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8 film per conoscere meglio quel pazzo di Lars von Trier

Una panoramica sulla carriera di uno dei registi più controversi degli ultimi 30 anni 

Lars von Trier è uno dei primi nomi con cui si confronta un cinefilo che si è appena affacciato sul burrone del panorama autoriale. 

 

Le ragioni sono molteplici, alcune delle quali hanno chiavi di lettura immediate; basti pensare all'inflazione del termine "disturbante" e a quanto la poetica di questo regista sia spesso stata ridotta a questo concetto striminzito. 

 

Allo stesso modo la sua scorrettezza nelle situazioni formali, un umorismo nero di cui non si riescono a intravedere i confini e gli aneddoti paradossali su ubriachezza e nudità moleste sul set contribuiscono ad ammantare la sua aura di artista scomodo, il fascino delle stranezze imbarazzanti che vengono perdonate solo ed esclusivamente agli autori di successo.

 

 

[Lars von Trier si presenta alla Berlinale 2014 con una t-shirt con la scritta "persona non grata": così era stato definito al Festival di Cannes dopo aver fatto delle battute in cui aveva dichiarato di simpatizzare per Adolf Hitler]

 

D'altra parte il Cinema di Lars von Trier è più di un feticcio da salotto e, oltre all'indiscutibile eccentricità del personaggio, ciò che rende i suoi film così memorabili anche per gli spettatori meno avvezzi al Cinema d'autore nordeuropeo è l'immediata riconoscibilità della sua poetica.

 

Allo stesso modo in cui, fin da bambini, riusciamo a distinguere alcuni pittori per l'uso espressionistico del colore o per un'evidente innovazione nella stesura delle pennellate, nel Cinema ci sono degli elementi che appaiono immediatamente identificabili, una combinazione di fattori che non necessitano un occhio critico o un particolare background per essere riconosciuti: nelle opere del regista danese per esempio è l'uso evocativo della musica, in particolare la classica, la divisione in capitoli di matrice letteraria, ma soprattutto la discrepanza tra il singolo e la società, la cui inconciliabilità ha un impianto tradizionalmente tragico.

 

Anti-eroi, in particolare anti-eroine, che si muovono microcosmi in cui la malattia si declina in vari modi - fisici, mentali, morali, sociali - e di cui Lars von Trier si mostra un pruriginoso indagatore, al limite del voyeurismo e spesso al di là dei limiti socialmente accettati della provocazione che, a sua volta, non è solo concettuale ma anche tecnica.

 

Questa Top 8 non ha come obiettivo quello di decretare quali siano i migliori film di Lars von Trier, né tanto meno quella di sostituirsi a una monografia: perlopiù si tratta di un reminder per chi conosce già il regista e di una rapida guida per chi invece non ha ancora ceduto al diabolico charme di un regista che o si ama o si odia e, molto spesso, per gli stessi motivi.  

 

[Provocazione e omaggio a Ingmar Bergman, una grande ispirazione per Lars von Tier]

 

 

Lars Trier nasce il 30 aprile 1956. 

 

No, non è un refuso: l'aggiunta del "von" è un omaggio al regista Joseph von Stenberg e a suo nonno Sven Trier, il cui nome durante il soggiorno in Germania era stato abbreviato "Sv." e confuso con "von".

 

I genitori sono atei, comunisti e nudisti: Lars von Trier cresce in un ambiente libero, sviluppando una personalità ansiosa e numerose fobie, tra cui l'ipocondria e l'areofobia, per colpa della quale non ha mai viaggiato oltreoceano.

Nel suo Cinema è evidente una volontà di autodeterminazione che non può che considerarsi anche frutto della sua educazione libertina.

 

Lars von Trier ha sempre avuto le idee chiare: il suo primo cortometraggio risale al 1967 e, tra medi e corti, in quel periodo lavora quasi incessantemente mentre studia al Danish Film Institute, in modo da coltivare e raffinare il suo precoce talento. 

