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Loki - Recensione: Questo domani non tornerà oggi

Il pubblico si è entusiasmato per l'arrivo di Loki su Disney+, ma cosa ci ha lasciato la serie dopo i suoi sei episodi?

Loki, serie creata da Michael Waldron e diretta da Kate Herron, si è da poco conclusa su Disney+ annunciando un già anticipato ritorno per una seconda stagione e palesando il futuro dell’MCU.

Il pubblico si è delicatamente entusiasmato, creando un discreto, quanto insolitamente quieto, rumore.

 

Cosa ci lascia la serie Marvel Studios?  

 

 



WandaVision è stato lo show che ha inaugurato la stagione televisiva dell’enorme progetto narrativo dei Marvel Studios, ammaliando il pubblico con un incipit affascinante ma uno sviluppo a mio parere ben al di sotto delle premesse.

 

Loki si è presentato invece come la proposta più affascinante offerta alla corte del pubblico dai Marvel Studios e così, per certi versi, è stato.    

La storia imbastita da Michael Waldron solletica un tipo di fantascienza tipicamente fumettistica molto affascinante e il cui potenziale potrebbe benissimo adattarsi al racconto televisivo e al genere Weird Tales.   

 

Linee temporali e multiversi sono il pane del fumetto popolare ed esistono in Marvel tanto quanto in DC Comics, offrendo agli autori possibilità di giocare con i personaggi e con le interpretazioni di questi, divenendo altresì un comodo strumento per ridisegnare l’intero panorama narrativo.  

 

Potremmo parlare di come Marvel abbia canonizzato la presenza di Peter Parker e Miles Morales in un unico universo, di come Flashpoint abbia dato dimensione del potere del velocista scarlatto DC ma anche aiutato a creare diramazioni dell’universo utili, come vedremo prossimamente al cinema, a dare uniformità a qualcosa che prima, per intenti, non voleva essere certamente condiviso o avere carattere canonico.   

 

Rimanendo invece nel più ampio spettro del racconto fantascientifico e delle trasposizioni fumettistiche, recentemente abbiamo imparato a amare la The Umbrella Academy tratta dall’opera di Gerard Way e Gabriel Bá, il cui piglio scanzonato è figlio di influenze fumettistiche ma ricorda altrettanto la logica delle opere di Douglas Adams

 

 

 

 

Loki aderisce e rinnova il proprio retaggio fumettistico traducendo per la televisione il mito del Time Variance Authority - aka TVA - introducendo il pubblico a un luogo che non ha tempo e spazio.

 

Un’agenzia popolata di miti e solerti impiegati e costruita in una austera struttura il cui design spazia dagli anni '60 a un futuro a noi sconosciuto tra i The Jetsons e l’immaginario futuristico di Isaac Asimov.  

 

Con Loki i Marvel Studios stanno spostando il retaggio immaginifico dello spettatore dalle avventure molto più terrene delle prime fasi verso uno scenario oltre, caratterizzato da una fantascienza molto alta rispetto alla sorpresa di vedere Occhio di Falco e Vedova Nera a bordo di una navicella spaziale o Tony Stark interagire con Rocket Raccoon.   

 

In tal senso l’operazione è assolutamente stimolante e l’incipit della serie ci costringe, soprattutto nel suo sviluppo, a ragionare concretamente sulla scala degli esseri che popolano l’MCU.

Dei mortali, luoghi divini che hanno una collocazione ben precisa nell’universo e titani, quali Thanos, comunque soggetti al volere di poteri molto più grandi e non proprio padroni del libero arbitrio, qualsiasi cosa questo concetto significhi davvero in questa narrativa.

Chi controlla il flusso del tempo ha tra le mani un potere ben oltre ogni altro poiché padrone dell’esistenza stessa, eppure i guardiani di questo sacro continuum sono un manipolo di impiegati al servizio di forze fuori dalla loro comprensione e motivati da un bene più alto.   

 

Loki, semplicemente fermandosi al fascino dei multiversi e del TVA è indubbiamente uno show il cui punto di partenza ha un forte appeal, mostrando al pubblico situazioni inedite legate a una fantascienza lontana da quanto vediamo solitamente al cinema o in televisione, ma molto familiari per chi è legato al mondo del fumetto. 

 

 



Guardando alla serie da un punto di vista tecnico d’insieme è indubbio che, ad oggi, sia la migliore offerta al pubblico.

 

Punto di partenza e d’arrivo sono allineati e non tradiscono le aspettative togliendo il tappeto da sotto i piedi del pubblico come visto in WandaVision.

