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Cinema d'autore e di genere esistono davvero? - Cinerama 04

Elucubrazioni sterili su un'annosa questione

Cinema d'autore e Cinema di genere, due definizioni spesso usate per esaltare o per sminuire. Due come le domande chiave in una lettura critica: dove posizionare il confine tra questi due mondi, sempre che esista, e chi sia l'artefice di tale posizionamento.

 

Quesiti tanto semplici nella loro formulazione quanto di difficile risposta, viste le numerose forze che agiscono nel creare una separazione di questo tipo.

 

Istintivamente si sarebbe portati a credere che i fautori di questa scissione siano i critici, tanto esperti quanto, talvolta, spocchiosi.

 

Il pubblico non può però sottrarsi alle proprie responsabilità, visto che anch'esso contribuisce, più o meno direttamente, favorendo opere di facile lettura ad altre più complesse, almeno generalmente.

 

In tal senso, dobbiamo considerare anche i creatori stessi delle pellicole, per semplicità riassunti nella figura del regista, coloro che scelgono che strada imboccare di fronte a questo bivio, trovandoci così invischiati in un discorso in grado di comprendere l'intera macchina cinematografica, dall'ideazione alla produzione, dalla fruizione alla critica.

  

 

[Ciccio Ingrassia, regista e protagonista de L'esorciccio]

 

 

Nella storia della Settima Arte, due sono i momenti fondamentali per questa suddivisione in due macro-aree, una colta e una popolare.

 

Il primo è da posizionare negli anni '20, con la creazione di diversi ciné-club in terra francese per fruire delle opere dei movimenti avanguardisti del tempo, come l'espressionismo tedesco, l'impressionismo francese e la scuola sovietica.

 

Si trattava di opere di non immediata comprensione, non adatte al grande pubblico, che apportavano diverse sperimentazioni sul piano formale e contenutistico, talvolta puntando su una fruizione attiva da parte dello spettatore.

 

Il secondo momento centrale è da posizionare nella seconda metà degli anni '50, sempre oltralpe.

 

La Nouvelle Vague propone infatti in quegli anni la sua celebre "politique des auteurs", tanto favorevole a quei registi in grado di crearsi un proprio inconfondibile stile quanto avversa ai semplici "metteur en scène".

 

Ancora una volta ci si vuole allontanare dal semplice Cinema di consumo, d'intrattenimento, non in grado di creare significati ulteriori, più profondi (il come si cerchi di superare la classica fruizione passiva del pubblico è qui analizzato).

 

Individuati questi due momenti storici, passiamo a una definizione più dettagliata di Cinema d'autore e Cinema di genere, sempre ipotizzando essi esistano, e per semplicità in una prospettiva ampia faremo coincidere i concetti di Cinema d'autore e Cinema d'essai, affini ma non totalmente sovrapponibili.

 

 

[Claude Lelouch, Jean-Luc GodardFrançois Truffaut]

 

Con Cinema d'autore intendiamo un compartimento (troppo) stagno limitato a un numero risicatissimo di generi convenzionali, in particolare il drammatico e il sentimentale.

 

La sua principale specificità è la presenza di un canone rappresentativo univoco legato, per l'appunto, a un dato autore.

Un canone che si allontana dagli stilemi ritenuti tradizionali, cercando di creare una poetica, sia formale che contenutistica, personale e unica.

 

Lo scarto con il metodo di rappresentazione classico può essere dato da diversi elementi, volti in ogni caso ad attuare una certa sperimentazione nei confronti del modello consolidato.

 

Caratteristica centrale è anche la presenza di un piano ulteriore a quello semplicemente narrativo.

Raramente il Cinema d'autore smette di creare significato conclusa la trama.

 

Implicito o esplicito che sia è di norma presente, seppur non sia indispensabile, un livello altro, concettuale, in grado di andare oltre la comprensione fattuale delle vicende.

 

Questa seconda dimensione, che talvolta sfocia nel metafisico, aleggia costantemente durante la visione per poi esplodere dopo il suo termine.

 

Ciò rende possibili infinite speculazioni, anche in contrasto con la volontà dell'autore, che spesso risultano essere un succulento amo per la raffinata bocca di alcuni critici.

  

 

[Michelangelo Antonioni, qui con Monica Vitti]

 

Sull'altro versante troviamo invece il tanto bistrattato Cinema di genere.

 

Con tale termine, impiegato in maniera non univoca, ci riferiamo a una grande rosa di pellicole ritenute, a torto o a ragione, inferiori rispetto al Cinema d'autore.

