La Storia ormai ce l’ha insegnato: il Cinema è un’arte e, in quanto tale, è politica nella sua più alta e nobile accezione.
Tutto ciò che si decide di raccontare ha uno scopo, piccolo o enorme che sia.
Grazie alla magia del grande schermo possiamo davvero imparare qualcosa e formare la nostra opinione attraverso una semplice storia che semplice non è mai davvero. Possiamo informarci su diverse visioni del mondo, incuriosirci di mondi a noi lontani, addirittura scoprire aspetti di noi stessi che credevamo inesistenti o troppo sottili per essere rilevanti, perché il mondo è uno e nulla ci è veramente lontano.
Il Cinema è politico perché, attraverso il suo linguaggio, tante istanze sociali e civili hanno la possibilità di raggiungere una platea più ampia e tanti tipi diversi di pubblico, anche quando il pubblico viene definito “di nicchia” in maniera un po’ naïf.
Nella nostra contemporaneità, che vede il riemergere di regimi autoritari, censure, bigottismo, cancellazione di diritti umani, sociali, economici, civili e criminalizzazione di esistenze non conformi, il Cinema deve riprendersi i suoi spazi e lottare al fianco di ogni causa che ha come scopo il miglioramento della vita degli esseri umani e viventi in generale.
[Cinema queer: Naissance des pieuvres, di Céline Sciamma]
Giugno è il mese del Pride, manifestazione e sensibilizzazione annuale che ricorda lotte coraggiose che hanno fatto la Storia del movimento, argomento che abbiamo affrontato in questa Top 8 di ormai 4 anni fa.
Tali lotte continuano ancora oggi, non limitandosi né al mese di giugno né agli arcobaleni o a semplici slogan come “Love is Love”.
Se da un lato arcobaleni e slogan sono importanti, fondamentali per chi ha bisogno ancora di comprendere l’ovvio – e cioè che ci si può amare, sposare, avere figli con chi si vuole, ma anche vivere in pace e senza la paura di essere pestati per strada – dall’altro essi sono solo la base di un insieme di pratiche e battaglie che la comunità LGBTQIA+ porta avanti tutto l’anno e che i sostenitori e gli alleati della comunità condividono con ogni mezzo.
Visto che il nostro mezzo è il Cinema, è giusto dare voce a ciò che il Cinema queer ha da dire oggi, tra lotta e rivalsa, in un clima non semplice per via dei continui attacchi retrogradi che il mondo queer continua a subire: dalla sentenza della Corte Suprema del Regno Unito al becero populismo transfobico che ne è conseguito, anche grazie a testimonial famosissimə di cui non farò il nome.
Il Cinema queer è sempre stato vivo e presente, ma considerato un filone a sé, dedicato esclusivamente a un pubblico che potesse identificarsi nelle storie raccontate.
Se ciò aveva un senso decenni fa, è nostro dovere superarlo.
È innegabile che film comeI segreti di Brokeback Mountain abbiano avuto il merito di portare una storia queer al grande pubblico, aprendo le porte del Cinema mainstream, ma dalla sua uscita a oggi ci sono stati talmente tanti autori queer che hanno trovato finalmente la propria voce che risulta ormai anacronistico fare riferimento al capolavoro di Ang Lee ogniqualvolta si parli di un film a tema LGBTQIA+.
In occasione della presentazione al Festival di Cannes 2023 del cortometraggio Strange Way of Life, il Maestro del Cinema e del Cinema queer Pedro Almodóvar ha ricordato un retroscena legato proprio a Brokeback Mountain: doveva infatti essere lui a dirigere il lungometraggio, ma Hollywood considerò la sua visione troppo estrema e così lui abbandonò il progetto; segno che anche un film come quello doveva ancora essere raccontato in un certo modo.
[Cinema queer: Keep the Lights On, di Ira Sachs]
Parlando di tempi recenti, come non pensare a Queer di Luca Guadagnino, che esplora la biografia romanzata di William S. Burroughs non attualizzando una storia di settant’anni fa, ma raccontandola così com’era già allora, anche se la società perbenista faceva finta di non vedere.