Tutti i sei episodi sono in media molto più stimolanti di quanto raccontato da The Falcon and The Winter Soldier e nel fare da ponte verso una nuova fase dell’universo Marvel non sono così smaccatamente una mera corsia di servizio per aiutare il crescendo della nuova fase cinematografica.   

 

La nuova poetica offerta dall’MCU, molto più fumettistica, è stimolante e la sua capacità di integrare miti urbani, come il misterioso caso di D.B. Cooper, è indubbiamente una finezza lodevole.

 

Eppure Loki non è esattamente quello che avrebbe potuto essere e per la terza volta i Marvel Studios riescono involontariamente nel compito di sottolineare i problemi dietro lo sviluppo dei propri prodotti e della gestione di Kevin Feige, i cui limiti lo rendono un produttore umano di Hollywood.

 

 

 

 

Il motivo per il quale le problematiche che affronterò nel corso di questa analisi sono venute a galla risiede prima di tutto nell’approccio al mezzo narrativo: la serialità televisiva.   

 

Come discusso nel pezzo dedicato a WandaVision, la serialità televisiva ha un linguaggio ben specifico e come per qualsiasi altro mezzo al fine di rivoluzionarlo, o ben interpretarlo, è necessario prima di tutto padroneggiarlo capendo le dinamiche che lo contraddistinguono e eventualmente rimescolarle.   

 

La serialità è stata già riscritta e se al cinema Kevin Feige ha avuto occasione di dare un nuovo approccio narrativo, con tutti i difetti congeniti del caso, in serie non può fare altro che adattarsi a una forma di storytelling che ha già in seno alcuni degli espedienti offerti anche nelle pagine a fumetti: la logica del cliffhanger e il ritmo a scandire la suddivisione in albi è spesso sovrapponibile alla struttura episodica delle serie televisive.   

 

Con un colpo di coda totalmente inaspettato, Feige non ha applicato lo stesso principio di contaminazione attuato per il Cinema, nonostante il fumetto abbia qualcosa di vagamente inedito da portare in televisione: il fumetto one-shot. 

Inizialmente si pensava alle serie Marvel Studios come a degli one-shot, ovvero fumetti autoconclusivi paralleli alle storie canoniche e caratterizzati da una narrazione più autoriale.

 

 

Questo avrebbe garantito a tali serie la possibilità di influenzare il tessuto principale dell’MCU ma allo stesso tempo di prendersi lo spazio necessario per sfruttare di una voce autoriale ben precisa, oltre alla possibilità di giocare con i personaggi e le loro vicende dedicandogli un tono cucito sulle loro caratteristiche e le loro storie.   

 

 



Da Loki, anche guardando alla sigla e alle premesse, mi sarei aspettato un racconto weird-tale mind bending che andasse a fondere Twin Peaks, The X-Files, The Twilight Zone - Ai confini della realtà e un po’ della follia del Brazil di Terry Gilliam.

 

Una serie totalmente fuori dalle righe dove la realtà è una spirale arricciata su se stessa la cui superficie è in costante ridefinizione, mentre un corollario di assurde parodie delle nostri peggiori burocrazie contraddistinguono compassati e distaccati guardiani del tempo. 

 

Loki, invece, esaurisce il suo carattere molto alla svelta e dopo un primo impatto che promette un world building basato su Mobius, il TVA, le motivazioni e i conflitti caratteriali di Loki, tutto inizia a correre tremendamente velocemente affidandosi a una frenetica galoppata il cui solo scopo è raggiungere il finale della serie, l'unico di grande appeal di tutta la produzione, senza però imbastire di scena in scena l'idea che qualcosa di molto più grande si muova oltre quanto da noi conosciuto fino a quel momento.

 

Anche le domande figlie della fantascienza weird tale applicate a un mondo così fantasioso come quello fumettistico vanno in fumo e lo spettatore assiste al disgregamento delle possibilità di sviluppo dell'universo di Loki.

 

I personaggi sono sostanzialmente immobili, mentre lo storytelling sistema sulla scacchiera i passi di protagonisti più allineati al ruolo di avatar del pubblico e che in quanto tali servono unicamente a fornirci delle risposte ma spogliati di un qualsivoglia coinvolgimento emotivo che non sia dato da un paio di spunti mal approfonditi e in qualche caso anti climatici.

