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Sul film etnografico: Parte 2 - Jean Rouch e questioni pratiche - Cinerama 20

Percorsi senza conclusione, tra prassi e teoria 

Dopo un intermezzo dedicato a docudrama e docufiction, termini magari poco utili, vediamo di continuare il nostro discorso sul film etnografico approcciando autori che non siano Robert J. Flaherty e tracciando altre piste teoriche.

 

Piste che potranno talora scontrarsi con quanto già detto, anche in maniera implicita, per mostrare la complessità di un groviglio di questioni che conducono alle radici storico-ontologiche del mezzo cinematografico.

 

Come abbiamo visto, le pellicole di Flaherty potrebbero essere considerate degli esempi di docufiction e opere filo-etnografiche; tuttavia, riflettendo sugli elementi marcatamente finzionali presenti in Nanuk l'eschimese e in L'ultimo Eden, abbiamo accantonato un tema centrale, quello etico.

 

 

[Vista la natura dell'articolo, che si presta solo saltuariamente ad associazioni iconografiche, presenterò perlopiù immagini di film diretti da Jean Rouch. Iniziamo però con un frame da Nanuk l'eschimese, per ribadire la continuità rispetto agli articoli precedenti]

 

 

Abbiamo già evocato la problematicità intrinseca alla relazione osservatore-osservato, tramite concetti come quello di privilegio, ma forse, al di là di considerazioni più storico-tecniche, possiamo rinvenire proprio lì ulteriori appigli per scolpire - andando verso il non-finito - una definizione accettabile di film etnografico e non solo.

 

Tra i tanti, il teorico francese François Niney si è soffermato su tale questione etica, accogliendo un terzo attore: per lui, come riporta Ivelise Perniola, autrice di uno dei testi recenti più stimolanti sul Cinema (post)documentario, "ciò che conta è il grado di sincerità espresso dal testo e dall'autore nel doppio rapporto che egli instaura con i soggetti ripresi […] e con il pubblico".

 

Forse il Cinema è sempre uno scoprire l'altro da sé, o forse è uno scoprirsi di continuo, o forse, ancora, è entrambe le cose: questo vale - in termini di rapporto con la realtà fenomenica - soprattutto nel caso del documentario e della sua (?) variante etnografica, e vale inoltre per tutti gli attori in gioco, in modi diversi che richiedono, in ogni caso, un'attenta considerazione delle dinamiche messe in moto dall'immagine documentaria.

 

Non mi riferisco all'immagine tout court, poiché quella documentaria - in un'accezione anche vaga - presenta delle peculiarità che rendono assai pressante la questione etica, e il menzionato legame con la realtà dei fenomeni è un primo punto che la demanda.

 

A prescindere dalle inevitabili modificazioni apportate da cinepresa e cineasta e a prescindere dallo statuto ontologico dei fotogrammi risultanti, cinepresa e cineasta - "occhio inconscio" e "occhio cosciente" la cui identità è postulata dal filosofo Jacques Rancière - si trovano ovviamente alle prese con un profilmico diverso, ora più ora meno, da quello del classico Cinema di finzione.

Esigere un rapporto etico con un mondo reale, con degli attori sociali, non pare dunque insensato, specie nell'ottica delle molteplici possibilità di adulterazione.

 

Il secondo punto riguarda invece la prospettiva spettatoriale: il fruitore medio - o un fruitore ipotetico creato ad hoc, da noi - di un film documentario tende infatti a far propria un'idea simil-platonica di copia, a stringere moltissimo le maglie dell'interazione immagine-mondo.

 

Proprio a tal proposito Rancière parla di un "privilegio" della forma/concezione documentaria, la quale non è appunto "costrett[a] a produrre il sentimento [corsivo originale, n.d.r] della realtà" a differenza della tradizionale controparte finzionale, potendo di conseguenza "trattare la realtà come problema".

 

Quest'illusione si connette ad un'altra componente: citando Perniola, il documentario difatti "inibisce la libido [che orienterebbe la ricezione delle pellicole di finzione, n.d.r.] e favorisce […] un desiderio di conoscenza, molto vigile e razionale", costruendo così una dinamica sfruttabile in chiavi parecchio divergenti, valutabili dal punto di vista etico prima che a livello di informatività, specie alla luce delle proposte del teorico Roger Odin.

 

 

[Jean Rouch] film etnografico

 

 

Riallacciandoci a Niney, la sincerità è così un parametro di rilievo, da non confondere col concetto di aderenza alla realtà, o almeno con un'aderenza ingenua.

E sincerità non vuol dire, banalmente, girovagare armati (!) di cinepresa pronti a catturare la realtà, in quanto ciò presupporrebbe come minimo il reputare la realtà catturabile (o catturabile in tal modo) e - insieme - non reputare la cinepresa un'arma, specie in senso politico-ideologico.

 

Ancora Perniola affronta il tema, svalutando - nel riflettere sull'azione pedagogica - una candida e impossibile immediatezza e valorizzando il ruolo di una mediazione artistica consapevole anche sul piano etico.

Ecco allora sorgere, in relazione alle nozioni di sincerità e di mediazione, degli interrogativi legati in profondo alla prassi etnografica.

 

Prima di fronteggiarli, apriamo però una voragine non certo connessa al solo campo antropologico-etnografico: un criterio di eticità è, del resto, un criterio di valutazione o di definizione?

Può indurci a bollare un prodotto ingannevole, posto(si) come documentario, come pessimo o addirittura non-documentario?

 

Senza avviare un dibattito riguardante l'etica in sé (o le etiche, in un altro senso gravido di significati), è evidente come il tema sia spinoso: ad esempio, al netto dalla querelle valutazione-definizione, non è scontata l'equiparazione di consapevolezza e inconsapevolezza, e resterebbe pure da capire come approcciare scorrettezze e/o errori dal peso diseguale.