Bisogna quindi rompere gli schemi e riportare a galla vite che sono sempre esistite, con ogni mezzo ed emozione possibile: desiderio, amore, lotta, tenerezza.
La rivoluzione può essere esercitata attraverso tanti mezzi diversi.
Può essere rappresentata dal mostrare in maniera esplicita i corpi e i rapporti tra essi, come nel Cinema di Gregg Araki sin dai tempi di The Living End e Mysterious Skin o in quello di Ira Sachs, da The Delta a Passages.
Come in Orlando, ma biographie politique di Paul B. Preciado, il corpo stesso può farsi portatore di tale rivoluzione, personale ma anche universale, per raccontare al mondo che ogni soggettività ha il diritto di vivere e di esistere nella forma che più sente propria.
“Quello che stavo dicendo è che costa molto essere autentica, signora mia, e in questo non bisogna essere tirchie, perché una più è autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di sé stessa”, ci dice il personaggio di Agrado in Tutto su mia madre, sempre del Maestro Almodóvar.
Anche una storia d’amore può essere rivoluzionaria e scavare nei meandri più profondi dell’animo umano e cambiare opinioni fino ad allora contrarie, come avviene in Estranei di Andrew Haigh.
Amore che può essere osteggiato da sé stessi, per via di un’omofobia interiorizzata, come ne La terra di Dio di Francis Lee, o da un ambiente conservatore e opprimente come l’esercito, come in Moffie di Oliver Hermanus; amore salvifico come conferma di un legame più profondo come in Matthias & Maxime di Xavier Dolan; amore sofferente come in Happy Together di Wong Kar-wai e amore per la propria autenticità, come nel delicato Cinema di Céline Sciamma, da Tomboy a Ritratto della giovane in fiamme.
[La serie Heartstopper e i suoi protagonisti queer vedranno la conclusione in un film Netflix]
In qualunque modo li si mostri, il sesso e l’amore sono lotta, soprattutto quando sono frutto di una rivendicazione d’esistenza.
L’esistenza queer però non è solo amore e sesso ed è per questo che bisogna concentrarsi anche sulla lotta in sé, che sia per la sensibilizzazione riguardo all’AIDS come in 120 battiti al minuto di Robin Campillo o per la semplice affermazione di diritti fondamentali, come nell’ormai classico Milk di Gus Van Sant.
Le rivoluzioni necessitano però di unire i fronti comuni, perché non c’è vittoria senza intersezionalità, e il commovente Pride di Matthew Warchus è sempre un ottimo punto di partenza.
Il fatto che storie queer siano sempre più presenti anche nella serialità mainstream, spesso destinata a un pubblico leggermente diverso da quello cinematografico, è indice di un cambiamento.
Esse vanno raccontate perché parte della nostra quotidianità, piaccia o no ai bigotti: la terza puntata della prima stagione della serie TV The Last of Us ha calato in un contesto distopico e apocalittico una delle più belle storie d’amore del piccolo schermo, dimostrando come la “nicchia” non debba più esistere.
Una serie TV deliziosa come Heartstopper, tratta dalla serie omonima di fumetti di Alice Oseman, è un prodotto destinato ai preadolescenti, ma è una guida chiara e dolcissima per chiunque voglia capire cosa significhi essere unə ragazzə queer oggi, in tutte le sfumature che ricadono sotto il termine ombrello.
Le storie queer sono le nostre storie, perché sono appartenute da sempre e continuano ad appartenere al nostro mondo: semplicemente prima nessuno voleva ascoltarle.
Anche in un prodotto mainstream come Wicked la rappresentazione queer è centrale non solo per come sono delineati i personaggi, ma anche per l’advocacy di molti degli interpreti.
Non stupisce che ciò accada con un musical, definito proprio da Cynthia Erivo, interprete di Elphaba e performer non-binary, “the gayest place on Earth”, tagliente e ironica risposta a quanti si sono subito scaldati quando è statə sceltə per interpretare Gesù nel revival teatrale dello storico musical Jesus Christ Superstar.