 

Il primo lungometraggio, nonché il primo capitolo della cosiddetta Trilogia Europea, è del 1984 e si intitola L'elemento del crimine: un thriller kafkiano e allucinato i cui elementi del giallo vengono subito inglobati da un'Europa in pieno disfacimento, corrosa da una pioggia incessante.

A seguire gli altri due capitoli della Trilogia: Epidemic nel 1987 ed Europa nel 1991. Il primo è un lungometraggio sperimentale e metacinematografico in bianco e nero dove realtà e finzione si accavallano, il secondo è uno spaccato di vita di uno statunitense con origini tedesche nella Germania post-bellica, dove la voce narrante è niente meno che quella di Max Von Sydow.

 

I due film sanciscono il sodalizio di Lars von Trier con l'attore Udo Kier

 

[Il trailer de L'elemento del crimine]

 

 

Lars von Trier raccoglie premi al Festival del Cinema di Cannes fin dai suoi primi lungometraggi: il Grand Prix tecnico per L'elemento del crimine e il Premio della Giuria per Europa. 

 

Emblematiche agli esordi anche due produzioni televisive: il film Medea nel 1988 e la miniserie The Kingdom nel 1994 - a cui seguirà una seconda stagione nel 1997 e una terza conclusiva nel 2022. 

Medea è basato su una sceneggiatura mai trasposta sullo schermo di Carl Theodor Dreyer, una delle sue più grandi ispirazioni: un'operazione non priva di una certa arroganza in cui l'ambientazione è la Danimarca e non la Grecia, immersa nella nebbia e in una palude che non può che far pensare ad Andrej Tarkovskij, un altro mito del regista di Copenaghen.

 

The Kingdom invece destruttura il medical drama arricchendolo di medium, fantasmi e personaggi grotteschi: il riferimento è da cercare oltreoceano, in David Lynch e in quel suo Twin Peaks che all'inizio degli anni '90 cambiò inesorabilmente il modo di concepire la serialità televisiva. 

 

Segue la cosiddetta Trilogia del cuore d'oro che osserveremo nel dettaglio nelle posizioni della Top 8: Le onde del destino nel 1996, Idioti nel 1998 e l'anti-musical Dancer in the Dark nel 2000 con protagonista la cantante islandese Björk.

La trilogia presenta una certa organicità tematica pur senza continuità narrativa e temporale: sono storie di donne, tre martiri dal "cuore d'oro" la cui vita è consumata dalla tragedia, un apparentemente incomprensibile accanimento del destino.

 

La realtà è ineluttabile, la purezza si paga con la vita: nel Cinema di Lars von Trier è una condizione immanente.

 

 

[Nonostante i problemi sul set tra la cantante e il regista il film vince la Palma d'oro]

 

Idioti è il film emblema del Dogma 95, manifesto cinematografico ideato da Lars von Trier e dal collega danese Thomas Vinterberg: l'obiettivo era purificare il Cinema dall'individualismo degli autori e trasporre su pellicola la realtà, senza effetti speciali e alterazioni. 

 

Il manifesto prevedeva 10 regole ferree per la stesura di film minimalistici privi di musica extradiegetica, di oggetti di scena esterni, di scenografie ricostruite, di filtri e luci non naturali, con le riprese che dovevano essere effettuate rigorosamente a mano, senza supporti per la macchina da presa: la serietà del Dogma 95 ha connotati religiosi, tant'è che nello stesso documento Lars von Trier utilizza l'espressione "voto di castità". 

Le regole d'altra parte sono fatte per essere infrante e anche i due ideatori si allontanano molto velocemente dalla rigidità del Dogma 95.

 

Del resto era prevedibile: un regista con l'ego di Lars von Trier non era destinato a mantenersi a lungo a digiuno dall'autorialità.