 

Non andiamo oltre e riprendiamo dalla prassi, considerando la coppia di direzioni della sincerità nominate da Niney e partendo da un primo quesito circa il rapporto autore/attori: essere sinceri vuol dire rifiutare ogni manipolazione?

Per poter abbozzare una risposta, è doveroso problematizzare (gli effetti del)la nozione di manipolazione.

 

Possiamo distinguere due sensi di tale nozione, corrispondenti ad altrettante famiglie ideali che, sommate, occupano sì tutto lo spazio del testo (ovvero del film) ma non tutto il lavoro etnografico: manipolazione del profilmico e manipolazione compiuta attraverso il filmico.

 

Nel primo caso si potrà imporre un controverso cambio di abbigliamento così come forme medie/forti di recitazione, nel secondo si potrà sfruttare il potere connotante del montaggio per selezionare o accostare (creativamente? immoralmente?) solo certi frame.

 

Com'è ovvio, siamo di fronte a fenomeni dall'impatto di norma recepito in maniere parecchio differenti: l'intervento massiccio sul profilmico è sovente stigmatizzato, mentre un montaggio creativo - al netto di omissioni lampanti - pare più spesso protetto in nome della libertà espressiva del documentarista.

 

 

[Un frame da Cronaca di un'estate (1961)]

 

 

Passiamo ora alla specifica forma etnografica, la quale si contraddistingue per la centralità di una volontà descrittiva che non può prescindere dall'eticità: ogni azione diretta (ma anche indiretta, se reputiamo indiretta la mera presenza di cineasta e/o cinepresa) concernente filmico e profilmico interpreta un mondo al tempo stesso vivo e, cinematograficamente, inerte, ma qui si tratta di soppesare esiti, finalità e tracciare dei confini.

 

Guardando al profilmico, quando Flaherty, per L'ultimo Eden, determina il ricorso a costumi desueti, compie un operazione etnografica, filo-etnografica o non-etnografica?

Di fatto egli cambia le carte in gioco, non si accontenta - per una ragione o per l'altra - di cogliere l'attuale, dunque (da non-specialista) rifiuta una visione strettamente etnografica, quella marcata dall'inscrizione in un certo orizzonte scientifico-accademico.

 

Sorge allora un ennesimo quesito, collaterale ma non troppo: etnografia e filo-etnografia, che in questo viaggiano a braccetto, sono branche/approcci legati solo all'attuale del momento delle riprese?

E segue una provocazione: come giudicare un film di finzione dedicato ad un aggregato umano ben definito - immaginiamocene uno lontano dalle consuetudini occidentali, per semplicità - e caratterizzato da un profilmico ricostruito con la massima accuratezza filologica?

 

Tralasciando aspetti narrativi e identità degli interpreti, quale valore possiamo attribuire a una capanna tanto fedele, magari validata da esperti del settore, quanto lontana chilometri (e/o anni) dal contesto di riferimento?

Il tutto si complica volgendo poi lo sguardo a tecniche come il green/blu screen (più che la CGI), a una capanna immersa in riprese reali del contesto effettivo.

 

Il nodo risiede nel gioco tra (eventuale) verità e apparenza filmica, nella differenza che passa tra copia e originale: per vie traverse, ci riallacciamo insomma al rapporto autore/soggetto-mondo su cui la filosofia s'interroga da millenni e in relazione al quale, pertanto, pare necessario assumere un abbozzo di posizione.

 

Molto approssimativamente, vediamo il mondo come qualcosa di dato a livello sensibile ma non ontologico, almeno non del tutto, e come essenziale l'intervento interpretante del soggetto, un intervento primo a cui è possibile concatenarne un secondo, quello artistico.

 

L'incontro tra il cineasta e una specifica porzione di mondo è dunque fondante, in due momenti/sensi: egli piomba in un certo orizzonte percettibile e, relazionandosi con esso nel concreto, lo altera, e proprio a ciò si ricollega l'ampiezza del lavoro etnografico

 

Per realizzare un prodotto artistico, può poi decidere di imboccare due strade non direttamente filmiche, quella del distacco o quella dell'interazione: può, semplificando, arrivare in un villaggio armato di cinepresa e filmare fin da subito o può entrare in contatto con la comunità a telecamere spente.

 

Qual è la modalità più sincera, quale la più mediata, quale la più rispettosa?

 

 

[Un frame da Cronaca di un'estate] film etnografico

 

 

Il distacco potrebbe sembrare indicato per cogliere una realtà pseudo-oggettiva da una prospettiva neutra, ma di nuovo, ciò presupporrebbe una fiducia nei concetti di neutralità e oggettività, fiducia minata già esaminando il comportamento degli individui ripresi.

Se questi fossero coscienti di essere inquadrati manifesterebbero perlomeno un grado zero di recitazione, nel senso qui inteso, mentre in caso contrario i dubbi sarebbero di ordine etico: penso a una candid camera che proprio genuina non è (anche mettendo tra parentesi tale ottica).

 

In potenza, le modalità adottate in fase di ripresa e soprattutto in post potrebbero comunque connotare in modo peculiare il distacco, ad esempio ponendo in rilievo la presenza di una mediazione e problematizzando tanto questa quanto le possibilità conoscitive del mezzo Cinema e del cineasta.

Tuttavia, in un caso simile l'elemento davvero etnografico scivolerebbe forse sullo sfondo, a favore del metalinguismo e/o di una voluta disamina delle sole apparenze e magari dei relativi pregiudizi.

 

Possiamo in ogni caso trarre da ciò degli elementi di sicuro interesse, elementi che paiono generare un connubio perfetto se messi in relazione al secondo approccio, quello interattivo, in cui il regista diventa un "cineasta-palombaro che si immerge nel reale" e crea una relazione con certi individui della comunità in questione, una relazione che nondimeno non può poggiare solo sulla naïveté, specie a seconda della distanza culturale tra gli attori in gioco.

