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La Casa di Jack - Recensione: il serial killer antologico

Arriva finalmente in sala La Casa di Jack, horror psicologico di Lars von Trier che ha segnato il suo ritorno a Cannes, non senza far discutere o seminare il panico in sala

Arriva finalmente in sala La Casa di Jack, horror psicologico di Lars von Trier che ha segnato il suo ritorno a Cannes, non senza far discutere o seminare il panico in sala.

 

Siamo a Cannes 71.

Luci a palla.

 

La serata è profumata, il cielo sopra il Palais des Festivals è di quell’azzurro che prende a macchiarsi del blu della notte e noi, pinguinati da un tuxedo (moon), siamo tutto fuorché Half-Mute ma decisamente Scream With a View, considerata la location, e la sigla di avvertenze che capeggia sul biglietto d’ingresso alla première de La Casa di Jack ci mette in guardia riguardo il contenuto esplicito e particolarmente grafico della pellicola che stiamo per vedere. 

 

La casa di Jack La casa di Jack La casa di Jack La casa di Jack

 

La cosa ci mette ancora più di buon umore e le aspettative montano, bilanciando quella tensione e delicato albume percepibile prima di ogni proiezione, soprattutto quando in sala sta per andare in scena il grido d’indipendenza di un autore che con i suoi film è da sempre poco gentile verso la sensibilità di tutti.

 

Quella leggerezza, quella voglia di sala, arte, espressionismo immersivo, carica energetica e cinetica tipica di quel meraviglioso evento che è il Cinema, come la Musica, è oltre il palpabile quando Lars von Trier, seguito da Matt Dillon, fa il suo ingresso in sala.  

 

 

La casa di Jack La casa di Jack

 

Il regista era stato definito come “Persona Non Grata”, nel corso della 64ª edizione del Festival, quando veniva presentato l’acclamato Melancholia, per via di una dichiarazione decisamente infelice e maldestramente esposta, rilasciata dal regista durante una conferenza stampa.

 

Il Festival di Cannes avrà anche molti difetti e, nel corso della sua storia, di scaramucce artistiche e ideologiche con registi e personalità del mondo del Cinema ne ha avute a bizzeffe, ma non si può certo dire che non sappia scindere arte e personaggio, opera e autore, favorendo mescolanze e mettendo in scena riavvicinamenti, a volte, tanto spettacolari e isterici quanto gli screzi che li hanno resi necessari.

 

Giusto l’anno precedente c’era stato il ritorno di David Lynch, che tra i confini di Cannes aveva udito prima gli applausi per il suo Cuore Selvaggio, poi i fischi scroscianti per il controverso Fuoco cammina con me e una certa indifferenza per il suo Una Storia Vera.

 

Le luci in sala calano e lo spettacolo, proiettato sul meraviglioso schermo della sala del Palais, rimescola le forze universali, caricando l’aria di una potenza nucleare, positronica, violenta e sublime, fino a concretizzare il tetro avvertimento, quasi un presagio di sventura, stampato sul biglietto d’ingresso, rigettando oltre un centinaio di spettatori durante la visione.

 

Piccolo spoiler, forse non necessario: la proiezione terminerà tra applausi scroscianti. 

 

Parlare del regista danese è sempre complesso ed è comprensibile come molti, dovendo affrontare il personaggio come le sue opere, si sentano quasi a disagio, sconfortati dal contrasto emotivo senza soluzione di continuità, generando una morale bipolare, dando vita a opinioni imperfette, rotte, irrimediabilmente schizzate, alla ricerca di un posto dove andare e di una linea di demarcazione da attraversare al fine di prendere una posizione solida.  

 

 

La casa di Jack La casa di Jack

 

La Casa di Jack, indubbiamente, è la massima espressione di questa sensazione viscerale, mettendo lo spettatore occasionale in una posizione indescrivibile nell’universo, rannicchiando il cinema-enthusiast in posizione fetale all’angolo della sala e lasciando impazzire addetti ai lavori e critici alla stregua di un qualunque Sam Neill de Il Seme della Follia di John Carpenter

 

Lars von Trier, in questo film, mette al centro della narrazione un serial killer, descrivendone la deriva mentale, a partire dalla sua concezione, esplorandone evoluzione e caduta.