 

 

[Certificazione di autenticità del Dogma 95]

 

Questo movimento che estremizza i principi cardine della Nouvelle Vague è interessante in prevalenza non tanto per le opere a esso aderenti in modo inequivocabile, quanto più per lo sdoganamento dell'utilizzo delle videocamere digitali - il cui prezzo abbatteva i costi di produzione - e per aver stimolato una nuova generazioni di filmmaker indipendenti. 

 

Il vero grande successo del Dogma 95 infatti non è Idioti, bensì Festen - Festa in famiglia di Thomas Vinterberg, Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 1998. 

 

Nel 2003 Lars von Trier approda al documentario con Le cinque variazioni: in meno di due ore di puro sadismo il regista sfida Jørgen Leth a dirigere dei remake del suo cortometraggio del 1967 L'uomo perfetto, ma sulla base di condizioni che sarà von Trier di volta in volta a imporgli. 

Emerge uno spirito collaborativo ricco di entusiasmo e una discussione sui limiti del linguaggio cinematografico e sul confine sottile tra etica e arte.

 

Il 2003 è anche l'anno di inizio di quella che avrebbe dovuto essere la Trilogia Americana, se non fosse rimasta un dittico incompleto: Dogville nel 2003 e Manderlay nel 2005 sono i film che dovevano precedere Washington nel 2007, film che però non fu mai girato.

In questo caso il filo con cui sono legate le due opere non è solo concettuale perché la storia narrata è quella di Grace, interpretata prima da Nicole Kidman e poi da Bryce Dallas Howard, perché l'attrice australiana si rifiutò di tornare a lavorare con Lars von Trier dopo l'esperienza di Dogville. 

 

Siamo negli Stati Uniti degli anni '30: il Paese sta crescendo, rinasce dalle ceneri della Grande Depressione, ma al progresso economico non corrisponde una crescita umana; gli USA dipinti da Lars von Trier sono intrisi di ipocrisia e puritanesimo, permeati dall'omertà e corrotti dalla malavita.

 

Siamo lontani dalle grandi città, il regista disseziona la provincia reazionaria nella sua paura del diverso, non necessariamente inteso come minoranza, ma come elemento estraneo.

 

[Il trailer di Dogville]

 

 

Nel dittico statunitense risalta l'influenza di Bertolt Brecht, drammaturgo tedesco vissuto tra la fine dell'Ottocento e la metà del Novecento e fondatore del cosiddetto Teatro Epico, di cui uno degli scopi era alienare il pubblico per spingerlo a formulare un pensiero critico, sottraendosi alla sospensione dell'incredulità necessaria alle rappresentazioni realistiche. 

 

Tra le tecniche utilizzate da Brecht sono annoverabili la rottura della quarta parete, gli attori che si muovevano tra il pubblico e la presenza di attrezzatura di scena sul palco; parallelamente nella Trilogia americana di Lars von Trier - che trilogia non fu - la periferia americana è una scenografia teatrale, priva di qualsivoglia forma di realismo.

 

In Dogville - che surclassa il film successivo come fama e apprezzamento di pubblico e critica e che verrà approfondito tra le posizioni - il paese in cui avvengono le vicende è ridotto a una cartina disegnata con un gesso sul pavimento.

 

Nel 2006 Lars von Trier si cimenta nella commedia con a mio avviso ottimi risultati: Il grande capo narra la storia di un uomo che finge di non essere il capo della sua stessa azienda per non turbare il rapporto con i suoi colleghi, fino a quando assumerà un attore che interpreterà il ruolo del "grande capo" che viene dall'estero. 

 

Oltre ad essere esilarante, e a dimostrare l'acuto senso dell'umorismo di Lars von Trier, il film è memorabile anche per l'utilizzo per la prima volta nella Storia dell'automavision, una tecnica di ripresa cinematografica che utilizza una camera fissa senza nessun operatore a lavorarci: il risultato è coerente con il genere del film, tra visi e teste tagliate che ne amplificano la dimensione demenziale. 