Il nostro lavoro è dunque cercare di togliere ai bigotti le classiche armi di distrazione di massa del “ma ormai c'è una storia gay ovunque”.
A ogni obiezione simile non mancheremo di rispondere come Nick Offerman, interprete del personaggio di Bill in The Last of Us:"Non è una storia gay, è una storia d'amore. Stronzo".
CineFacts non ha editori, nessuno ci dice cosa dobbiamo scrivere né come dobbiamo scrivere: siamo indipendenti e vogliamo continuare ad esserlo, ma per farlo abbiamo bisogno anche di te!
La paura dell’Alterità e la soppressione della Gioia sono nel menu dell’(in)civiltà umana fin dai suoi primi vagiti, e le “terapie” di conversione ne sono una delle espressioni più subdole e crudeli.
Come tali, è doveroso sbeffeggiarle.
A raccogliere la sfida è Jamie Babbit con Gonne al bivio (titolo italiano che perde l'impatto del più caustico e originale But I’m a Cheerleader), commedia romantica queer che sbatte in faccia all’ipocrisia omofoba il proprio, coloratissimo, orgoglio.
La cheerleader diciassettenne Megan (la "Russian Doll" Natasha Lyonne) scopre, un bel giorno, che limonare col proprio fidanzato è disgustoso e che le proprie compagne sono molto più interessanti. Il responso della sua famiglia è unanime: Megan è lesbica e deve guarire.
Affidata alle cure della True Direction, campo di conversione per ragazze e ragazzi gay gestito Mary Brown (Cathy Moriarty), Megan è dapprima incredula e volenterosa di tornare alla "normalità", ma l'incontro con la ribelle Graham (Clea DuVall) le farà scoprire due cose di sé: che il mondo è più bello fuori dal sentiero tracciato dai valori della società conservatrice e che l'Amore non ha genere.
Ispirato dalla vera esperienza di Brian Wayne Peterson (futuro creatore e produttore di serie come Smallville), Gonne al bivio è un film che utilizza il linguaggio del camp, della satira e dell’estetica pop per smontare la violenza strutturale dei luoghi di "rieducazione", ma anche gli stereotipi interni alla rappresentazione lesbica nel Cinema.
Jamie Babbit e il direttore della fotografia Jules Labarthe si ispirano direttamente alle scenografie fiabesche di Edward mani di forbice, all'immaginario plasticoso di David LaChapelle e all'anarchia queer di John Waters (la madre di Megan è interpretata da Mink Stole, storica collaboratrice del Papà del Trash).
Il tono scanzonato di Gonne al bivio demolisce a suon di positività l'omofobia della provincia statunitense, ma rappresenta anche una satira della stessa rappresentazione lesbica al Cinema, dominata fino ad allora dalla versione butch, virile e maschiaccia, a discapito della femme, più vicina alla sensibilità e alla moda (a)tipicamente femminile.
Tutto il film si gioca sulla dicotomia, sul doppio binario, a partire da quello tra il rosa-Barbie e il baby-blu, che caratterizzano l’eteronormatività della sessualità sin dai fiocchi appesi alle porte per annunciare la nascita di un nuovo, sano e riproduttivamente capace membro cis della società.
Arricchito da un cast notevolissimo tra cui spiccano Bud Cort (Harold e Maude), Julie Delpy e addirittura l'icona drag RuPaul (nei panni di un istruttore "etero" del campo di conversione), Gonne al bivio è un esempio di come il Cinema queer di fine millennio usi la forma per amplificare il proprio contenuto politico, decostruendo non solo i generi, ma anche i preconcetti della società patriarcale.
Un gioiello dal cuore romantico, da riscoprire e custodire con amore.
Palazzi della periferia londinese, un’esistenza solitaria e discreta, un incontro speciale di un solo fine settimana: Weekend è il secondo lungometraggio della carriera di Andrew Haigh, che aveva esordito nel 2009 con il docu-drama Greek Pete, incentrato sulla vita di un escort inglese di origine greca.
Russell (Tom Cullen) è schivo, timido, impacciato e parla a stento con gli amici della propria sessualità.