 

La Casa di Jack, attraverso una sorta di narrazione in prima persona, prende lo spettatore per mano, fredda e ruvida come la corteccia di un albero, e lo guida nei reconditi della mente di un serial killer, facendo dei suoi pensieri, le sue elucubrazioni, le sue allucinazioni e i suoi deliri fonte costante di invenzioni visive e di messa in scena, tramutando un mostro e un sociopatico in un personaggio che per il pubblico è fonte di divertimento e di disgusto.

 

Il serial killer come forma di divismo, soluzione ultima e disumana della ricerca di quella fama, egocentrismo supremo e malato dell’umano peggiore, il cui mantra sincopato e ipnotico è Fame di David Bowie, rimbombando l'idea che Jack voglia soltanto essere qualcosa oltre se stesso e l'uomo, esternando l'esplosione di un io completamente assente e che deflagra in un alterego più grande di ogni cosa possa gestire.

 

“Fame, (fame) what you like is in the limo

Fame, (fame) what you get is no tomorrow

Fame, (fame) what you need you have to borrow 

Fame Fame, (fame) it's mine, it's mine, it's just his line 

To bind your time, it drives you to crime (fame)”

 

Eppure Jack non viene mai mitizzato in modo eroico e von Trier non cerca mai soluzioni che vogliano, come capita nei film peggiori, umanizzare un personaggio che di umano non ha più nulla ed è solo astrazione del Male in quanto perdita di ogni empatia.  

 

 

La casa di Jack La casa di Jack

 

Jack è ossessivo compulsivo fino allo stremo, fino quasi all’annientamento, mettendosi in pericolo, dei suoi istinti e della ricerca filosofica della sua ragione e senso, attraverso l’omicidio.

 

Un’ossessione che diventa comica, goffa, grottesca e grimm in una messa in scena ineccepibile, dove il piacere della forma ci permette di digerire la sostanza di un protagonista che è incarnazione delle nostre paure peggiori, delle derive spaventose che il serial killer, in quanto predatore della società moderna, è stato in particolar modo in un certo periodo storico.  

 

La Casa di Jack, che si muove tra gli anni '70 e gli '80, ha la potenza di un autore che costruisce un horror psicologico racchiudendo, in un unico uomo, tutte le malattie e gli oscuri segreti dei peggiori serial killer della storia.

 

In Jack c’è un po’ del Killer dello Zodiaco, del Mostro di Firenze, di Ted Bundy (aka Il Killer delle Studentesse), della Manson Family, con un percorso di crescita caratterizzato infine dal suo essere se stesso, un folle alla ricerca dell’ispirazione perfetta necessaria a progettare quella casa che tanto desidera costruire per se stesso, un tempio a celebrazione del raggiungimento del nirvana.

 

Un film fastidioso nell’accendere la pelle d’oca dell’istinto, delle strizzate di budella, della consapevolezza logica che quanto vediamo a schermo, per quanto estremizzato, è effettivamente frutto di qualcosa che potrebbe succedere ed è successo e non è la parabolica e divertente messa in scena di concetti soprannaturali, conditi da archetipi e cliché orrorifici.

Quello raccontata da von Trier, in un qual senso, è un disturbante sunto romanzato di cronaca.  

 

Il regista disegna l’evoluzione di questo assassino con mano ferma, utilizzando le immagini con una messa in scena graffiata, pop e provocatoria come la musica dei migliori artisti cresciuti in quella decade, pungolando lo spettatore senza nessuna remora, mostrando anche esplosioni di violenza - una in particolare è quella che ha portato molta gente a lasciare la sala di Cannes - oltremodo crude, forti, quasi borderline nella loro assoluta insensibilità.  

 

Il coesistere di una regia capace di spaziare dal dinamismo cinetico pop, passando per l’isteria dell’horror e finendo con un espressionismo e una pulizia di messa in scena altamente artistica, è dimostrazione della cifra stilistica di un autore che sa essere potente quando vuole comunicare qualcosa al pubblico e che trova il suo limite, forse, nel farlo con estrema violenza - non solo orrorifica ma in ogni sua ricerca - toccando estremismi da un lato all’altro, e creando comunque uno strambo bilanciamento.  

 

 

La casa di Jack La casa di Jack


La Casa di Jack diventa quindi immediatamente uno degli horror e degli studi dell’essere umano più interessanti e d’intrattenimento di sempre, capace di fondere la forma del Cinema alla rozzaggine delle immagini che, via via che seguono l’evoluzione di Jack, diventano sempre più sporche, meno ossessive-compulsive, più spudorate, arroganti, quasi sfacciate, culminando in una dichiarazione d’intenti autocitazionista per scelta e non per necessità.  