 

[Il trailer de Il grande capo]

 

 

C'è un motivo per cui Lars von Trier viene chiamato spesso solo per nome dai suoi estimatori, o per cui è facile stabilire una connessione emotiva - positiva o negativa che sia - con lui: la sua Trilogia della Depressione formata da Antichrist del 2009, Melancholia del 2011 e Nymphomaniac, film diviso in due parti distribuite nel 2013 e nel 2014.

 

Un horror, un film di fantascienza e un dramma dalle tinte pornografiche: tutti e tre si insinuano nei loro generi di riferimento per poi metterli in discussione.

 

I film singoli li analizzerò separatamente, ma è d'uopo guardarli nella loro interezza: l'obiettivo di von Trier non è quello di descrivere la depressione in senso assoluto, ma trasporre nel linguaggio cinematografico l'esperienza soggettiva degli episodi depressivi. È un Cinema che mette a nudo l'autore e che per farlo, ancora una volta, utilizza delle protagoniste femminili, in questi casi interpretate da Charlotte Gainsbourg in Antichrist e Nymphomaniac e da Kirsten Dunst in Melancholia. 

 

A concludere questo breve excursus sul Cinema di Lars von Trier è La casa di Jack, l'impietoso thriller del 2018 con protagonista Matt Dillon, in cui la storia di un serial killer è una metafora del processo artistico dell'autore danese: un'altra corroborante ricerca della verità su se stesso.

La casa di Jack è un'autoanalisi corrosiva e macabra, che sfocia in un'autoironia da commedia nera che ha turbato non pochi spettatori.

 

Com'è evidente in questa panoramica ho evitato di disquisire degli scandali attorno al personaggio di Lars von Trier e di fornire pareri personali a riguardo: secondo la mia opinione il Cinema parla per sé, senza la necessità di rincorrere dei sensazionalismi.

 

Quello che è certo è che Lars von Trier - a cui purtroppo è stato diagnosticato nel 2022 il Morbo di Parkinson - ha segnato inesorabilmente la Storia del Cinema contemporaneo.

 

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Posizione 8

Le onde del destino

1996 

 

Siamo nella Scozia del Nord, all'inizio degli anni '70.

 

Le onde del destino narra la storia della vergine Bess (Emily Watson) in una piccola e gelida comunità calvinista. La ragazza sposa lo svedese Jan (Stellan Skarsgård) che lavora su una piattaforma petrolifera. 

 

A causa di un incidente Jan rimane paralizzato e Bess cerca di salvarlo in qualsiasi modo, perfino prostituendosi su richiesta del marito.  

La bontà di Bess è sia una benedizione che una malattia, la donna è destinata a venire mortificata sotto l'occhio di una comunità retrograda che non sa riconoscere il bene se non nelle vie prestabilite da rigidi precetti religiosi. 

 

Emily Watson recita in stato di grazia: lo sguardo buffo dei suoi occhi grandi rivela tutta l'ingenuità, la tenerezza e la spontaneità del personaggio. Bess è una figura cristica in un mondo perverso, il suo altruismo sfocia nell'abnegazione; è una martire laica a cui von Trier non concede salvezza. 

Il film è diviso in sette capitoli, ognuno dei quali introdotto da una hit musicale degli anni '70. La macchina da presa a mano riprende gli attori in uno stile che scimmiotta il dilettantismo, ma che è tutto fuorché acerbo. 

 

Il regista guarda con grande attenzione al solenne Cinema dei Maestri Carl Theodor Dreyer e Ingmar Bergman, non solo fari nel Mare del Nord cinematografico, ma anche narratori di tensioni spirituali e religiose. 

 

Il film vince il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 1996. 

 

Lo trovate su Amazon.

 

Posizione 7

Idioti

1998

 

Nessun set, nessun filtro ottico, il suono e le immagini modulate separatamente, uso esclusivo della macchina a mano. 

 

Come anticipato nell'introduzione Idioti, insieme a Festen - Festa in famiglia di Thomas Vinterberg, è il film-manifesto del Dogma 95 e in quanto tale non può che meritare un posto tra i film più memorabili di Lars von Trier. 