Un venerdì sera in un locale incontra Glen (Chris New), sfrontato, estroverso, schietto e quello che sembra essere solo un incontro di natura sessuale si tramuta subito in qualcosa di più profondo: Russell è riflessivo, rivolto al passato, mentre Glen è già proiettato al futuro e alla partenza imminente per Portland, Stati Uniti, dove frequenterà un corso universitario.
La separazione è all’orizzonte, prevista per la domenica successiva, ma ciò non impedirà a entrambi di condividere intensamente quell’unico fine settimana tra sesso, chiacchiere e riflessioni sulla vita che permetteranno a entrambi di guadagnare qualcosa dal loro incontro.
Ambientato quasi esclusivamente tra le pareti dell’appartamento di Russell, Weekend si snoda tenero plasmando davanti ai nostri occhi una relazione di cui conosciamo già la conclusione ma che ci sorprende con la profondità dei legami che si instaurano tra i due protagonisti: Russell mostra a Glen la sua abitudine di scrivere in forma di racconto un piccolo ritratto di ogni uomo con cui ha un incontro fugace, un modo per dare forse un senso alla propria esistenza e cercare di accettarsi.
In una delle scene più struggenti Russell confida a Glen di non aver mai potuto parlare della propria sessualità con i genitori perché non li ha mai conosciuti e Glen, che la vive invece a proprio agio, fa finta di essere suo padre e lo invita a fare coming out e a parlargli, intuendo il grande bisogno dell’altro di aprirsi, di dire le cose a voce alta.
Cullen e New sono una coppia perfetta, riuscendo a delineare ogni sfumatura di sentimento nelle loro interazioni: Russell e Glen rimarranno insieme fino al pomeriggio di domenica, quando nonostante la sofferenza del momento Russell decide di incontrare Glen alla stazione dove prenderà il treno per l’aeroporto.
Weekend è una piccola perla, tranquilla e introspettiva, che ha posto sicuramente le basi per quello che è a oggi il capolavoro di Haigh, ovvero Estranei, che di Weekend recepisce ambientazioni, riflessioni, sentimenti ed eccellenti performance dei due protagonisti.
Conosciuto anche come Paris 05:59, il film è il racconto tenero e senza filtri dell’incontro tra due ragazzi, Théo (Geoffrey Couët) e Hugo (François Nambot), all’interno di un cruising club di Parigi.
In poche ore, dalle 4:27 alle 5:59, il loro racconto compie l’intero arco narrativo da assoluti sconosciuti a timidi innamorati, ma non è un semplice incontro né solo una serata passata assieme: è una vera e propria piccola Odissea emotiva tra alti e bassi, che permette ai due giovani di conoscere in pochissime ore aspetti molto privati di entrambi e di trovarsi davanti alla decisione di volere o meno rivedersi.
Un viaggio nella Parigi notturna tra bici a noleggio, locali aperti 24 ore su 24 e treni affollati del primo mattino.
Che sia un viaggio particolare lo scopriamo sin dalla scena di apertura all’interno del club, che mostra un’orgia in maniera esplicita e iperrealistica: nell’intreccio di corpi sconosciuti, gli occhi di Théo e Hugo si incrociano per non separarsi più.
La luce rossa che inonda la stanza nella loro immaginazione si fa bianca, quando insieme si isolano dagli altri pur rimanendone circondati.
Il loro diventa subito un sesso pieno d’amore.
Usciti dal club sono ormai decisi a continuare la notte insieme, ma la confessione mortificata di Théo sembra distruggere il sogno appena iniziato: non ha usato alcuna protezione, rischiando dunque di contrarre l’HIV poiché Hugo è sieropositivo a carica non rilevabile.
Ecco allora la seconda parte del viaggio, tra farmacie e pronto soccorso per attivare immediatamente la cura di contenimento del virus, durante la quale Hugo accompagnerà Théo senza mai lasciarlo, condividendo ansie, paure, pensieri e considerazioni sulla vita: decidono di stare “sulla stessa barca”.