 

 

 

 

La grammatica degli episodi diventa un esercizio scolastico e se lo scheletro di fondo cerca di lasciarci sulle spine a fine episodio, quello che succede nel mezzo è spesso annacquato, un plot on the rocks nel quale i personaggi smettono di farsi le giuste domande proprio nel momento in cui la storia sta per costringere gli autori a dare le risposte necessarie e svelare i maldestri plot point.

 

Se in The Falcon and The Winter Soldier le motivazioni dei terroristi sono a dir poco fumose e probabilmente non chiare a nessuno all’interno della writing room, in Loki il cuore del plot, l'idea di trovare il deus ex machina dietro il TVA, è un ritornello sostenuto da una narrazione totalmente priva di conflitto e nella quale la scalata verso il grande mistero è portata avanti da eventi che ricordano il carambolare di Pippo da una situazione a un'altra.  

 

Loki non sembra davvero una serie TV utile per quegli autori desiderosi di espandere i propri discorsi e i propri mondi, quanto più un film allungato esasperando situazioni del tutto secondarie, vanificando il concetto stesso di racconto seriale tanto quanto l'idea di avere il tempo e lo spazio utile per rendere più articolato e affascinante la struttura della vicenda.

 

Il suo peccato peggiore è però la totale assenza di una gestione narrativa a monte che possa garantire l’uniformità del racconto e la cura dello snodarsi degli eventi dall'inizio alla fine, consegnando allo spettatore uno show senza una vera identità che non sia puramente estetica, poiché ogni tentativo di dare delle arie da weird tale nascono e muoiono con la sigla tanto misteriosa quanto vacua rispetto a quanto accade nella serie. 

 

 

 

 

Come spiegato recentemente nel corso di un pezzo nel quale si discute l’assenza di showrunner nelle serie Marvel, Feige ha optato per l’impiego di un head writer: ovvero un capo sceneggiatore soggetto alle decisioni del regista e del produttore esecutivo e il cui potere decisionale sull’incedere degli eventi è molto relativo e può essere messo in discussione da questi ultimi in ogni momento, costringendolo a riscrivere intere parti della sceneggiatura.

 

Un modo di lavorare che ha scoraggiato i professionisti della categoria, la cui conclusione è mostrarci quanto Feige sia il vero showrunner della Marvel e di come nessun creativo esperto si metterebbe al servizio di una produzione nella quale non ha voce, servendo sostanzialmente da macchina per scrivere vivente.

 

Ritornando al concetto di one-shot, siamo in un ambiente in controtendenza al fumetto stesso e la voce dell'autore sembra essere stata sostituita dalla potenza del brand capace di vendere qualsiasi cosa arrivi al pubblico con un meccanismo che non conta sulla qualità delle opere.

Sia chiaro, nel mondo del comic americano e dei grandi brand si tende a cercare di forzare l'idea che il personaggio sia il traino di tutto, quando ormai ogni produttore o casa editrice ha compreso come siano gli autori a decretare il successo di una testata o di una produzione cinematografica o televisiva.

 

Ricordiamo tutti il caso James Gunn e di come ora sia un po' padrone del proprio destino in casa Marvel, un evento più unico che raro.

 

Se nel Cinema è pratica comune avere un regista che cambi drasticamente l’interpretazione di uno script imponendo una sua poetica, nelle produzioni Marvel questa pratica è piuttosto rara, perché per Feige è primario dare uniformità al grande arazzo Marvel, sacrificando molto spesso la potenza e le possibilità d’interpretazione degli eroi portati sullo schermo. 

 

Spider-Man ha subito fortemente l’ingerenza dell’MCU e delle sue meccaniche di potere nella sua trasposizione, divenendo una macchietta e paradossalmente scomparendo all’ombra di un eroe (Iron-Man) molto meno riconoscibile, iconograficamente parlando, dal pubblico di massa.   

 

Salvo in un paio di casi ben specifici (James Gunn e Taika Waititi), la maggioranza dei film è totalmente piatta in ogni sua componente artistica e la voce dell’autore non esiste, lasciando lo scettro alla trama unica da raccontare tanto quanto a una generale uniformità dei toni dei film. 

 

 

 

 

A fini di una maggiore chiarezza: lo showrunner, in televisione, non è il rappresentante massimo di una casta di autori televisivi ma è il sale del racconto televisivo, il responsabile dello sviluppo della serie e spesso il genietto in grado di consegnare al pubblico le serie migliori del panorama.

