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Match Point: Woody Allen e Raskol'nikov

Delitto e Castigo in chiave alleniana 

Quando ci si accinge a scrivere di Match Point occorre innanzitutto ricordare che si tratta di una delle opere più conosciute e apprezzate di Woody Allen, una pellicola che ha avuto una diffusione così massiccia da essere velocemente andata oltre le sale cinematografiche e le frequenti messe in onda televisive per proiettarsi in maniera trasversale nella cultura pop contemporanea, rimanendo fortemente impressa nell’immaginario degli appassionati di Cinema e non. 

 

 

Per questo motivo riflettere “sul film” offre delle possibilità più interessanti rispetto a discutere “del film”, per questo motivo il pur legittimo paragone con i suoi lavori tematicamente simili, che siano precedenti (Crimini e Misfatti) o più recenti (Irrational Man) si rende superfluo.

 

Per questo motivo scriverne diventa un’occasione per analizzare la filosofia che il film sottende, cercare delle risposte, sulle basi di un background comune che non ha forse eguali nella filmografia alleniana.

 

[Di fatto il film lanciò definitivamente la carriera di Scarlett Johansson, che avrebbe poi partecipato ad altri due film di Woody Allen: Scoop e Vicky Cristina Barcelona]

 

 

La trama di Match Point, che è poi la trama di mille racconti, sempre uguale ma sempre affascinante, si fonda sul più antico dilemma morale.

 

La domanda che viene posta, che si pone il protagonista del film, che si pone Woody Allen, che si poneva Raskol'nikov, è semplice: è tutto permesso?

 

Se si rifiuta l’esistenza di un’entità superiore, che controlli, giudichi e determini il futuro in questa vita e nell'altra, ecco, se tutto questo non ci fosse, allora l’unico freno a compiere qualsiasi gesto andrebbe ricercato nella morale, nell'etica di ognuno, arbitro assoluto del proprio destino: in assenza di un Dio, e con la certezza di farla franca, cosa impedirebbe di uccidere qualcuno?

La morale, appunto.

 

Ma se, per dire, l’omicidio in questione riguardasse un malvagio, una vecchia usuraia, una persona spregevole, dannosa per la comunità, che mette in pericolo la vita altrui nell'attuale stato delle cose, e la quale morte in definitiva sembrerebbe migliorare le condizioni di vita non solo dell’assassino, ma anche di tanta brava gente che egli magari non conosce affatto: in quel caso cosa direbbe la morale?

 

Per Raskol'nikov, il protagonista di Delitto e Castigo, non ci sono dubbi: 

“Io, quella vecchia maledetta, l'ammazzerei e la svaligerei, e senza nessuno scrupolo di coscienza, te l'assicuro.

Se l'ammazzassimo e ci prendessimo i suoi soldi, per dedicarci poi con questi mezzi al servizio di tutta l'umanità e della causa comune, non credi che un solo piccolo delitto sarebbe cancellato da migliaia di opere buone?

 

Per una vita, migliaia di vite salvate dallo sfacelo e dalla depravazione.

Una morte sola, e cento vite in cambio: ma questa è aritmetica! E poi, che cosa conta sulla bilancia generale la vita di quella vecchiaccia tisica, stupida e cattiva?

Non più della vita di un pidocchio, di uno scarafaggio; anzi, vale meno, perché quella vecchia è dannosa, distrugge la vita altrui.”

 

 

[Il sonno della ragione genera mostri, avvertiva Goya]

 

 

Ma non è così.

 

Non uccidere è un imperativo morale oggettivo.

Al delitto segue sempre, inevitabilmente, il castigo: che questo sia certificato da indagini e arresti e processi è un discorso essenzialmente secondario, perché è chiaro che la pena più dura è quella da dover affrontare con la propria coscienza, con la nevrosi e la follia e la depravazione e la disperazione.

 

Sembra evidente, però, che in un mondo senza Dio questa appaia come una reazione contraddittoria: se a muovere l'assassino è stata la sua volontà piena e indipendente, come è possibile che quella stessa volontà vacilli e crolli immediatamente dopo il gesto? 

 

Dunque la soppressione della morale non si verifica davvero, e non è altro che un pretesto dialettico: più avanti nel libro, Raskol'nikov ammetterà che ha agito in quel modo soltanto per sé, per dimostrare di essere un “Napoleone” al di sopra di ogni vincolo etico, per appagare la propria vanità assetata di grandeur, e non certo a favore della comunità, o in virtù di improbabili logiche aritmetiche.

La morale non è sopprimibile in alcun modo, con buona pace di ogni fantasioso sofismo.

 

Non si tratta del famoso servire tre padroni, come sosteneva un annoiato Stephen Dedalus nell’Ulisse, facendo riferimento alla Gran Bretagna, la Chiesa e l’Irlanda.

 

Il libero pensiero è imbrigliato da questo genere di reti, certamente, ma nell’ottica dostoevskiana - che è poi quella che permea tutto il film - la morale consente una più agevole liberazione da quelle stesse reti, più che rappresentarne una stretta ulteriore.