Per la sua narrazione in un tempo ristretto, Théo et Hugo dans le même bateau è stato paragonato proprio a Weekend di Andrew Haigh, al quale lo accomuna anche la dolcezza degli scambi tra i due protagonisti, che recitano con una chimica palpabile e un’onestà rimarchevole, che li hanno resi una coppia anche nella vita reale.
Il film ha vinto il Premio del pubblico al Teddy Award del Festival Internazionale del Cinema di Berlino 2016: nonostante sia stato presentato al Torino LGBT Film Festival 2016, al MIX Milano 2016 e al Florence Queer Festival 2016, è ancora inedito in Italia.
È il 1988 e il governo di Margaret Thatcher ha approvato una legge (articolo 28) secondo cui l’omosessualità è condannabile al pari della pedofilia.
In questo disastroso contesto vivono persone come Jean (Rosy McEwen), costretta ad avere una doppia vita in quanto lesbica: durante la settimana è una semplice e rispettata insegnante, mentre nel weekend frequenta ambienti segreti riservati alla comunità queer dove può liberarsi ed essere sè stessa.
Un giorno una sua studentessa scopre questo segreto, che Jean farà di tutto per preservare.
Girato in pellicola 16mm, Blue Jean ci porta in un’Inghilterra angusta e disperata, in cui è proibito esprimersi e dove l’unico modo per sopravvivere alla società eteronormata è fingersi di rientrare esattamente negli standard imposti.
Jean non può però allontanarsi da ciò che è davvero e cerca di rimanere fedele a quello che crede, nonostante il timore costante che qualcuno possa scoprirla.
Nemmeno le persone a lei più care, come la sorella, sanno del suo orientamento e ciò enfatizza giorno per giorno un ardente desiderio di condivisione che sembra irraggiungibile.
Blue Jean dà un’idea chiara e riconoscibile degli anni thatcheriani, in particolare focalizzandosi sulla comunità lesbica del periodo; Georgia Oakley si approccia a questo scenario con delicatezza, valutando bene gli elementi da aggiungere, bilanciando particolarmente il realismo dell’opera per evidenziare come questo racconto non fosse solo quello di Jean, ma il reale vissuto di molte donne dell’epoca.
Dover vivere in silenzio e nei piccoli momenti, senza farsi notare, era un’abitudine che molti a proprie spese hanno imparato a internalizzare, vivendo in questa bolla serena di accettazione e gioia senza curarsi più dell’esterno.
Solo la frattura del paradiso segreto vissuto da Jean e le sue amiche comincia a risvegliare le coscienze e mette davanti a un fatto certo: senza diritti non si può essere al sicuro in una società che non accetta il diverso, in governi restrittivi in cui chi è intenzionato a fare del male alle minoranze si sente addirittura autorizzato a farlo.
Quello che Georgia Oakley regala con il suo esordio è un film sincero e spaventoso, ma estremamente coraggioso, che non manca di momenti dolci e fragili in un clima doloroso.
Star (Sarah Walker) finisce in ospedale dopo aver provato ad avvelenarsi e, al suo ennesimo tentativo di suicidio, medici e infermieri cominciano a riconoscerla.
Durante la sua ultima visita incontra An (Ziyin Zheng), studente non-binary di Shanghai volontario dell’ospedale; dopo qualche piccola titubanza tra i due nasce un legame che si fa via via più profondo.
Attraverso lunghe conversazioni e messaggi Star e An arrivano infine a condividere i loro più intimi segreti: l’amicizia che nasce crea qualcosa di unico, che cambia loro stessi e il modo che hanno di percepire il mondo.
Quella di An e Star è una storia particolarmente delicata e toccante, che scava nel profondo cercando il senso della vita nell’amore celato in ciascuno di noi, anche quando la solitudine sembra insopportabile.
Ashley McKenzie, come aveva già fatto con Werewolf in precedenza, invita a indagare nella profondità di certi rapporti che possono essere salvifici spingendo a cercare aiuto quando ci si sente abbandonati, dando la possibilità di intraprendere una strada diversa per non lasciarsi sopraffare dal dolore.