 

Negli scambi filosofici tra Jack e Verge, il compianto Bruno Ganz, troviamo la ricerca di un pensiero logico, la morale, il doppio filo che lega Jack alle sue azioni, alla desolante sensazione che lo ha portato a contatto con cose che l’uomo non dovrebbe mai toccare e che lo guidano solamente verso il vuoto e alle estreme conseguenze, al duplice messaggio per il pubblico.

 

Se da un lato capiamo quanto lo sconcertante protagonista sia destinato a incontrare un qualcosa di comune a chiunque nella Storia abbia intrapreso un certo cammino, dall’altro c’è un filo nascosto, ma non troppo, di un regista che si riprende l’attenzione staccando per un attimo dalla finzione, ricordando che stiamo guardando un film, l'opera di una firma autoriale che si sente di potere e dovere esprimere quello che pensa, compreso quello che l’uomo non vorrebbe guardare.    

 

Jack come Lars von Trier, in un certo senso: uomo che si discosta da se stesso, dalle proprie provocazioni e dal proprio lavoro, e che ciononostante sembra trovare gusto nel mostrare quello che spinge fuori dalla sala chi non gradisce, nel destabilizzare utilizzando una forma d’arte tecnicamente ineccepibile e, in un certo senso, ipnotica nella sua formale bellezza.

 

Noi, in quanto pubblico che ha scelto di far rimanere, nutriamo una morbosa curiosità nell’assistere al gioco di questo creatore che è Lars von Trier, eppure, riaccese le luci, reprimiamo quel sentimento, ritorniamo ai sensi della ragione e del pensiero illuminato e rinneghiamo tutto e niente.

 

Il regista danese sembra voler mettere in scena un parallelo tra sé e il cinema, della figura - che non è l’uomo - e dell’artista - che non è la sua arte ma solo mezzo.

 

In un certo senso questo film è figlio dello screzio di Cannes 64, del suo costante conflitto con chi guarda lo schermo, summa di tutto quello che ha detto e vuole continuare a dire.  

 

 

La casa di Jack La casa di Jack


La Casa di Jack è un film dall’impatto fortissimo, forse non un capolavoro, ma sicuramente una delle migliori pellicole dedicate a un serial killer, fittizio e non, dove finzione e surreale si incrociano senza stuccare troppo lo spettatore.

 

Un film dove la crudezza delle immagini prevale, mettendo chi guarda al centro di uno spettro di sensazioni che va dalla risata al gelo, dal terrore alla desolazione di un mondo dove un uomo così malvagio, puramente tenebra e privo di qualsiasi forma di umana empatia, può muoversi, praticamente indisturbato.

 

E coltivare gli istinti più biechi e crudeli, senza rimorso o consapevolezza di dove si possa estendere la sua certezza di assenza di controllo.  

 

Una pellicola che porta l’horror psicologico e il racconto del serial killer a un livello completamente diverso, capace di fondere intrattenimento, ricerca di messa in scena e di genere e che fa della violenza esplicita una forma di espressione verso un concetto, non solo il bieco e malsano gusto di vedere sullo schermo un po’ di violenza gratuita.


Il regista ha idee di narrazione surreali, con siparietti dove Jack è estensione del suo pensiero bipolare e disturbato, stacco violento tra un concetto alla deriva e un quadro ironico, calcando la mano sulla messa in scena di flussi di coscienza al soldo della follia a briglia sciolta e la potenza, senza speranza, di immagini disturbanti e quasi inconcepibili per i contrasti che creano nel petto e nel sangue raggelato.  

 

Un film con un cast che risponde benissimo a quanto viene richiesto dalla sceneggiatura e che vive principalmente di un Matt Dillon glaciale, capace di passare dalla debolezza di un uomo quadrato - e afflitto dalla sua mediocre presenza - alla rozzezza di un personaggio pienamente consapevole dei suoi mezzi e delle sue macchinazioni, disgustato da qualsivoglia forma di emozione che non sia la coscienza di vivere in un mondo anarchico governato da due forze, entrambe divine, ma caricate da due poli opposti.  