 

 

È paradossale associare l'espressione "voto di castità" dei registi afferenti al Dogma 95 a un'opera come Idioti che è tutt'altro che casta; il film infatti narra di un gruppo di giovani che coabita in una casa di periferia e che simula perennemente un ritardo mentale. 

 

Non mancano la nudità e il sesso - ovviamente non dissimulato, per amore dell'autenticità.

 

Lars von Trier desiderava utilizzare il linguaggio cinematografico per sondare la verità - in un modo che portava alle estreme conseguenze l'idea di Jean Luc-Godard secondo cui "la fotografia è verità, il Cinema è verità 24 volte al secondo" - e così i suoi idioti vogliono liberarsi dalle sovrastrutture della società, in particolare quella borghese, per trovare "l'idiota che è dentro uno di noi", i loro "io" autentici e scevri da pregiudizi. 

 

 

Non manca il gusto della provocazione, né degli "idioti" verso la società, né di von Trier nei riguardi dello spettatore.

 

Lo trovate su Amazon.

 

Posizione 6

Dancer in the Dark

2000

 

Vincitore della Palma d’oro nel 2000, Dancer in the Dark è il terzo capitolo della Trilogia del cuore d'oro dopo Idioti e Le onde del destino.

 

Selma (Björk, premiata a Cannes), è un'immigrata cecoslovacca che lavora come operaia in una fabbrica negli Stati Uniti: sta perdendo la vista a causa di una malattia genetica e il figlio è destinato allo stesso destino, a meno di sottoporsi a un costosissimo intervento chirurgico.

La donna lavora duramente, accumula straordinari su straordinari per permettergli un futuro migliore. 

 

Il canto e il ballo sono l'unica via di fuga in una vita di sacrifici, una splendida illusione in una vita monotona e castrante.

Il regista danese lavora per sottrazione sul musical, genere cinematografico hollywoodiano per eccellenza, scarnificandolo. L'orpello più bello nella fabbrica statunitense - terra di opportunità e umiliazioni - è la soave e limpida voce di Björk.

 

Dancing in the Dark è anche il titolo di un brano di Fred Astaire, ma nel film con Björk non ci sono palcoscenici, luci, euforia, costumi eleganti.

 

Nonostante ciò Selma è cordiale con tutti e piena di speranza: vuole bene a Cvalda, la sua amica operaia (Catherine Deneuve), ama il figlio, è grata al suo nuovo paese e familiarizza rapidamente con la coppia di vicini: lei, estimatrice del lusso e degli status symbol e lui, un impacciato poliziotto che indossa sempre la sua divisa. 

 

La conoscenza di questa coppia sarà il preludio della tragedia.  

 

Lo trovate a noleggio su Chili

 



 

Posizione 5

Dogville

2003 

 

Primo capitolo del dittico statunitense il film è diviso in nove capitoli - con una classica struttura teatrale evidenziata da una scenografia da palcoscenico - e si apre con la voce di un narratore onnisciente che descrive la cittadina che dà il titolo al film.

 

Come anticipato nell'introduzione mai esplicitamente come in questo film emerge l'influenza nell'opera di Lars von Trier del teatro epico di Bertolt Brecht.

 

I paesani si muovono in una grigia e placida monotonia, una melma di perbenismo in cui ogni sogno o speranza è ormai consumato per lasciare spazio a una semplicità ipocrita, prodotto dell'ignoranza e della grettezza molto più che del tanto vantato senso comunitario e dell'ostentata genuinità.   

 

A sconvolgere questa placida banalità sarà Grace (Nicole Kidman), scappata per motivi misteriosi da alcuni gangster: è dolce, ingenua, cordiale e bella. 

 

Grace è l'altro, il diverso, qualcosa da demolire in quanto elemento estraneo alla comunità, motivo di contesa e oggetto del desiderio. I paesani odiano i cambiamenti, sia in meglio sia in peggio, le aggiunte quanto le perdite.  