Si tratta, infatti, di un Cinema considerato popolare in quanto facilmente fruibile, aderente a codifiche stilistiche e contenutistiche ben metabolizzate.

 

Nei suoi ranghi rientrano alcuni dei generi più diffusi, dall'horror alla commedia, dalla fantascienza al western, dal fantasy al giallo.

 

Sceglierne uno di questi, nella realizzazione di una pellicola, significa, sommariamente, partire con gli sfavori della critica e con i favori del pubblico.

 

E qui è bene aprire una breve parentesi.

 

È chiaro come questa sia una riflessione che abbraccia decenni e decenni di Storia del Cinema, e che quindi eviterà di soffermarsi su voci singole e sparute.

Ricorreremo dunque ad alcune semplificazioni, come quella presentata poche righe più in alto, basandoci su alcune macro-tendenze storiche.

 

Precisato ciò, ritorniamo al nostro discorso, passando ad altri aspetti.

 

Benché alcune pellicole afferiscano integralmente a un dato genere, è risaputo come questa suddivisione sia solamente convenzionale, e come esistano moltissime opere ibride.

 

Ci troviamo dunque dinnanzi a una classificazione imperfetta, raramente esaustiva, che può esserci utile solo in maniera marginale.

 

 

[Lino Banfi, nove anni dopo L'esorciccio, ne L'allenatore nel pallone]

 

Prendiamo poi in esame la questione autoriale, quella dell'autore in grado di fornire alle sue opere una personalissima cifra stilistica.

 

Abbiamo già visto come questa caratteristica investa in toto il cosiddetto Cinema d'autore, ma, ragionando a fondo, sarebbe errato asserire come essa non possa essere applicata in casi di opere appartenenti a generi considerati minori.

 

Presentiamo rapidamente un esempio sicuramente noto, pur sapendo quanti altri ne esistano, per ognuno dei sei generi sopracitati:

Dario Argento per l’horror, Woody Allen per la commedia, Ridley Scott per la fantascienza, Sergio Leone per il western, Guillermo del Toro per il fantasy, Alfred Hitchcock per il thriller.

 

Alzi la mano chi definirebbe anche solo uno di questi cineasti, recenti o passati, un non-autore, un regista non in grado di formulare una propria poetica distintiva.

 

Per quanto spazio possa essere lasciato al giudizio soggettivo, al gusto personale, è francamente oggettiva (sempre esista questa oggettività…) l'esistenza di uno stile proprio a ognuno di questi sei registi.

Non parliamo sicuramente di opere di mero intrattenimento, così come non parliamo di pellicole facilmente fruibili a tutti i livelli, che sì: comprendono spesso anche un piano concettuale.

 

Paradossalmente, pur prendendo in analisi un regista non amatissimo come Michael Bay, legato a un altro genere ritenuto basso, ci troviamo a considerare un Cinema comunque d'intrattenimento ma connotato da una coerenza formale, una firma d'autore.

 

 

[*insert a Michael Bay movie here*]

 

La discriminante, in questo caso, può essere a un primo livello il gradimento del pubblico e ad un secondo l'attenta analisi degli addetti ai lavori.

 

È comunque scardinato il paradigma della presenza di generi privilegiati, almeno a livello teorico.  

Cerchiamo quindi di ragionare in maniera meno dogmatica, meno legata alle convenzioni largamente accettate.

 

Come detto, i generi che più si prestano all'etichetta di Cinema d'autore sono quelli drammatico-sentimentali che, di norma, non fanno dell'azione concreta il proprio perno.

 

Quando si pensa al Cinema d'autore, o d'essai, ci si immagina istintivamente un Cinema complesso, spesso lento e dominato dal non-detto e dal non-fatto.

 

Penso per esempio a Michelangelo Antonioni, che ha visto nascere la propria fortuna, più di critica che di pubblico, proprio sulla sua Tetralogia dell'Incomunicabilità.

 

Un Cinema, quello di Antonioni e quello d'autore, fatto di sentimenti puri, di abilissime caratterizzazioni psicologiche, di valori universali travasati in vicende particolari.

E, ovviamente, i generi più indicati per una non-azione di questo tipo sono quelli sopra indicati.

 

Come detto sono generalizzazioni, basti pensare al Cinema, tanto bello quanto difficile, di Leos Carax, con il suo Holy Motors che certo non si può definire lento.

 

 

[Frame da Holy Motors, qui analizzato da Sebastiano Miotti]

 

Pensando alla componente immateriale, consideriamo ancora i sei registi prima associati ai sei generi, per compiere un ulteriore passo alla ricerca del confine tra i nostri due modi di definire il Cinema e per notare alcuni tratti interessanti nei loro lavori.