 

Michele Mellara e Alessandro Rossi, registi e docenti, espongono con efficacia il problema, assai pressante nella variante etnografica:

"Il documentario […] richiede, oltre a qualità linguistiche specifiche, sensibilità e curiosità non strettamente cinematografiche dalle quali più facilmente un autore di fiction può prescindere.

 

Il documentarista non è solo regista: è ricercatore eclettico, antropologo, sociologo, in grado di porsi in relazione con persone e luoghi non solo attraverso la lente della videocamera".

 

Non si tratta di passare necessariamente mesi o anni tra la comunità eletta o di rendere obbligatorio un qualche percorso accademico, ma di possedere strumenti, certo non innati, per innestare uno scambio sincero e reciproco, ad esempio - lanciando ancora lo sguardo a Bronisław Malinowski e Flaherty – per "afferrare il punto di vista dei soggetti osservati".

 

Il processo filmico, in senso ampio, non si ferma ovviamente a tale stadio, preliminare e imprescindibile, considerando come subentrino poi delle problematiche circa il rapporto (manipolatorio) col profilmico, ora esaminato in relazione alle fasi di progettazione e ripresa.

 

Alcune delle questioni principali riguardano elementi segnalati come sincerità e mediazione, altre concernono nello specifico il cosa mostrare.

 

 

[Un frame da Cronaca di un'estate] film etnografico

 

 

Il tema relativo alla sincerità si risolve appellandosi al concetto di fiducia, come sottolineato in altri termini dallo studioso Daniele Dottorini: fiducia nella sincerità delle immagini e fiducia nell'eticità del lavoro etnografico, del rapporto autore/soggetto.

 

È proprio il tratto comune a molte nozioni qui riportate a essere utile, in quanto il modo di produzione documentario di Odin, il privilegio di Rancière e il desiderio di conoscenza di Perniola sono linee da intersecare e punti di partenza.

Del resto, il processo tramite il quale lo spettatore classifica-identifica ciò di cui sta fruendo è alla base di una fiducia dotata di caratteri talvolta ambigui, e di conseguenza conviene trattare di nuovo le pellicole di Flaherty, correlabili alla nostra definizione di docufiction.

 

Per Odin, tale processo classificatorio non dipende solo da ciò che è impresso su celluloide: scrive Perniola che questo è sovente guidato da marche paratestuali, dunque esterne al testo, quali una recensione o una pagina di Wikipedia.

Quasi sempre il fruitore parte allora, dopo aver accettato le informazioni esterne, con un pregiudizio non irrilevante, pregiudizio che dovrà confrontarsi - in seconda battura e partendo in vantaggio - col film.

 

Già qui sorgono almeno due questioni, una relativa al (secondo, dopo quello nel paratesto) atto di fiducia e una proprio al paratesto.

La fiducia accordabile alla pellicola, infatti, non è certo granitica: ogni fotogramma si pone come ideale banco di prova, e gioca un ruolo importante pure la disposizione dei segnali paratestuali e testuale, visto che pare lecito ritenere difficoltoso il cambiare rotta interpretativa dopo aver ricevuto-ricavato e accolto un buon numero di segnali coerenti, specie dinnanzi ad avvisaglie non univoche.

 

Nanuk l'eschimese, ad esempio, non mostra indizi chiarissimi, anche alla luce della sua collocazione cronologica, e lo spettatore-tipo potrebbe approcciarlo come un documentario, come il primo lungometraggio documentario della Storia del Cinema.

Potrebbe poiché un certo tipo di paratesto lo consente e anche poiché valutazioni, termini e significati possono divergere: ci connettiamo dunque alla seconda questione, contemplando le problematicità dello stesso paratesto e saltando di caso ideale in caso ideale.

 

Il rapporto tra questo e il testo di riferimento può del resto essere complesso: può ad esempio fondarsi su di un errore, come nel caso di un portale online di una catena di sale recante una dicitura errata (specie ragionando nei termini di un'opposizione netta documentario/finzione), o può scricchiolare di fronte a opere difficili da incasellare, vuoi per motivi linguistici vuoi per ragioni concettuali.

 

Nel primo caso, sarebbe probabilmente l'opera a manifestare - in maniere più o meno dirette a seconda della familiarità del linguaggio - la propria alterità rispetto alla definizione, mentre nel secondo si potrebbe invece innescare un processo di continua negoziazione della fiducia (o meglio, di un certo tipo di fiducia).

 

 

[Un frame da La pyramide humaine (1961)]

 

 

Oltre a ciò, la nozione di fiducia chiama in causa anche quella di mediazione: abbiamo già parlato del doppio intervento interpretante del cineasta, composto da azione non-artistica e azione artistica, pertanto pare sensato procedere coniugando, almeno in parte, le questioni.

 

A prescindere dallo stadio preliminare, l'effettivo processo realizzativo si scontra difatti con quell'identità tra occhio inconscio e occhio cosciente che talvolta - documentario in primis - è recepita in modo opinabile, privilegiando la passività della riproduzione tecnica e scivolando dalle parti della copia della realtà e/o dell'oggettività.

 

Di conseguenza, sposando il punto di vista inverso, parrebbero disponibili e auspicabili almeno due soluzioni, entrambe fondate sull'esplicitezza: esplicitare la presenza di una mediazione linguistica anche solo a livello visivo, ragionando così su limiti e possibilità del mezzo Cinema e dell'autore; esplicitare (e riflettere sul)l'esistenza di un rapporto tra osservatore e osservato.

 

Reputo essenziali atti di questo tipo, convergenti verso un'esigenza di problematizzazione, di problematizzazione di un reale che è sempre tale per un soggetto e, al contempo, di problematizzazione delle forme artistiche tramite cui, inevitabilmente, mutarlo.