 

La televisione vive di esigenze diverse, in quanto storia continuativa lungo il tempo, e per quanto il regista assegnato a una manciata di episodi o a una serie possa essere di talento è lo showrunner, gestendo un team di sceneggiatori a seguire le sue direttive, a decidere chi vive e chi muore, cosa portare avanti e cosa tralasciare, come gestire il ritmo e che tema dare alle stagioni in base alla situazione emotiva dei protagonisti e dei comprimari.

Il regista, generalmente, è secondario, a meno che non sia egli stesso l’autore della serie.

 

Senza una mente, le serie TV diventano l'equivalente di una gallina a cui è stata appena mozzata la testa e che cercherà di continuare a muoversi seguendo un pattern logico per puro riflesso muscolare.

 

Già in WandaVision questo schema non era presente, difatti la serie non ha davvero un umore e da un certo punto in poi tutto cambia, alcune sottotrame si sfilacciano e lo stesso plot principale si perde in qualcosa di quasi opposto rispetto al suo punto di partenza. 

Non ho trovato Loki così drasticamente problematico, ma è chiaro come la serie non sia particolarmente coraggiosa nella ricerca di nuovi stilemi narrativi e perda di vista molto in fretta l’idea di trovarsi in una poetica ben diversa rispetto a quella alla quale il pubblico è solito, sprecando l'occasione di investire molto di più sullo sviluppo dei personaggi e dei comprimari, tanto quanto sul loro percorso.   

 

Lo stesso Loki, che dovrebbe essere il Loki di Avengers, è invece il Loki piacione costruito dopo anni di film Marvel, affidando il suo ammorbidimento più al “perché sì” che al poco elegante Bignami visivo al quale viene sottoposto per essere convinto da Mobius di essere un “dio” in termini piuttosto relativi.

 

Loki avrebbe dovuto godere della direzione di un autore che, come per il Watchmen di HBO o per qualsiasi altra serie degna di questo nome, avrebbe dovuto imporre una poetica, nel rispetto del ponte che la serie vuole essere, giocando con la storia e investendo nel personaggio di Loki e nel suo fascino da villain, divenuto qui un buono a tutti gli effetti e spogliato del suo charme.   

 

Si sarebbe dovuta cercare una direzione artistica fatta anche di movimenti di macchina e di espedienti visivi utili a raccontare la storia.

Quanto sarebbe stato affascinante vedere il flashback del Loki interpretato da Richard E. Grant?

Quanto sarebbe stato meraviglioso vederlo isolarsi nello spazio per poi impazzire di solitudine e scatenare il suo evento Nexus?

 

Quanto sarebbe stata gradita una regia molto più tesa e una messa in scena meno scolastica a accompagnare l’ingresso in scena del personaggio, fondamentale, di Colui Che Rimane

 

 

[Il Loki di Richard E. Grant ha avuto un grande riscontro nel pubblico... perché in teoria aveva qualcosa da dire, oltre a ricordare visivamente il Loki dei vecchi fumetti Marvel aprendo appunto a universi paralleli]

 

Questi elementi non sono stati ricercati perché è chiaro come Loki, tanto quanto altri prodotti Marvel, siano appunto prodotti e non opere di intrattenimento armate di una propria poetica e di un world building dettagliato e maniacale.

 

È altrettanto chiaro come in fase di scrittura il canovaccio non fosse particolarmente rifinito e oltre alle scarse ambizioni di messa in scena e regia, utili a rispettare la tabella di marcia, deve essere subentrata l’esigenza di rendere quanto più possibile fumoso il funzionamento degli eventi Nexus e delle varianti, evitando di stimolare il pubblico con qualcosa che gli avrebbe consentito di ragionare sugli eventi.   

Se deve esistere una sola sacra linea temporale, perché esiste una Loki donna o un Loki anziano totalmente aderente a un universo chiaramente diverso, ma la cui minaccia è stata registrata solo nel momento in cui una loro scelta ha differito dagli eventi della unica e sola sacra linea temporale?

 

Questo significa che possono esistere, fino a un certo punto, realtà parallele totalmente differenti in molte componenti rispetto a quella che conosciamo, ma a condizione che ogni tassello di essa segua il flusso temporale esattamente come scritto per la unica sacra linea.    

 

La domanda sarebbe dovuta sorgere a Loki sin da quando ha incontrato Sylvie e entrambi avrebbero dovuto porsela nel momento in cui hanno incontrato gli altri Loki (oltre che loro stessi).  