 

La cittadina di Dogville diventa per la donna un vero e proprio inferno: in cambio di ospitalità e protezione le richieste dei paesani diventano sempre più opprimenti e scabrose.

Grace offre i suoi servigi, ma i favori diventano lavoro e il lavoro diventa sfruttamento e mortificazione, emotiva e fisica.  

 

Il vero peccato di Grace è la sua arroganza, l'atto di perdonare ai cittadini di Dogville ciò che non perdonerebbe mai a se stessa in un impeto di superiorità. 

 

Lo trovate su Amazon.

 

Posizione 4

Antichrist

2009

  

Un uomo e una donna fanno del sesso esplicito, il loro figlio cade da una finestra sulle dolci note di Lascia ch'io pianga di Georg Friedrich Händel: un prologo lirico in bianco e nero spalanca le porte del bosco infernale di Antichrist, primo capitolo della Trilogia della Depressione.

 

L'horror firmato Lars von Trier narra la storia di una coppia di protagonisti senza nome che, dopo la morte del figlio piccolo, si rifugia proprio in una casetta nel bosco.

 

Si tratta di un film di genere dalle premesse classiche, ma di cui classico non è lo sviluppo.

 

Lui (Willem Dafoe) è uno psichiatra, lei (Charlotte Gainsbourg) è una moglie sull’orlo di una crisi di nervi.

L’assenza di nomi permette a Lars von Trier di attuare una disamina in chiave universale: nella coppia si instaura un rapporto tra terapeuta e paziente, nonostante lei cerchi - soprattutto tramite la sessualità - di instaurare un legame.

 

Ci si trova davanti a una coppia di opposti e complementari: l’uomo e la donna, il raziocinio e la follia, l’ordine e il caos, la psicanalisi e le superstizioni, il rigore della parola e l’istintività della carne.

Il bosco è il tempio di Satana, dove si palesano presagi nefasti.

 

La visione di Lars von Trier è fortemente nichilista, se non misantropa: fuori dal rigore della società, una volta che un trauma manda in frantumi le sovrastrutture del matrimonio, viene fuori l’inconciliabilità degli opposti.

Non c’è complementarietà che non si risolva nella violenza più cruda e demoniaca.

 

Lo trovate su Amazon.

 



Posizione 3

Melancholia

2011

 

Melancholia I è un'incisione a bulino di Albrecht Dürer che risale al 1514, una delle più importanti dell'artista tedesco; sullo sfondo dell'opera, densa di simbolismo esoterico, c'è una cometa che sta precipitando in mare: l'astro rappresenta il sole nero, simbolo della fase alchemica della nigredo.

 

La nigredo nella psicologia analitica di Carl Jung è una metafora per indicare la notte oscura dell'anima.

 

È lecito domandarsi il motivo di questa introduzione per Melancholia, un film che annienta l'immaginario della fantascienza per lasciarne nient'altro che lo scheletro.

 

Un pianeta di nome Melancholia si sta per schiantare sulla Terra, il prologo sulle note di Tristano e Isotta di Richard Wagner ci anticipa già che non c'è speranza di salvezza; la catastrofe è imminente e Lars von Trier si focalizza sulla diversa reazione di due sorelle, Claire (Charlotte Gainsbourg) e Justine (Kirsten Dunst, premiata per questo ruolo al Festival di Cannes), in particolare la seconda.

 

Claire non vuole accettare la fine ma Justine, che soffre di depressione, accetta stoica il catastrofico destino dell'umanità; il pessimismo cosmico di stampo nietzschiano a cui si aggrappa la protagonista, inesorabilmente melanconica, la paralizza nel quotidiano ma la rasserena nei momenti in cui l'apocalisse è prossima.