 

Un ipotetico parametro (scalare o meno?) di etnograficità sarebbe allora legato, tornando all'interrogativo su una finzione filologicamente accurata, a una realtà da affrontare in blocco, con la sua autenticità presunta e con delle precise coordinate spaziotemporali; del resto, una forma che ha come scopo lo studio dei comportamenti di un dato aggregato umano non può che trovare la propria ragion d'essere nell'incontro con tale aggregato e nel tempo presente di una simile relazione.

 

Tra parentesi: si potrebbe contrapporre a ciò un lavoro effettuato, in differita, con eventuali materiali di archivio; tuttavia, potremmo ridimensionare la discrasia traslando il discorso al momento delle riprese - le quali potrebbero esistere in virtù di spinte non consapevolmente etnografiche - e lasciando ad altri l'analisi degli interventi secondi.

 

In ogni caso, questo inciso apre un problema ben più generale, relativo al significato e al valore delle immagini: questi dipendono infatti da fattori estrinseci e/o intriseci?

Restringendo subito il campo, sono l'intento etnografico del regista e il suo concreto incontrarsi con gli osservati a qualificare una pellicola come etnografica o è piuttosto qualcosa di impressionato su celluloide?

 

Nel primo segmento di questo trittico ho trattato il tema giudicando sufficiente, per definire un film come (filo-)etnografico, la preminenza della volontà di descrivere un certo aggregato umano, ma forse vale la pena soffermarci su tale etnograficità, coinvolgendo di nuovo una formula quale "utilità scientifica", utilità che può "manifestarsi […] a prescindere dalla volontà e/o dal merito autoriale".

 

 

[Un frame da La pyramide humainefilm etnografico

 

 

Possiamo riflettere se le caratteristiche secondo cui individuare un aggregato umano siano etniche o non solo, così come possiamo domandarci se l'etnograficità possa fondarsi solo sulla rappresentazione di un aggregato altro o anche su di una volontà di autorappresentazione, e se essa sia un qualcosa di assoluto o relativo.

Il vedere studiato l'aggregato cui si appartiene (per mezzo di una coincidenza dovuta ad un'autorappresentazione o meno) o un aggregato simile al proprio, evenienza da vagliare nel tempo del global e del glocal, altera significato e valore delle immagini?

 

È chiaro come fruire di una pellicola girata in un contesto parecchio lontano dal proprio generi un certo tipo di attenzione a tutti quei caratteri che allontanano aggregato cui appartiene il fruitore e aggregato rappresentato, anche dinnanzi a un'opera sprovvista di intenzione etnografica.

Ma a questa, in fondo, può sostituirsene una di tutt'altra natura?

 

Un film fondato sulla rappresentazione di una realtà tanto affrontata in blocco quanto provvista di una componente umana da osservare, con cui interagire, non contiene sempre un embrione di etnograficità?

 

Se sì, sarebbe allora la semplice presenza filmica di persone collocate nel proprio contesto - criterio esaudito in parecchi casi - a fornire una base ineludibile, una base che in seguito potrebbe subire potenziamenti o depotenziamenti a seconda, per dirne due, delle caratteristiche del fruitore e delle scelte/intenzioni del cineasta.

 

Questo porterebbe tuttavia a una conclusione sì condivisibile ma, tutto sommato, tanto banale quanto rischiosa, in quanto utile a soffocare molti degli interrogativi emersi: di conseguenza, pare opportuno proseguire e concentrarsi su degli alti livelli di un'etnograficità dunque scalare, quelli in cui sarà possibile rinvenire pellicole compiutamente (filo-)etnografiche.

 

Forse possono riunirsi proprio così le indicazione eterogenee fornite finora: realtà da affrontare in blocco, eticità dei rapporti regista-mondo e regista-fruitore, esplicitezza della mediazione artistica e del rapporto osservatore-osservato potrebbero insomma combinarsi.

 

Tali esplicitezze, cominciamo da qui, sarebbero comunque elementi in grado di modificare non poco l'esito filmico, di normarlo; pertanto, alla si potrebbe sostituire una più generica (forse troppo) necessità di rendere stilisticamente chiara la relazione regista-mondo, di fornire allo spettatore una certa consapevolezza circa la posizione assunta dal cineasta, nel solco di quella equivalenza prima tra estetica e politica tracciata da Rancière.

 

Senza voler proporre suggerimenti limitanti, potrebbe bastare la forza di una forma in grado di definire una certa Weltanschauung, una visione del mondo, anche affidandosi a scarti minimi: guardo qui al concetto di dissenso ancora di Rancière, da affiancare a quello di interpretazione e da opporre a quello di consenso, un consenso ancorato al conservatorismo estetico.

 

Per individuare un riferimento noto, tornando a noi, nessuna delle modalità individuate dall'influentissimo teorico Bill Nichols sarebbe allora più degna, etnograficamente, delle altre: quella partecipativa, basata sull'interazione con gli osservati durante il corso delle riprese, e quella riflessiva (metalinguistica) parrebbero le più indicate, ma invero si configurano come varianti la cui esplicitezza può acquisire addirittura minor valore rispetto a soluzioni riguardanti il filmico.

 

 

[Un frame da La pyramide humaine] film etnografico

 

 

Finora abbiamo difatti esaminato soprattutto il profilmico, la realtà presa in blocco e l'interfacciarvisi del regista, ma anche strategie di manipolazione concernenti livelli non meno materiali rivestono un ruolo di primissimo piano: su tutti, posizionamento della cinepresa e montaggio concretizzano lo sguardo attraverso cui il cineasta interpreta il reale, sia al momento delle riprese sia ex post, delimitando e orientando l'esperienza spettatoriale.

 

Ponendosi nell'alveo del Cinema del reale, il film etnografico - che per noi funge sostanzialmente da esempio, non da genere isolato - si presenta allora, citando lo studioso Marco Bertozzi, come "luogo di sperimentazione sui reali possibili, di immagini e immaginari ogni volta da incrociare per trovare/esprimere nuovi punti di vista sul mondo".