 

Lars von Trier ha girato un film che, anche senza aver visto quelli che sono i tagli apportati dalla distribuzione italiana, ha senso solo ed esclusivamente se visto così come è stato pensato e girato e, per questa ragione, l’invito è quello di cercare una sala che lo proietti in versione integrale.  

 

La Casa di Jack gode di un Matt Dillon in forma stupenda, di una regia interessante e ispirata e di una sceneggiatura intelligente che, molto probabilmente, vi perseguiterà per molto tempo, scavando nelle figure più oscure e disturbanti che abbiano mai calcato questo mondo.

 

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7 commenti

Claudio Serena

5 anni fa

Il problema è che non digerisco lui. 😄
E' un artista che vive molto sulle sensazioni che crea e che mette in opera. Purtroppo (per me) il suo punto di vista sulle cose non mi piace (per usare un eufemismo). E i suoi film sono pregni del regista stesso.
Ma capisco il fascino che può esercitare, anche perché a livello tecnico di filmaker ha davvero talento

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Claudio, il fatto che tu non digerisca quanto Lars von Trier mette in scena, non ti rende un deprecabile od un alternativo.
Ogni forma d'arte vive anche di contrasti su cosa e come questa si possa esprimere e ognuno di noi ha la libertá di fruire di chi, a pelle, riesce a catturare una similare visione delle cose.
Cerchiamo tutti, per natura, qualcuno che comunichi sulle nostre stesse frequenze armoniche, per sentirci meno soli - se questa é la parola corretta.
Von Trier, come premesso in sede di recensione, é uno che spesso si fa fatica ad affrontare, anche da recensore, perché ha l'incredibile dono di creare una rottura.
Molti, come te, vedono nelle sue visioni una malattia celata dall'artista, una voglia di provocazione dispettosa a nutrire un certo ego.
Un po' come Jack e non per niente credo che i due, volutamente, si sovrascrivano, in questo film, seppur ad un livello puramente figurativo.
Io non sono un estimatore totale del regista, eppure ho gradito questo film ma ho un cattivo ricordo di altri e non sono del tutto sicuro di aver apprezzato l'ingerenza che Lars von Trier ha, ad un certo punto, in questa storia.
Contrasti.
Va bene che ci siano.

PS: scusa gli accenti ma sto scrivendo da una tastiera dal layout assiro babilonese.

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Andrea, commento enorme, bellissimo.
Concordo.
E' un film che, anche quando lo abbiamo visto in sala, e come accenno in recensione, ad un certo punto si sovrappone al reale e Jack diventa Lars e Lars diventa Jack.
Concordo poco sul fatto che per vedere il film sia necessaria una certa cultura, nel senso che credo sia uno di quei film in cui l'artista riesce a mediare con se stesso e riesce a fare un film per tutti, dove le letture, che vengono attraverso la cultura, possono essere recuperate successivamente con altre visioni od immediatamente da chi lo guarda con tutti gli strumenti necessari, nel proprio bagaglio.
E poi, ti diró, divento bipolare e ti do ragione, perché molto pubblico americano, piú sprovveduto dal punto di vista della cultura di base, storcerá il naso.
Senza andare troppo lontano, lo ha sempre fatto anche con Allen o quando si scontra con un cinema che non si chiude in certe semplicistiche soluzioni - ricordiamoci che l'America é quel posto dove un giornalista scrive una critica su una grossa testata per dire che Si Alza il Vento di Miyazaki, é un film fascista ... fa ridere, ma succede.

PS: scusa gli accenti ma sto scrivendo da una tastiera dal layout assiro babilonese.

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Claudio Serena

5 anni fa

E' un'artista? Sì, sicuramente
A un'artista può essere concesso di fare tutto? Sì, ma non deve piacere per forza solo perché espressione artistica.
A me non piace la sua "visione artistica".
Il bello dell'arte è ciò che ci trasmette, per cui la parte viscerale e personale delle opere.
Le sue non mi piacciono

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Secondo me  LVT usa i suoi film come catarsi personale, utilizza la pellicola come un flusso di coscienza o incoscienza per cercare di guardarsi allo specchio, razionalizzare le sue pulsioni e fare i conti con la propria natura. Con questo processo produce cinema, il che lo rende un artista.

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Noemi Romano

5 anni fa

Però sabato lo proietta con le censure...non si fa.

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Alessio Bruno

5 anni fa

Menomale che abbiamo il King che non cede a questi tagli insulsi-

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