 

 

[Pur naturalmente con minori ambizioni rispetto alla maestosità del libro - il quale valore è stato talora paragonato persino a quello di un testo sacro - lo sceneggiato RAI de I Fratelli Karamazov rimane un lavoro davvero ben fatto, e che merita una visione]

 

In Match Point il protagonista vorrebbe essere punito.

 

La punizione implica, in qualche modo, una volontà divina, un disegno, la consapevolezza che infine esiste una legge universale e che il mondo è costruito su criteri di giustizia; la punizione è confortante, perché indirettamente dimostra che la vita ha un senso.

Tuttavia c'è da scontrarsi con un’altra forza: l’innato attaccamento alla vita, il desiderio di non marcire in prigione, di non tormentarsi, di andare avanti, sempre e comunque; la forza dell’infamia dei Karamazov, continuando il giro di citazioni, la forza che permette al nostro protagonista di “ricominciare”, e prima di lui al dottore di Crimini e Misfatti.

 

Perché l’uomo vuole vivere.

“Dove mai ho letto che un condannato a morte, un'ora prima di morire, diceva o pensava che, se gli fosse toccato vivere in qualche luogo altissimo, su uno scoglio, e su uno spiazzo così stretto da poterci posare soltanto i due piedi - avendo intorno a sé dei precipizi, l'oceano, la tenebra eterna, un'eterna solitudine e una eterna tempesta - e rimanersene così, in un metro quadrato di spazio, tutta la vita, un migliaio d'anni, l'eternità - anche allora avrebbe preferito vivere che morir subito?

 

Pur di vivere, vivere, vivere!

Vivere in qualunque modo, ma vivere!

Quale verità! Dio, che verità! È un vigliacco l’uomo!

...ed è un vigliacco chi per questo lo chiama vigliacco.”

 

Anche Baudelaire, del resto, ci dice di preferire il dolore alla morte, e l’inferno al niente.

 

Si potrebbe allora affermare che l’uomo sia alla disperata ricerca di un significato, di uno schema ben definito al quale fare affidamento, di un’indicazione che gli mostri quale via percorrere.

 

Eppure, non sarebbe forse ancora più terribile se questo senso fosse ben noto, e fosse oltremodo deludente?

Se avesse la certezza che la vita ha uno scopo, e conoscesse perfettamente quello scopo, ma lo odiasse?

 

 

[Woody Allen aveva già trattato queste tematiche - secondo il parere di chi scrive, anche in maniera migliore - nel bellissimo Crimini e Misfatti]

 

Ed ecco che arriva allora la duplice riflessione del film: da un lato la voglia di essere punito, di essere condannato, e di riconoscere in questo una giustizia; dall'altro, l’apprendere che forse questa giustizia non esiste, che le fondamenta sulle quali è costruita questa esistenza sono insensibili alla morale, che lo scopo non è accettabile, anzi…

 

Ecco come parlava Ivan Karamazov:

“E quando la madre abbraccerà il carnefice che le ha fatto straziare il figlio dai cani e tutti e tre proclameranno fra le lacrime: "Tu sei giusto, o Signore!", allora sarà certo l'apoteosi di ogni conoscenza e tutto sarà spiegato.

Vedi, Alësa, forse se vivrò fino a quel momento o risorgerò per vederlo, avverrà davvero che guardando la madre che abbraccerà il carnefice della sua creatura anch'io esclami con gli altri: "Tu sei giusto, o Signore!".

Ma io non lo voglio esclamare. 


Saranno poi davvero vendicate?

Ma che importa vendicarle, che importa l'inferno per i carnefici, a che cosa può rimediare l'inferno quando i bambini sono già stati seviziati?

E che armonia vi è mai, se c'è l'inferno?

E se le sofferenze dei bambini saranno servite a completare quella somma di sofferenze che era necessaria a riscattare la verità, io dichiaro subito che tutta la verità non vale un simile prezzo.

Non voglio, infine, che la madre abbracci il carnefice che ha fatto dilaniare suo figlio dai cani!”

 

Non è un caso che allora in Match Point sia la fortuna ad avere un ruolo principale, come viene detto più volte.

 

Fortuna, caso, sono tutti nomi per indicare qualcosa che certamente non è divino.

È infatti questa la terza possibilità, oltre alle due espresse in precedenza: che non esista nulla, che l’unico freno sia rappresentato dalla morale, e che il mondo sia guidato dal caos, dalle circostanze, dalla casualità, senza alcuno scopo.

La punizione esterna dipende da dove cade la pallina, e allora se si è “fortunati” si continua a vivere, si deve ricominciare.

 

Ma si può davvero considerare fortuna? Ovviamente no. 

Si tratta, invero, di un epilogo di massima infelicità. 

 

Laddove infatti la tradizione classica vuole la redenzione, la confessione, i lavori forzati, la possibilità di una nuova coscienza rinnovata nella fede, oppure la flebile e bellissima speranza nella resurrezione sussurrata a mezza voce da Kolja, qui per Woody Allen non c’è altro che rassegnato nichilismo, che lascia il protagonista eternamente condannato al tormento, sconfitto in "balenanti intervalli di luce e tenebra", per dirla con T. S. Eliot, in quella che può essere considerata a tutti gli effetti una spaventosa Odissea dell’intelletto e dello spirito.

 

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