 

E dalle sperimentazioni contemplabili non è certo escluso l'intervento di componenti finzionali forti, diverse da quelle connaturate al mezzo: componenti che sappiano dialogare col reale trasfigurato al contempo ri-trasfigurandolo, componenti che rendano ancor più evidente la scarsa catturabilità di questo reale e componenti che siano magari accompagnate da segnalazioni testuali o paratestuali.

 

L'inderogabilità o meno di quest'ultimo criterio è comunque un tema spinoso: fruire di una pellicola proposta al pubblico come documentario, implicitamente cioè come documentario "quasi-puro", che presenti consistenti alterazioni (sul piano del filmico e/o del profilmico) non evidenziate è del resto rischioso, specie nell'ottica del desiderio di conoscenza di Perniola.

 

Il caso di Flaherty è in parte emblematico, alla luce di mutamenti apportati anche per porsi in continuità con visioni stereotipate: osservare, per uno spettatore degli anni Venti, un Inuk ignaro dell'esistenza del grammofono non può non essere problematico rispetto a concetti come sincerità, eticità e fiducia.

E pur cercando di aggirare o ridimensionare tale esempio singolo, tenendo conto di dichiarazioni del regista, sottotitolo dell'opera e situazione terminologico-concettuale del tempo, il quesito teorico non smetterebbe di emergere in tutta la sua forza.

 

È dunque il caso di ricorrere al buon senso, per salvaguardare l'autonomia estetica del film e permettergli di sperimentare senza svelare il proprio gioco, annullando parte dei probabili effetti: del resto, sono diversi gli elementi non urlati che possono essere esplicativi, anche se la loro comprensione è giocoforza subordinata alle caratteristiche degli spettatori.

 

Vale allora la pena tener conto sia di tale possibilità sia della consistenza informativa delle manipolazioni, relazionando in maniera biunivoca entità tangibile delle alterazioni, parametrata rispetto alla realtà di partenza e magari – in maniera più nebulosa – pure alle aspettative del lettore modello, e approccio cinematografico.

 

In tal senso, forse è impossibile e dannoso cercare di delineare una tassonomia anche vaga, pertanto pare indicato riservare lo studio di una simile interazione a specifici discorsi critici.

 

Spostando il focus sull'intervento, debole o forte, compiuto nei confronti dell'osservato si apre poi tutt'un altro ventaglio di tematiche.

Il rimando alla nostra ipotetica definizione di docufiction è dovuto, alla possibile presenza di una finzione slegata dal pre-esistente ma non dall'ontologia dell'osservato, ma sono da esaminare anche esempi più estremi.

 

 

[Un frame da Moi, un noir (1958)] film etnografico

 

 

Chiamiamo allora in causa Jean Rouch, pilastro della Storia del Cinema, esponente del cinéma vérité e precursore della Nouvelle Vague (per Jacques Rivette "in un certo senso Rouch è più importante di Godard per l'evoluzione del Cinema francese").

 

L'opera che considereremo, Moi, un noir, risulta capitale nel nostro percorso per più d'un motivo: essa permette di riflettere sul rapporto tra descrizione etnografica e narrazione, di continuare il discorso sulla finzione e di valutare le diverse forme della prassi etnografico-documentaristica.

 

Il film è riconducibile alla cosiddetta etnofiction, una sotto-genere perfezionato da Rouch, sì debitore, almeno in parte, delle opere di Flaherty (altro punto di riferimento per la new wave transalpina) ma più affine ad una definizione più ampia di docufiction, che pure cozza con alcuni dei tratti da noi proposti.

Un'etnofiction è del resto una docufiction etnografica, ma essa si spinge invero verso combinazioni più complesse soprattutto nel caso di Rouch, alla luce del suo sostrato teorico e delle problematiche specifiche all'etnografia.

 

Moi, un noir, uscito sul finire degli anni Cinquanta, presenta in sé molte caratteristiche essenziali, e - come evidenzia Vincent Pinel da un punto di vista troppo spesso ignorato - "il progetto di Rouch non è separabile dai mezzi tecnici che egli utilizza": sono difatti gli anni delle strumentazioni leggere che faranno la fortuna delle nuove onde, strumentazioni qui sfruttate adoperando una camera a mano da 16mm e una troupe ridottissima (il che spiega su ogni fronte l'autorialità del regista).

 

Rouch, etnologo specialista e profondo conoscitore di alcune culture africane, segue per diversi mesi un "piccolo gruppo di giovani immigrarti nigeriani a Treichville", quartiere dell'allora capitale ivoriana Abidjan, li segue senza riprenderli, imboccando dunque la strada della (prima) interazione.

 

Dopo tale periodo di adattamento reciproco, propone poi loro di "realizzare un film dove ognuno avrebbe interpretato la parte di sé stesso, con il diritto di poter fare e dire qualsiasi cosa": così la pellicola si fonda su una quattro giorni di improvvisazioni continue, in mancanza di una reale sceneggiatura ma, comunque, non di aspetti più controllati.

 

Parafrasando e adattando le parole di Jean-Luc Godard, Rouch - col piglio solo apparente da "reporter di cinegiornale" - evade dalla sua "crisalide d'artigiano", dall'accademismo di un'etnografia tendente verso il documentario quasi-puro, per trasformarsi in artista, superando una delle fratture esposte nella prima parte di quest'analisi.

 

Prima di segnalare alcuni connotati del film, citiamo però ancora il regista, per calarci nel suo pensiero proprio come lui - impiegando le parole del sociologo Edgar Morin, co-regista con Rouch del fondamentale Cronaca di un'estate e padre (putativo) della locuzione cinéma vérité - "si immerge nel reale", da "cineasta-palombaro".

 

Ecco le parole di Rouch, datate 1957 e riportate da Pinel:

"È evidente che, essendo il mio scopo quello di mostrare la vita e non di ricostruirla, mi trovo di fronte a grandi difficoltà.