 

L’enorme spiegone finale di Colui Che Rimane, per quanto reso affascinante da Jonathan Majors, è qualcosa che poteva essere suggerito prima, costruendo il plot senza annacquare il racconto con viaggi in treno, imbarazzanti momenti in cui Loki ricorda lo zio sbevazzone presente in ogni matrimonio e improbabili svolte emotive dei personaggi a ricordare Fry nonno di se stesso, investendo nel mistero dietro il TVA evitando di accennare ossessivamente alla presenza di un complotto, ma negando ai personaggi la possibilità di scavare nella giusta direzione. 

 

 

Loki Loki

 

Il "come" Loki imposti lo sbrogliarsi della matassa degli eventi non è per nulla interessante e la domanda è a cosa esattamente serva cambiare il sistema produttivo delle serie imponendo registi deus ex machina il cui impatto d'insieme è praticamente nullo sotto ogni fronte.

 

True Detective, Il Trono di Spade, Breaking Bad, Mr. Robot, Better Call Saul: sono tante le serie TV dirette da un unico regista o da più mani, al cui interno troviamo segni autoriali visivi ed espedienti narrativi di sceneggiatura, di messa in scena e montaggio molto più elaborati e interessanti di quanto venga fatto lungo tutto Loki.

 

La comparsa del nuovo antagonista a dare un futuro alle trame Marvel, come per tutti i migliori antagonisti della televisione o del Cinema, si costruisce nel tempo e non si presenta di certo di punto in bianco nel corso dell’ultimo episodio.

La prima stagione di Westworld ha curato molto meglio la coltivazione del mistero a fare da sfondo alla serie, contando ampiamente sui personaggi e sulla loro crescita motivata, come in ogni racconto, dal concetto di conflitto.

Volendo affondare in racconti vagamente mind bending, Maniac di Cary Joji Fukunaga o Fringe hanno molto più appeal di quanto vediamo in Loki, la cui ingenuità nel trattere questo tipo di sci-fi è massima, anche rispetto a The Umbrella Academy, più vicina per alcune tematiche.

 

Quanto sarebbe stato affascinante alternare la ricerca di Loki e Sylvie ai flashback di Colui Che Rimane, piuttosto che vedercelo spuntare alla fine come plot twist totalmente estraneo a quanto raccontato fino a quel momento?

Come può il pubblico esaltarsi per un personaggio la cui importanza deve essere ricercata post-visione e che non viene raccontata dall'opera che stanno guardando?

In che modo diventa d'impatto un personaggio non presentato? 

 

Volete vedere una serie dove un personaggio di grande impatto entra in scena con grazia e accendendo l'interesse del pubblico?

Bene, l'episodio 8 di Watchmen titolato A God walks into Abar andrebbe fatto vedere a chiunque ha curato il "geniale" episodio 6 di Loki.

 

Siamo nel regno dei puntini laser per distrarre un pubblico di gatti, esaltati dall'illusione creata dalla proiezione di quello che vorremmo il puntino laser fosse, ma che non è. 

 

 



Loki mette quindi sul banco la direzione narrativa del grande disegno Marvel, la cui tela è sempre più affidata a progetti incapaci di costruire tensione, di creare il mito dell’eroe o la giusta forza drammatica dei villain, infarcendo i plot di easter eggs e richiami fumettistici a esaltare un pubblico a loro estraneo (che li scoverà grazie ai pratici video esplicativi realizzati con tanta perizia dai vari outlet critici) e per motivi unicamente legati alle aspettative rispetto a qualcosa di probabilmente altrettanto deludente che avverrà nel film x, y e z.

 

Loki non ha scene memorabili, non ha una scrittura affascinante, non ha un cattivo davvero carismatico e tutto vive solo ed esclusivamente in funzione di qualcosa che, forse, vedremo in futuro, rimbalzato allo spettatore dalle news rilasciate al millimetro dagli uffici stampa Marvel, entusiasti di lanciare piccole briciole su cosa verrà dopo, mentre il presente non riesce mai a esaltare.   

 

I Marvel Studios sembrano ora incapaci di creare opere memorabili e di consegnare al pubblico storie davvero esaltanti, limitandosi a confezionare gallerie di easter eggs e show il cui ciclo vitale è ridotto al momento della loro uscita.

 

Loki, dopo il suo passaggio, per quanto luccicanti fossero le premesse di partenza, lascia dietro di sé il nulla più assoluto e nel presente è quindi a mio avviso uno show mediocre, contraddistinto da una scrittura poco ispirata, sorretta dagli sforzi economici utili nella realizzazione di una fantastica illusione di hype da cercare su Google.

 

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