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Melancholia: a Horse with no Name

Analisi del capolavoro di Lars von Trier

Melancholia, che come redazione abbiamo posizionato al 2° posto tra i migliori film del decennio, è una di quelle opere che non hanno davvero bisogno di presentazioni.

 

 

A volte la sensazione che si ha quando si parla di un prodotto artistico commercialmente inattuale - in questo caso il film è uscito ormai ben nove anni fa - è quella di essere arrivati in ritardo all'appuntamento con quel dialogo, di partecipare a una discussione nella quale tutti gli invitati hanno lasciato il tavolo da un pezzo.

 

E poi basta invece un frame, una frase, un pensiero, una canzone (in questo caso A Horse with no Name, degli America) per scoprire che non è così, e che un capolavoro del genere non invecchierà mai.

 

 

 

"On the first part of the journey, I was looking at all the life: there were plants and birds, and rocks and things, there was sand and hills and rings.

The first thing I met was a fly with a buzz, and the sky with no clouds.

The heat was hot, and the ground was dry, but the air was full of sound."

 

La pellicola si struttura in due segmenti: il primo, chiamato Justine, ci vede spettatori di un ricco matrimonio.

 

Dopo un inizio apparentemente felice, le cose cominciano ad andare per il verso sbagliato: la protagonista (una grande Kirsten Dunst) è sostanzialmente distaccata, incapace di provare empatia con gli invitati, con il nuovo marito, con gli altri personaggi; il convulso svolgersi della scaletta piena di ritualità e di opprimente gioia e di giochi inutili (come quello dei fagioli), unito all'apatia di Justine che a più riprese afferma di sentirsi come incatenata a terra, avvolta da radici, da "fili di lana grigia", e di avere difficoltà a camminare trattenuta da un’inspiegabile sensazione ad unirsi alla festa, e alla vita, conferisce un diffuso senso di soffocamento.

 

Durante la cerimonia facciamo la conoscenza di un’umanità non già disastrata come accadeva in Dogville, ma profondamente inidonea a vere relazioni, che sono come offuscate da una patina di irrealtà, nella loro esagerazione, nella loro convenienza o nella loro meschinità.

 

Justine, ed è utile ricordarlo, è una pubblicitaria dotata di grande talento, scelta non casuale: crea slogan, sa quello che la gente vuole sentirsi dire... è, per così dire, esperta delle persone e di quello che vogliono, dei loro comportamenti, le conosce.

 

Justine conosce la verità.

 

La sorella, Claire, prova a proporsi come un'ancora di salvezza in questa prima fase, cercando di aiutarla in ogni modo, tentando di rappresentare una roccia alla quale appoggiarsi, ma con risultati scadenti.

 

Il matrimonio, così inutilmente movimentato, si conclude in maniera tragica.

 

 

 

 

"After two days, in the desert sun, my skin began to turn red.

After three days, in the desert fun, I was looking at a river bed… and the story it told, of that river that flowed, made me sad to think it was dead."

 

La seconda parte, intitolata Claire, si sofferma sull'altra sorella.

 

Un pianeta, chiamato Melancholia, sta per passare a pochissima distanza dalla Terra e non è chiaro quali saranno gli effetti: alcuni ritengono possa scontrarsi e causare la cessazione della vita; altri, la maggioranza, sono convinti che ciò non accadrà e che si limiterà a stazionare vicino al nostro pianeta.

 

Claire è terrorizzata da quel che può succedere, tanto da comprare dei farmaci per suicidarsi qualora dovesse accadere il peggio, e vive male la situazione nonostante le rassicurazioni del marito.

 

Justine, nel frattempo, trasferitasi a casa della sorella, sembra essere incapace di svolgere qualsiasi attività, in un profondo stato di depressione.

 

Melancholia però non le fa paura, anzi: la fine della vita sarebbe una cosa buona, perché a suo dire “la vita sulla Terra è cattiva”.

 

Più si approssima il momento dell’incrocio col pianeta, più il rapporto tra le due varia: Justine riacquista a poco a poco vitalità e forze, Claire precipita in uno stato sempre più ansioso.

Addirittura Justine arriverà a stendersi nuda alla luce del pianeta, in un totale ricongiungimento con esso, abbracciando il senso della Fine.

 

Justine “sa” che ci sarà il collasso, così come conosceva perfettamente il numero dei fagioli.

 

Justine è vocata invariabilmente alla verità, la conosce, ne è rappresentante, ed è proprio per questo che non può sostenere interesse verso altro: come diceva Francis Scott Fitzgerald, la consapevolezza è uno squallido dono, anche se forse il più prezioso.

 

Prima di lui Fëdor Dostoevskij affermava che “avere troppa consapevolezza è un’autentica malattia” che però chi ha non scambierebbe per null'altro.

È questa la condizione di Justine, che conosce la verità più profonda, l’approssimarsi della fine, da sempre.

 

 



"After nine days, I let the horse run free, ‘cause the desert had turned to sea.

There were plants and birds, and rocks and things, there was sand and hills and rings.

The ocean is a desert, with its life underground, and a perfect disguise above.

Under the cities lies a heart made of ground, but the humans will give no love."

 

Melancholia infine distrugge la Terra, la spazza via.

 

Un’ultima speranza è rappresentata dal “cerchio magico”, una sorta di richiamo spirituale, dove – forse – le due sorelle e il bambino saranno al sicuro, unico e piccolissimo barlume di luce che Lars von Trier vuole comunque lasciare.

 

Le reazioni, come detto, sono diverse: Justine accoglie come una liberazione, in un ultimo ricongiungimento alla natura delle cose, la fine della quale era consapevole e vocata (poiché è vocata alla verità) sin dall'inizio; Claire la vive in modo opposto.

 

Cala il silenzio.

 

La composizione del film, che si era aperta con il preambolo di tutto ciò che sarebbe accaduto e che si sviluppa tra sguardi, silenzi ed immagini fortemente evocative, conferisce un tono molto confidenziale, intimo: come già veniva detto in Dogville, la fine dell’uomo è una cosa positiva, poiché non c’è niente di buono in lui. 

 

 

 

Tuttavia qui la cosa assume una dimensione diversa, maggiormente legata all'imminenza della fine, la grande verità che tutta l'umanità conosce, e alla quale Justine non può non pensare: non può ingannarsi da sola, è trattenuta dalle radici al terreno, alla verità, e si ricongiunge ad essa in più scene, anche durante la parte del matrimonio.

 

Melancholia, in fin dei conti, ci pone davanti al senso delle cose, in una meditazione estetica delicata e maestosa, sull'incedere verso la fine.

 

"You see I've been through the desert on a horse with no name, it felt good to be out of the rain.

In the desert you can remember your name, ‘cause there ain't no one for to give you no pain."

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