 

Per ottenere la verità sono costretto a conoscere il mio soggetto in modo molto approfondito.

Non posso, per esempio, far ricominciare una scena. …lui [il protagonista, n.d.r.] parte e io lo devo seguire, a qualsiasi costo".

 

In quest'ultima frase è senza dubbio possibile sentire l'eco del pedinamento zavattiniano, anche se il groviglio di legami tra Rouch, altri precursori della Nouvelle Vague, esponenti della corrente francese e Neorealismi (e/o Cinema italiano del dopoguerra) non è esente da contraddizioni apparenti o effettive.

 

Lo stesso Rouch si pone come autore assai peculiare, ben lontano dall'essere solo un anticipatore: il solo etichettare tutto il suo Cinema, prassi e teoria, come aderente al cinéma vérité risulta invero fuorviante, almeno in una certa misura.

 

A prescindere dalla confusione sovente relativa tanto a tale tendenza quanto a quella denominata direct cinema, la ricerca condotta dal regista-etnografo si apre difatti a problematiche e sperimentazioni di altro tipo, come ben testimonia un oggetto quale Moi, un noir, singolare anche se comparato alla coppia di correnti emerse grossomodo negli anni Sessanta.

 

 

[Un frame da Moi, un noir] film etnografico

  

 

Veniamo dunque al film: questo segue la vita di una manciata di immigrati nigeriani concentrandosi soprattutto su Edward, e anche lo stesso Rouch si mette in gioco, intervenendo ad esempio attraverso il voice over - tra dichiarazioni di intenti, notazioni più classiche e considerazioni metalinguistiche - e costruendosi come soggetto esplicito, optando per una modalità sì non innovativa di per sé ma rilevante dal punto di vista etico.

 

Ancor più rilevante secondo tale prospettiva, vista la rivoluzionarietà della scelta, è tuttavia il passaggio di testimone verbale ai protagonisti, quel cedere il commento in post (un auto-commento improvvisato) soprattutto a Edward.

 

Ciò è favorito da precise contingenze tecniche, ma non si tratta in ogni caso di una determinazione lineare, alla luce sia delle differenti soluzioni adottabili in partenza - in un intreccio di aspetti anche estetici e teorici - sia della coerenza di una simile risultanza, la quale sarà inoltre riproposta in presenza di rinnovate premesse tecnologiche.

 

Per la gioia di Jacques Rancière, si delinea così un'alterazione degli ruoli usuali, con gli osservati che escono, almeno in parte, dalla condizione di subalternità intrinseca tanto all'atto cinematografico quanto alla visione politica dominante: nonostante altre scelte compiute da Rouch siano state legittimamente criticate, il regista compie insomma un passo cruciale includendo nel processo creativo chi troppo spesso vi è estromesso in toto.

 

Chiaramente il tutto è coordinato dal cineasta francese, e il suo potere in fase di postproduzione - proprio alcune soluzioni di montaggio hanno suscitato malumori - rimane decisivo, se non assoluto, ma la collaborazione diretta coi protagonisti, anche ma non solo a bocce ferme, è importantissima per più d'un motivo.

 

Innanzitutto, impiegando una considerazione che Perniola riferisce a un altro film, "il regista trasforma il proprio soggetto in coautore del film, attribuendogli il vero ruolo che, forse, ogni attore sociale [termine coniato dal sociologo Erving Goffman, n.d.r] dovrebbe avere".

Si definisce così una secca presa di posizione rispetto alla questione etica e a quella della responsabilità autoriale, senza che ciò implichi un assottigliamento o una svalutazione del processo di mediazione.

 

In secondo luogo, riallacciandoci proprio al tema della mediazione, il lavoro compiuto con e sugli attori riflette una prospettiva parecchio interessante, inevitabilmente sia sul versante filmico sia su quello etnografico: considerando l'etnografia come la branca preposta alla raccolta di quei dati interpretabili dall'etnologia, Rouch decide di scostarsi tanto dalle teorie del proprio maestro, l'antropologo Marcel Griaule, quanto dal progetto estetico di Flaherty (che egli considera un "antenato totemico del film antropologico").

 

Al primo si oppone spezzando il mito fondativo della candid camera, al secondo - anche visto il non essere specialista dello statunitense - aggiornando il metodo della cosiddetta "osservazione partecipante" à la Bronislaw Malinowski e modificando l'impiego della finzione cinematografica.

 

Rouch, per certi versi, anticipa infatti le tendenze postmoderne, avvicinandosi alla cosiddetta antropologia interpretativa di Clifford Geertz: come la proposta di Geertz contempla una coppia di interpretazioni, quella che gli osservati attuano nei confronti della propria cultura e quella che gli osservatori possono compiere solo sulla base di tale interpretazione prima, il suo procedimento si articola in una maniera più problematica rispetto alle teorie tradizionali.

 

 

[Un frame da Jaguar (1967]) film etnografico

 

 

Sylvia Caiuby Novaes, antropologa brasiliana, evidenzia con precisione gli snodi dalla valenza doppia del Cinema di Rouch: questi "rinnega le convenzioni del cinema sul ruolo del cineasta come trasmittente di verità, creando il cinema verité [sic] dove ciò che viene messo in gioco è ancora la verità, ma la verità del cinema.

 

...al proporre una antropologia condivisa, Jean Rouch assume la condizione di osservatore partecipante, il cui sguardo e la cui voce si mescolano a quelli dei soggetti filmati.

 

Il grande contributo di Rouch al film etnografico […] s'incontra nell'approccio alla forma dell'analisi etnografica e alla relazione che gli antropologi instaurano con i soggetti indagati".