 

Melancholia è un'opera di fantascienza intimista densa di riferimenti artistici, musicali e cinematografici; se nel Solaris di Andrej Tarkovskij la malinconia si reincarnava negli affetti e nei rimorsi del personaggi sotto l'effetto misterioso dell'intoccabile pianeta che dà il nome al film, in Melancholia assume i connotati di un disastro, l'apocalisse della malattia che soffoca qualsiasi soffio vitale.

 

Lo trovate a noleggio su AppleTV, Rakuten TV, Google Play e Amazon Store. 

 

Posizione 2

Nymphomaniac

2013 e 2014

 

Lars von Trier non si adatta a un genere: lo usa.

 

 

Avviene anche con il porno: si fa padrone dei suoi tòpoi e li decontestualizza, rende la visione di fellatio, BDSM, threesome un ulteriore metodo per parlare di se stesso e della sua crisi.

 

Non a caso Nymphomaniac - sia la versione divisa in volume 1 e 2 sia la director's cut lunga cinque ore e mezza - è il film del regista danese che ha generato più hype anche in chi del suo Cinema non si era mai interessato prima.

 

La pruriginosa curiosità verso il sesso - complice anche una campagna marketing che raffigura attori famosi nel bel mezzo di un orgasmo - imbroglia lo spettatore che si troverà di fronte all'epopea di una donna che catalizza nel rapporto morboso con il proprio corpo le sue nevrosi, un complesso di Elettra irrisolto e tutte le idionsicrasie del suo vuoto interiore. 

 

La protagonista è Joe, da giovane interpretata da Stacy Martin e durante la maturità da Charlotte Gainsbourg; la donna si racconta a Seligman (Stellan Skarsgård), un uomo anziano dall'apparenza comprensivo, che riduce la donna a oggetto di paternalismo, rivelando la superficialità della sua cultura aneddotica.    

 

Trascinato da una colonna sonora composita e inusuale che va da Führe mich dei Rammstein a Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ di Johann Sebastian Bach - lo stesso brano usato da Tarkovskij nella scena della levitazione di Hari in Solaris -  Nymphomaniac è uno spaccato sull'anti-erotismo dell'ultima anti-eroina del Cinema di Lars von Trier.

 

Lo trovate a noleggio su Chili e Google Play. 

 

Posizione 1

La casa di Jack

2018

 

Due voci fuori campo ci accompagnano nel prologo, ovvero la "catabasi", e nei cinque capitoli definiti anche "incidenti": Jack (Matt Dillon) e Verge (Bruno Ganz).

 

 

Siamo di fronte a una situazione non dissimile nei modi, ma diametralmente opposta nei toni a quella di Nymphomaniac: il protagonista si racconta ed esprime le proprie idee a un uomo più anziano ma, a differenza del precedente Seligman, Verge si dimostra ironico e sincero, per quanto sminuente.

 

Non a caso: il racconto di Jack copre dodici anni di vita criminale negli USA degli anni '70, depravazione e premeditazione, le elucubrazioni di una mente raffinata votata al Male, di cui ne abbraccia in primis l'estetica e il valore artistico.

 

La casa di Jack non è solo la storia di un serial killer, ma l'analisi di un processo artistico: Lars von Trier è al contempo Jack e Verge, l'introverso killer di donne le cui velleità da architetto sono state imprigionate nella carriera ingegneristica e l'anziano Virgilio, sarcastico e giudicante, che contrappone un'idea di aponia al tumulto spirituale del controcampo più giovane.

 

Del tanto agognato progetto artistico di Jack che prevede l'utilizzo di cadaveri - femminili, così come le martiri del grande Cinema di Lars von Trier - non rimane che un ammasso di corpi in una spoglia cella frigorifera: l'epitome della criminalità non è poesia mortifera, ma il delirio di un uomo solo e psicopatico. 

 

Per ribadire l'interscambiabilità tra Jack e Lars il regista inserisce persino spezzoni dei suoi film che si accavallano al delirio amorale del serial killer.

 

Lo trovate su Prime Video e MUBI.

 



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