L’asessualità di Star e il non-binarismo di An, inoltre, portano lo spettatore a valutare e percepire prospettive inusuali e punti di vista che difficilmente ritroviamo sullo schermo.
In particolar modo è difficile nel Cinema parlare di asessualità in quanto, a meno non si parli di un personaggio esplicito come Star, essa risulta invisibile e per nulla rappresentata; non a caso la comunità asessuale spesso cerca risposte da sola, individuando protagonisti anche in film molto famosi che possano in qualche modo rientrare nella descrizione, sempre a gran fatica e con non pochi dubbi.
Il film si propone di sfidare le norme sociali, presentando una storia fuori dagli schemi non solo per la realizzazione tecnica (memorabile l’uso a volte anche fin troppo invasivo della musica elettronica) ma soprattutto per com’è raccontata, attraverso gli occhi inusuali e inaspettati di esseri umani lasciati ai margini.
Seppur le due ore di Queens of the Qing Dynasty presentino i loro difetti, film come questo sono necessari e sentiti, a maggior ragione in un’epoca in cui ancora si fa fatica a liberarsi di certi arcaici schemi.
Ballister Cuoreardente (Riz Ahmed) è il primo cittadino ad avere la possibilità di diventare cavaliere all’Institute for Elite Knights nel regno di Gloreth.
Il giorno della cerimonia la regina Valerin viene assassinata da un laser partito proprio dalla spada di Ballister: lui spiega di non essere colpevole ma questo non basta per scagionarlo e per questo motivo si ritrova a sopravvivere nascosto ai margini della società.
Proprio qui incontra la mutaforma Nimona (Chloë Grace Moretz) che sceglie di stare al suo fianco e aiutarlo nella missione di ritrovare il vero colpevole.
Nimona crede fermamente che lei e il cavaliere siano fatti della stessa pasta, entrambi malvagi; anche se Ballister non pensa e non sente di essere cattivo, decide comunque di accettare l’aiuto di Nimona, che si rivelerà essere un alleato invincibile.
Nimona è un film queer coded in tutti i sensi.
Prima di tutto, infatti, bisogna introdurre sia l’opera omonima da cui è tratto, un webcomic poi diventato novel, sia il suo scrittore ND Stevenson, una persona transgender non-binary il cui percorso si può percepire leggendo l’opera, oltre che guardando il film.
Lasciando un attimo da parte la relazione amorosa tra Ballister Cuoreardente e Ambrosius Limbodoro, che fa da sfondo al racconto senza essere particolarmente enfatizzata e ingombrante, è interessante analizzare la figura di Nimona.
La protagonista si mostra come una giovane adolescente anche se sappiamo che di anni ne ha tantissimi (più di mille) e che sceglie di gestire il suo aspetto come meglio crede.
Nimona è, quindi, la metafora perfetta della fluidità di genere: l’identità non è univoca ma mutevole, non è qualcosa di prefissato bensì qualcosa che può cambiare quando se ne sente il bisogno.
Nimona si rende conto di essere diversa, sa di non essere accettata e vive come una reietta nella speranza diventi visibile in maniera positiva agli occhi degli altri, ha imparato a nascondersi ma in fondo desidera solo che qualcuno la ami per quel che è.
Il film è sicuramente uno dei primi (se non il primo) lungometraggi rivolto a un target di famiglie che mostra sia esplicitamente una relazione omosessuale sia (meno esplicitamente) l’esistenza di persone fluide e non-binary, attraverso il racconto di una storia avvincente e avventurosa, animata con uno stile unico e che tiene piacevolmente incollati allo schermo.
Che Sebastián Silva, giovane e prolifico regista cileno, ami giocare col mettere in scena una realtà grottesca e provocatoria era già evidente dai suoi precedenti film, Crystal Fairy & the Magical Cactus e Nasty Baby, solo per citarne alcuni.
In Rotting in the Sun la satira incontra il mockumentary portando in scena un Sebastián Silva e un Jordan Firstman, attore e sceneggiatore statunitense, di finzione, alternativi, in un film ancora più grottesco e provocatorio.