 

E proprio su tale relazione, oltre a quanto detto sul voice over, s'innesta il particolare utilizzo della finzione forte, in merito alla quale vale la pena citare le azzeccatissime frasi che Jean Douchet, storica firma dei Cahiers du cinéma, riferisce a un'altra fondamentale opera di Rouch, La pyramide humaine:

 

"Il documentario puro e semplice, alla maniera di Flaherty [possiamo accettare tale interpretazione considerando contesto e rapporto stile-fruizione, n.d.r], in cui l'arte ha la meglio sull'uomo, non va bene: Rouch non ammette un'idea a priori dell'uomo.

 

Bisogna che l'uomo si sveli da sé. 

 

Da qui nasce l'idea di ricorrere allo psicodramma. …si tratta di usare l'estremo potere della finzione.

Si chiede a un individuo di mettersi nella pelle del personaggio che vorrebbe essere", tanto che - in Moi, un noir - gli attori sociali adottano nomi fittizi attingendo dall'immaginario occidentale (e il tema West/Rest è cardinale per Rouch).

 

Quello che è mostrato, e che interagisce col commento vocale, è allora un singolare mix tra un documentarismo in parte riconducibile alla modalità partecipativa descritta da Nichols e queste tecniche finzionali di rivelazione/costruzione (Rouch parla anche di "psico-sociologia").

 

Di conseguenza, conviene forse avvicinarsi ad André Labarthe, altra memorabile penna dei Cahiers, quando scrive che Moi, un noir sarebbe, più che un semplice intreccio, una sorta di moltiplicazione tra film di finzione e documentario: non si tenta così di sfuggire alle vexate quaestiones già evocate, ma piuttosto alla banale sussunzione del concetto di etnofiction in quello di docufiction e di rimarcare - anche accantonando tali concetti - le specificità di un programma estetico-etnografico in netto anticipo su tempi.

 

A quanto detto, si aggiunge inoltre tutta una riflessione sul rapporto tra film etnografico e narrazione, qui affrontata nei suoi aspetti teorici, che non necessita di chissà quali spiegazioni: Rouch si distingue anche su tale versante, in una maniera (comunque disomogenea) sì connessa alla gestione della finzione appena esposta ma ad essa non direttamente consequenziale.

 

 

[Un frame da Jaguar] film etnografico

 

 

Più gravida di conseguenze è invece una coppia di scelte che rinvia a problematiche più ampie: una concerne le caratteristiche del focus artistico, una - dopo aver parlato di quello extra-filmico - il comportamento filmico del cineasta.

 

Nel caso della prima, gli interrogativi intrecciano valutazioni di ordine qualitativo e quantitativo: banalmente, un primo grattacapo interessa il numero dei rappresentati; si può insomma passare da un focus individuale a un focus collettivo di notevole ampiezza, con rilevanti casi intermedi quali famiglia nucleare e famiglia allargata.

 

Chiaramente, posto che mirare all'onnicomprensività sarebbe folle, in simili dinamiche intervengono fattori esogeni come le particolarità dell'aggregato di riferimento o le limitazioni imposte dal mezzo/sistema Cinema; nondimeno il regista si ritrova a dover decidere quale strada imboccare.

 

Sul piatto della bilancia, come si diceva, si sovrappongo spinte differenti, col nocciolo del problema che consiste nel prendere in esame - interpretandola e adattandovi il processo artistico - la dialettica individuo-comunità e nel soppesare esigenze e prospettive di rappresentatività (un campione può essere paradigmatico? se sì, a quali condizioni?): l'ottica è necessariamente duplice, nel segno di quella tensione/interazione tra ragioni artistiche e ragioni antropologiche che vena tutte le operazioni (quasi-)etnografiche, ma non scissa.

 

Poli del continuum sono singolarità assoluta e simil-indiscernibilità, individuo e massa amorfa, e il propendere per una delle due soluzioni estreme potrebbe anche sottintendere una profonda frattura teorica, per esempio in grado di separare ipoteticamente conoscibilità massima dell'uno e inconoscibilità dei molti.

 

Il buon senso spinge verso soluzioni mediane, come può essere quella familiare nucleare: tale struttura, lungi dall'essere l'unica delineabile e dall'essere univoca, presenta dei tratti esemplari, e coniuga - a livello di effettiva attuabilità - possibilità di approfondimento individuale e rilevanza delle interazioni sociali.

 

Tuttavia, ciò non implica affatto che focus di tutt'altra natura e tutt'altra estensione pregiudichino etnograficità e/o bontà degli esiti, e del resto è la pratica cinematografica a mostrare, nella sua ovvia e irriducibile complessità, il ventaglio di sentieri percorribili e a rendere forse vane alcune riflessioni.

 

 

[Un frame da Jaguar] film etnografico

 

 

Nel quadro dell'attuabilità appena menzionata si collocano poi i discorsi su interazione e distacco come alternative pre-filmiche, alle quali seguono logicamente le opzioni direttamente filmiche: si tratta della possibilità del cineasta di interagire o meno col/i  soggetto/i, possibilità che, ripetendoci, dipende anche dagli orizzonti teorici del caso.

 

È ciò che esplora Daniele Dottorini quando evoca la nozione di "incontro" e ne definisce la forme, evidenziando termini/concetti/strumenti come "voce, corpo e messa in gioco", ma basta nominare Vittorio De Seta, nume tutelare del documentario e del film etnografico italiano, per far riemergere lo spessore del tema.

 

Nel secondo dopoguerra, questi gira una serie di brevi documentari in Sardegna, Sicilia e Calabria, immortalando contesti, riti e condizioni di aggregati umani divergenti rispetto alla presunta modernità urbano-settentrionale (è proprio tale discrasia a creare un interesse etnografico), e intesse la propria tela cinematografica eclissandosi, almeno in un certo senso.

 

Sebbene un disegno stilistico sia percepibile, egli né parla né compare in prima persona, aderendo di fatto alla modalità osservativa di Nichols e allontanandosi da quella partecipativa già adottata da Flaherty: il cineasta non si pone cioè come soggetto immediatamente interrogabile, e persegue in parallelo un qualcosa di simile - anche sul piano etico-politico - all'estetizzazione attuata (per Rancière) dal portoghese Pedro Costa nei confronti di una realtà ancora più problematica (su di lui, non-documentarista, e sulla più vasta tradizione filo-etnografica lusitana si potrebbe dire moltissimo).