 

Per Dario Argento citiamo Suspiria: horror psicologico, mischiato col fantastico, che pone le sue fondamenta sul piano emozionale pur non disdegnando alcuni tratti molto più concreti, e che propone un sorprendente sperimentalismo cromatico.

 

Di Woody Allen consideriamo invece gran parte della filmografia dei primi vent'anni di attività, zeppi di commedie brillanti e dissacranti, che affrontano discorsi di grande spessore grazie a un'elevata verbosità.

 

Con Ridley Scott, riferendoci alla fantascienza, siamo dinnanzi a Blade Runner e Alien, che non hanno certo bisogno di presentazione, mentre usciamo dal seminato con Sergio Leone e la sua Trilogia del Dollaro, dei quali parleremo in seguito.

 

Il Labirinto del Fauno, nel quale il particolare stile visivo è coniugato a diversi livelli metaforici, ci porta poi nel suggestivo mondo di Guillermo del Toro, e Psyco ci mostra l'abilità del maestro del brivido tanto nella messa in scena quanto nella costruzione della psiche dei suoi personaggi e della tensione negli animi del pubblico.

 

 

[Janet Leigh prende lo shampoo]

 

Oltre ad aver superato i pregiudizi sul genere, queste cinque opere (escludendo, per ora, Leone) passano anche questa strana prova su materiale e immateriale, su concreto e astratto, dimostrando come esista un piano slegato dalla semplice progressione diegetica.

 

Nonostante tutto, pur considerando questi registi come grandi autori, non è però sempre immediata la collocazione nei ranghi del Cinema d'autore, e il motivo è presto detto. 

 

Il grande successo delle pellicole sopracitate, in termini di fama e/o di botteghino, sembra infatti quasi privarle del loro ipotetico status di film d'autore.

 

Presentando un altro esempio di sicuro impatto: un capolavoro assoluto della fantascienza e del Cinema tutto come 2001: Odissea nello Spazio è fortemente innovativo sia sul piano contenutistico che formale, ma la sua risonanza mondiale lo porta nel calderone del Cinema mainstream, assieme alla maggior parte dei titoli sopra riportati.

 

Bello, bellissimo, ma mainstream.

E, agli occhi di molti, mainstream e Cinema d'autore sembrano essere due poli opposti.

 

Dunque, Cinema mainstream e Cinema di genere sono due aree pienamente coincidenti in virtù della loro non-appartenenza al Cinema d'autore?

 

La mia risposta è no.

 

 

[Devo scrivere davvero qualcosa?]

 

 

Cosa rende possibile che il Cinema di Antonioni e quello di Kubrick sembrino non appartenere alla stessa categoria, sempre ammesso essa esista?

 

Il semplice fatto che il primo, per quanto abile, non abbia mai avuto lo stesso successo del secondo.

Il lasciapassare per appartenere all'oscura setta del Cinema d'autore sembra essere, infatti, la relativa “sconosciutezza”, abbinata comunque a una certa qualità.  

 

Certo, spesso le due cose vanno di pari passo: più un film è astruso più la sua diffusione presumibilmente sarà limitata, vista la preventivabile difficoltà di fruizione da parte dello spettatore medio.

 

Ma qualcuno avrebbe il coraggio di definire, ancora una volta, la filmografia di Kubrick, titolo più titolo meno, come di facile comprensione?

Io no.

 

Dunque solo ciò che sembra essere ad appannaggio di critici ed esperti, essendo ostico e fuori dagli schemi, risulterebbe meritevole della definizione di Cinema d'autore.

 

Come se essi cercassero di creare una categoria altra per elevarsi rispetto al pubblico generalista, il quale però, come abbiamo visto, fruisce non di rado di prodotti considerabili d'autore.

 

Ed è un discorso facilmente estendibile a tanti cinefili, veri o presunti, evitando di rendere la critica, che spesso si attira diverse antipatie, un conveniente capro espiatorio.

 

Chiaramente un alto grado di comprensione di un'opera cinematografica sarà più facilmente raggiungibile da un critico, in virtù delle sue conoscenze e dei suoi studi, ma ciò non comporta che la stessa opera non possa raggiungere il grande pubblico magari in prima serata su Canale 5.

 

Nel corso degli anni il Cinema cosiddetto d'autore è comunque sembrato richiudersi, più e più volte, su se stesso, rimpicciolendo sempre di più la sua nicchia.

 

Possiamo dunque abolire la definizione di Cinema d'autore se essa diventa un dispositivo autocelebrativo, spesso venato di elitismo e snobismo.