Sebastián è un regista depresso, dipendente da varie sostanze e con tendenze suicide in attesa di risposta da parte di HBO per un progetto da lui ideato.
Il suo appartamento si trova in un palazzo in corso di ristrutturazione, praticamente un cantiere a cielo aperto.
La sua cameriera Vero (Catalina Saavedra) è sbadata e irrispettosa della privacy di Sebastián, che per fuggire il logorio quotidiano va in vacanza in una spiaggia nudista gay, dove incontra l’esuberante Jordan, influencer sfacciato e superficiale che gli propone di lavorare insieme.
Tra scene esplicite di incontri tra uomini e feste alle quali Sebastián è troppo depresso per partecipare, il film procede tra situazioni assurde e amaramente esilaranti, costruendo la relazione, lavorativa ma non meno tossica, tra Sebastián e Jordan, finché non succede l’irreparabile: ad appena metà film, il nostro protagonista esce di scena riempiendo da quel momento in poi la narrazione con la sua assenza, anche grazie alla spasmodica ricerca di Jordan, impaziente di iniziare il lavoro insieme.
Sebastián è nascosto “in pieno sole”, e se si traduce accuratamente il titolo si intuisce anche facilmente il perché.
La cameriera Vero sa più di quanto riesca a dire per paura di essere coinvolta in quello che è un semplice incidente, ma non riesce nemmeno a superare la barriera linguistica con Jordan, che da bravo statunitense non crede sia affar suo capire lo spagnolo in una terra come il Messico, in cui è lingua nazionale.
Equivoci e situazioni stravaganti si susseguono fino al finale a sorpresa, che risolve ciò di cui lo spettatore era già a conoscenza.
Lo stile sopra le righe, la storia sarcastica e le interpretazioni realistiche di Sebastián Silva, Jordan Firstman e Catalina Saavedra rendono Rotting in the Sun una commedia nera che ci mostra come le storie queer non abbiano confini prestabiliti e che non devono per forza essere relegate al genere drammatico.
PJ e Josie (Rachel Sennott e Ayo Edebiri) sono due studentesse della Rockbridge Falls High School considerate sfigate e impopolari.
La loro queerness, per giunta, le rende ancora più delle reiette.
Per piacere agli altri si inventano di aver trascorso le vacanze in un riformatorio e decidono di creare un club di difesa personale per sfruttare il loro breve momento di popolarità; il loro vero obiettivo, però, è perdere la verginità prima di terminare il liceo.
La brillante commedia di Emma Seligman mette in scena delle dinamiche liceali ispirate anche ai classici film anni ’90 e 2000, in cui le perdenti vogliono a tutti i costi prendere il posto delle vincenti, rompendo gli schemi e prendendo pieghe inaspettate, in cui anche i ruoli di genere vengono spesso ribaltati o distrutti.
Le due protagoniste si ritrovano in un sistema così eteronormato e patriarcale (volutamente esasperato) che riescono a fare quello che vogliono senza essere particolarmente giudicate quando attuano delle scelte folli come, per esempio, creare un club di autodifesa, ovvero una scusa per fare a botte liberamente senza ripercussioni.
Tra schiaffi, pugni, calci, violenza e un’innumerevole serie di cicatrici le ragazze riescono a legare e capirsi, venendo a patti col fatto che alla fine vivono tutte vite simili, tutte altrettanto piene di adolescenziali problemi.
Anche se PJ e Josie sono lesbiche non fanno del loro essere omosessuali una colpa né un punto di forza, rientrare in un certo orientamento è semplicemente uno dei tanti potenziali motivi per cui sono delle escluse e trattate da sfigate, ma non è l’unico: essere delle outsider è il motivo che le allontana da tutti.
Bottoms è spesso sopra le righe, non risparmia nessuno con gentilezze facendo rientrare senza remore anche battute estreme e non si prende pienamente sul serio con la sua demenzialità, nonostante mantenga un fondo di verità nel descrivere personalità queer.
Emma Seligman, infatti, non si sforza di rappresentare queste identità rinchiudendole in una standardizzazione, ma mostrandole in modi differenti, eliminando noiosi stereotipi.