 

E in un modo sempre analogo a Costa ma meno marcato, De Seta tanto mantiene ben salda la quarta parete, mostrando un micro-cosmo apparentemente autonomo, quanto ne ridefinisce, ne manipola, di questo universo, le sembianze.

 

Senza dimenticare certi guizzi in fase di montaggio, si possono scorgere rimandi alla grande tradizione pittorica occidentale - anche a quella cosiddetta di genere - nei suoi deliziosi cortometraggi, e lo si può fare grazie a un lavoro sia pittorico sia architettonico (in sensi leggermente traslati rispetto a quelli delineati da Éric Rohmer) sul frame, tra cromatismi e composizioni favorite dalla spaziosità del CinemaScope che di certo non cozzano con l'intento etnografico e documentaristico.

 

Fin qui, nel nostro percorso, diverse tappe raggiunte sono state allora subito confutate, o modulate, nel segno di un'impossibilità di codificare la miriade di forme espressive etnografiche e filo-etnografiche: abbiamo individuato perlopiù tratti generalissimi e non solo filmici, tra i quali paiono poter permanere realtà da affrontare in blocco e un'attitudine doppiamente etica sospesa fra valutazione e definizione (propenderei per la prima).

 

 

[Un frame da Pescherecci (1958), di Vittorio De Seta]

 

 

Tuttavia, per rimanere sui due registi appena citati, anche solo allargando lo sguardo a due lungometraggi come Banditi a Orgosolo e a Vitalina Varela vediamo forse traballare il nostro castello di carta.

 

Il primo è ambientato nella Barbagia di Nuoro, territorio già indagato cinematograficamente da De Seta, e si configura come un film di finzione interpretato da pastori sardi, come un ibrido (Il Morandini menziona Flaherty) lontano da docudrama e docufiction e al contempo fondato su di una rigida parabola narrativa in grado di mostrare dinamiche proprie all'aggregato orgolese.

 

Sono un contesto visibile, volti visibili, usi e costumi visibili e un intreccio fittizio, con le sue ricadute su recitazione e ontologia dei personaggi, a confezionare allora una pellicola caratterizzata da ben più di un embrione di etnograficità, pur non toccando livelli elevati: dovremmo pertanto ragionare su un esito di questo tipo e pure sul rapporto, più generale, tra essenza dimostrativa dello script e suo potenziale valore antropologico.

 

Il secondo film s'inserisce invece nel peculiare progetto inaugurato da Pedro Costa nel 1997 e incentrato sullo slum di Fontainhas, quartiere di Lisbona ricco di immigrati capoverdiani e complesso quasi quanto il disegno teorico alla base della pellicola, specie nella nostra ottica.

 

Costa racconta (anti-)storie ispirate al vero e per mezzo degli interessati, opta per un reenactment - non esclusivo - che sembrerebbe spingere l'opera verso il docudrama, eppure l'atto di riproposizione delle vicende si fonda su di una corrispondenza diluitissima rispetto a un originale che originale non è, non fungendo questo davvero da modello più vista l'estrema rielaborazione estetica che considerando la sola dilatazione temporale.

 

Non è comunque quello appena presentato il punto focale: il film etnografico può accogliere il reenactment quanto la deformazione stilistica, magari addirittura richiedendola, ma in Vitalina Varela il regista non affronta la realtà in blocco, bensì si avvale anche di scenografie ricostruite in studio.

 

Queste due tracce accennate rendono allora più evidente la necessità di valutare sempre caso per caso e di adattare costantemente gli strumenti di ricerca/analisi, non facendosi conquistare né da facili generalizzazioni né da pur sensate macro-indicazioni teoriche.

 

Del resto, giusto per selezionare in base alla notorietà, bastano nomi come Abbas Kiarostami, Sergej Paradžanov e Dziga Vertov o esperienze come Neorealismo e Nouvelle Vague, tutti animati da rapporti stimolanti col reale fenomenico, per rendere l'idea della possibile ampiezza del dibattito, a prescindere dall'eventuale qualifica dei singoli oggetti di studio.

 

 

[Un frame da Vitalina Varela] film etnografico 

 

 

E ora, prima di chiudere, una nota conclusiva di ordine più teorico e fortemente debitrice nei confronti del pensiero di Jacques Rancière: ho già suggerito una vaga idea di generatività ontologica del medium Cinema, ma questa necessita di un brevissimo corollario che abbozzi meglio sia il rapporto tra generatività e mediazione (e sua paternità) sia il suo intersecarsi con delle problematiche etnografico-documentaristiche.

 

Rifiutando il principio artistico di una forma in grado di agire attivamente sulla materia, di modellarla a suo piacimento, come scrive il filosofo francese riferendosi agli ultimi due secoli, è infatti possibile ridimensionare una certa concezione di autorialità e un certo tipo di consequenzialità tra intenzione del regista, intervento stilistico e ricezione degli esiti: una mediazione comunque permane necessariamente, ma - proseguendo - non si traduce poi in un tentativo di abolizione della somiglianza rispetto al reale, semmai in una sua diversa organizzazione.

 

È allora superabile, dopo un groviglio di altre considerazioni, la contrapposizione tra studium e punctum teorizzata da Roland Barthes, il quale scinde fruizione razionale del contenuto informativo dell'immagine - solo fotografica per il semiologo francese ma non per chi scrive, a patto di certe accortezze e divergenze - e fruizione più irrazionale, emozionale. 

 

Così generatività ontologica, mediazione sensibile e informatività (legabile a un concetto allargato di rappresentazione e fondamentale in senso etnografico) paiono quindi poter coesistere, armonizzando le premesse di un discorso che termina qui.

 

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