momenti, potessero addirittura combaciare.

 

Kang-do si muove come automa in un clima di disprezzo per ciò che lo circonda, pronto ad agire non solo per dovere ma anche per piacere personale, rinnegando qualsiasi pensiero positivo; al contrario Mi-son, afflitta e sofferente, viene condannata ad abbracciare una tragica sorte in cui nemmeno questa immensa tristezza basta a riscattare il dolore personale.

 

Un dolore talmente grande che converge persino nel provare pietà verso un uomo che ne è privo. 

 

La cattiveria, la brutalità, l’abuso di potere e il sangue non permettono a Mi-son di allontanarsi dalla pietà.

 

Questa pietà, però, è allo stesso tempo complice di un sentimento di vendetta in cui si rende inevitabile l’ammissione della fragilità umana di fronte alle ingiustizie, soprattutto nel momento in cui è difficile distinguere gli estremi dei due sentimenti.

 

La sensazione è che questi ultimi inizino a collimare, creando tra i due protagonisti un collegamento spirituale che è sia unione sia distanza, un loop di violenza inevitabilmente tormentato. 

 

Leone d’oro alla 69ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, la diciottesima pellicola di Kim Ki-duk è un inno ai sentimenti umani.

 

Puri o corrotti che siano. 

 

 

Disponibile su NOW e Sky Cinema

 

[a cura di Eris Celentano

 

Posizione 2

Revenge

di Coralie Fargeat, 2017

 

Ben sette anni prima di riscuotere un incredibile successo nel corso della 77ª edizione del Festival di Cannes con The Substance, vincitore del Prix du Scénario, Coralie Fargeat si era già distinta grazie al suo lungometraggio di esordio, accolto con grande entusiasmo dalla critica di tutto il mondo.

 

Al di là della strategia distributiva che lo vedeva pubblicizzato come "il primo revenge movie diretto da una donna", Revenge è un'opera che - come si può dedurre già a partire dal titolo - mira dritto al cuore delle tematiche che intende trattare, tralasciando ogni orpello. 

 

 

Tra gli orpelli di cui disfarsi, in questo caso, vi è ogni barlume di realismo, a partire dall'ambientazione: la pellicola è interamente ambientata in un non meglio precisato deserto, al centro del quale sorge la casa in cui la protagonista Jen, interpretata da Matilda Lutz, si rifugia con il suo amante Richard, alla vigilia di una battuta di caccia di quest'ultimo.

 

La vendetta che dà il titolo all'opera è quella di Jen contro il suo amante e i suoi amici cacciatori, Dimitri e Stan. 

 

A seguito di una violenza subita da parte di quest'ultimo, infatti, l'eroina non incontra alcuna comprensione da parte di Richard che, al contrario, tenta di ucciderla a sangue freddo, innescando un meccanismo che trasforma tutti i personaggi in scena in predatori e prede.

 

Revenge lavora, pertanto, su due piani: da un lato è un perfetto film di genere, dall'altro è un chiaro grido di ribellione contro la violenza sulle donne. 

 

Per esaltare questa doppia natura senza scadere in alcuno sbilanciamento, l'autrice si è servita di una messa in scena virtuosa, animata dai colori distorti di una fotografia che esalta tutti gli eccessi di un'opera intrisa di violenza, di incongruenze e di snodi di sceneggiatura tanto espliciti da non permettere a nessuno di ignorare l'ambivalenza del racconto.

 

Piegando secondo le proprie necessità i canoni di un genere tradizionalmente di pura exploitation, Coralie Fargeat ha aggiornato le regole moderne del rape and revenge, segnalandosi come una delle registe da tenere d'occhio nel panorama cinematografico odierno.

 

 

Disponibile su NOW e Sky Cinema

 

[a cura di Jacopo Gramegna

 

Posizione 1

Riders of Justice

di Anders Thomas Jensen, 2020

 

Un matematico, sopravvissuto a un incidente ferroviario, convince il marito di una delle vittime (Mads Mikkelsen) ad aiutare lui e i suoi due amici hacker a trovare e punire i presunti responsabili.

 

Secondo i suoi calcoli e le indagini condotte da loro in maniera non ufficiale, non si sarebbe infatti trattata di una tragica fatalità ma di un attentato causato da un'organizzazione criminale chiamata Riders of Justice.

 

Il film di Anders Thomas Jensen - ideato insieme al collega Nikolaj Arcel - segna l'ennesima collaborazione tra lui e Mikkelsen dopo Luci intermittenti, The Green Butchers, Le mele di Adamo Men & Chicken (ma volendo ci sarebbero anche opere non dirette, ma comunque scritte da lui come Dopo il matrimonio e il più recente La terra promessa).

 

Nonostante la premessa sembri quella del più classico dei revenge movie a tinte action, Riders of Justice sfrutta in realtà questo genere per affrontare tematiche non da poco: dall'elaborazione del lutto a come le persone provino a convivere con i propri traumi.

 

La vendetta come strategia messa in atto dai due protagonisti per andare avanti, trovando così un nemico da incolpare e a cui dare la caccia invece di fare i conti con i loro sentimenti.

 

Da una parte Markus, un soldato abituato a trascorrere buona parte del tempo lontano da casa e incapace di occuparsi da solo della figlia adolescente, sopravvissuta allo schianto e in pieno disturbo da stress post-traumatico.

 

Dall'altra Otto, alle prese con un altro lutto e adesso ulteriormente divorato dai sensi di colpa (avendo ceduto il suo posto a sedere alla moglie di Markus causandone involontariamente la morte).

 

Insieme a loro tutta una serie di personaggi ugualmente danneggiati e perseguitati dai rispettivi demoni, uniti da questa improbabile crociata e in grado di trovare uno scopo aiutandosi a vicenda in una via di mezzo tra gruppo di supporto e un'allegra famiglia disfunzionale.

  

 

Disponibile sul canale Superfresh di Prime Video

 

[a cura di Riccardo Melis]

 



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