 

 

[Frame da La notte, di Michelangelo Antonioni]

 

Se invece consideriamo le premesse tecnico-teoriche in grado di identificare un film d'autore, e le applichiamo in modo rigoroso senza pregiudizi di alcun tipo, ci appare un altro scenario.

 

Uno scenario nel quale ad emergere è un Cinema di qualità vincolato alle specificità di un singolo regista, mainstream o underground che sia, prodotto a Los Angeles come in Burundi.

 

Fino ad ora abbiamo dunque considerato l'aspetto legato ai singoli generi e quello riguardante la componente, più o meno preminente, astratta, che rende il Cinema d'autore una sorta di Cinema per intellettuali.

 

Prendiamo adesso in esame alcuni prodotti che, al contrario, puntano su elementi molto concreti, che poggiano le loro basi sul dipanarsi fattuale delle vicende, senza inserire un forte sottotesto altro.

 

È il caso della Trilogia del Dollaro di Sergio Leone, che ha la propria forza nella componente diegetica e nel peculiare stile del suo regista (senza contare le musiche di Ennio Morricone).

 

È soprattutto quest'ultima componente a rendere Leone un autore a tutti gli effetti, in grado di formulare compiutamente una propria cifra estetica, su tutti i piani, superando la mancanza di un livello pseudo-intellettuale.

 

 

[Sergio Leone e l'Uomo senza Nome]

 

Passando al Cinema dell'orrore, vediamo alcuni suoi sottogeneri non propriamente psicologici, spesso caratterizzati da una cruda esposizione della violenza.

 

Due saranno gli esempi: David Cronenberg e Mario Bava.

 

Il primo, tra i massimi interpreti del Body Horror, ha esplorato in molte delle sue opere la spaventosa deformazione delle carni, con pellicole come Videodrome e La Mosca.

 

Il secondo, in parte ispiratore di Dario Argento, ha invece goduto almeno in vita di una fama ben minore, viste le sue particolarità e il basso budget delle sue pellicole.

 

Nelle sue opere, il regista sanremese ha tracciato la strada per numerosi sottogeneri horror, come lo Slasher e il Pulp, contraddistinguendosi per un particolare uso del colore e dello zoom, creando dei veri e propri cult movie.

 

Per entrambi i registi notiamo dei tratti artistici decisamente innovativi, se non sperimentali, in grado di fare scuola e di creare dei corpus filmici dalle firme indelebili.

 

Anche in questo caso, dunque, ci troviamo di fronte a due autori, nonostante la pura qualità tecnica delle loro pellicole non raggiunga i picchi di alcuni cineasti già considerati, soprattutto nel caso di Bava.

 

Cercando questo fantomatico confine tra Cinema d'autore e di genere, siamo quindi giunti a un'unica conclusione: autore è colui che è in grado di fornire un taglio stilistico e contenutistico, suo e solo suo, alle proprie opere.

Colui che riesce a rendere istintiva l'associazione del suo nome a pochi fotogrammi delle proprie pellicole.

 

Definiamo semplicemente così questo nuovo Cinema d'autore, lontano da ciò che è consuetudine collegare al termine.

 

 

[Il body horror di Videodrome]

 

Mettiamo ora invece sotto la nostra lente d'ingrandimento il cosiddetto Cinema di genere.

 

Come visto, la semplice appartenenza di un film o di una filmografia a un dato genere non basta più per determinarne la collocazione, né tantomeno la qualità.

 

È quindi utile spazzare via senza indugi questa definizione, fuorviante e spesso utilizzata con connotati negativi, cercando di tracciarne in modo nuovo i contorni.

 

Calza a pennello, per farlo, il già visto modello della Nouvelle Vague, smussato però da certi estremismi.

 

Schierata interamente a favore degli autori, la scuola francese utilizzava l’etichetta di "metteur en scène" in modo denigratorio, banalizzando il lavoro di molti.

Si sosteneva infatti che l'opera errata di un autore fosse sempre e comunque superiore all'opera riuscita di un "metteur en scène".

 

La separazione da loro proposta ha grande rilevanza nell'economia della nostra riflessione, perlomeno spogliata dal suo sottotesto ideologico.

 

Possiamo mettere da un lato, in modo comunque non pienamente univoco, la nostra nuova concezione di Cinema d'autore, e dall’altro un Cinema fatto da "metteurs en scène", intesi in maniera non dispregiativa.

 

Questo secondo lato presenta un limitato interesse per la sperimentazione formale, mettendosi più al servizio della storia e/o dell'intrattenimento puro.

 

Non vi è affatto nulla di disdicevole in ciò visto che, tenendo la mente aperta, possiamo trovare grandi registi da un lato come dall'altro, con lo stesso discorso applicabile alle grandi pellicole.

 

 

[François Truffaut, che ha ben definito il concetto di metteur en scène nel 1954]

 

Prendiamo come esempio Via col Vento, drammone storico uscito nel 1939 e diretto da Victor Fleming.

 

Si tratta, valutando il tasso d'inflazione, della pellicola più redditizia della Storia del Cinema, capace di raccogliere l'equivalente attuale di circa 3,7 miliardi di dollari.

 

Il film è una delle massime espressioni del Cinema classico hollywoodiano, dispiegatosi per circa quarant'anni, caratterizzato da una decisa fissità stilistica in nome dell'invisibilità della forma, e quindi non è un caso che il regista di una pellicola dal successo simile sia, generalmente, poco ricordato.

 

Ci troviamo a considerare un regista dall'impronta formale limitata in grado di confezionare un capolavoro.

 

Per quanto in Via col Vento sia fondamentale la sceneggiatura, la sua messa in scena volontariamente non invasiva risulta pur sempre, appartenendo il Cinema al campo dell'audiovisivo, un elemento di assoluta rilevanza, per quanto essa possa essere invisibile.

 

Gironzolando nella classifica storica degli incassi, un ragionamento simile è estendibile anche al recente Avengers: Endgame, firmato dai Fratelli Russo, ottima espressione del Cinema d'intrattenimento.

 

Dubito che i due, fra qualche decennio, saranno ricordati. 

Piuttosto lo sarà questo loro film, il quale, checché se ne dica, è indubbiamente una tappa centrale dal punto di vista storico.

  

Abbiamo così sostituito il Cinema di genere con un Cinema trasparente, provvisto solo marginalmente di una patina artistica autoriale, che preferisce adeguarsi in toto alle convenzioni formali del proprio tempo.

 

 

[Clark Gable e Vivien Leigh in un film trasparente]

 

Dall'altra parte abbiamo il Cinema d'autore, inteso però non come sinonimo di qualità, ma solo come un tipo di Cinema caratterizzato da uno stile legato indissolubilmente a un singolo regista, a prescindere dalla sua bravura.

 

È naturale che una fama duratura sia più facilmente raggiungibile da un autore, ma il semplice fatto di essere tale non lo pone in una posizione privilegiata per quanto riguarda il successo o meno delle sue opere, e il caso di Via col Vento è, in tal senso, fortemente esplicativo.

 

In ogni caso è allo stesso tempo chiaro come, in una prospettiva artistica, sia più apprezzabile un autore che sceglie di rischiare per proporre la propria, personalissima, poetica.

 

Sebbene sia il nuovo Cinema d'autore che il Cinema trasparente possano raggiungere altissimi picchi qualitativi così come risultati infimi, ha senso, da un punto di vista critico, considerare superiore un'opera d'autore in un ipotetico confronto alla pari con un'opera "trasparente".

 

Torniamo così, semplificando, ad associare al (nuovo) Cinema d'autore il favore della critica, e a quello trasparente il gradimento generale del pubblico, quasi ritornando al punto di partenza.

 

Abbiamo però ridefinito i due contenitori, mettendone uno in una subalternità solamente leggera, capace di palesarsi solo quando si considerano due opere dal valore molto simile, almeno da un punto di vista pseudo-oggettivo.

 

Nulla impedisce, comunque, a un regista-autore di creare un'opera convenzionale, trasparente, e ciò vale naturalmente anche per il caso contrario, visto che le due categorie non sono affatto eterne, assolute o infallibili.

 

 

[Mario Bava, autore a tutti gli effetti]

 

Potete interpretare tutto questo discorso come una fantasiosa supercazzora, che si diverte a cambiare il nome dell'etichetta ma non l'etichetta in sé, che campa su una retorica forse fine a se stessa, che però spera almeno di aver indotto una qualche riflessione cercando di superare il vincolo dogmatico che avvolge le definizioni di Cinema d'autore e Cinema di genere.

 

Per quanto le conclusioni raggiunte in questa analisi possano soddisfarvi o meno, la domanda che compone il titolo rimarrà inevitabilmente senza risposta.

 

Vi ho presentato la mia personale prospettiva, tutto fuorché inconfutabile e assoluta, che potrà servire a gettare luce, almeno in modo parziale, su un argomento d'interesse così come potrà risultare completamente futile e improduttiva.

 

Ringrazio Alessio Fanelli per aver proposto l'argomento, e vi ricordo del sondaggio che avviene, ogni due settimane, sul gruppo Facebook Cinefactsers!.

 

Cinerama Out.

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