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8 trilogie cinematografiche da riscoprire

Trilogia cinematografica: radici, tipologie e 8 consigli su quali riscoprire!    

La storia dell'opera narrativa suddivisa in 3 parti, la trilogia (in greco: τριλογία), ha radici profonde e radicate nella Grecia Antica dei tragediografi del 500 a.C.

 

Fu infatti l'ateniese Frinico a dare il via alla stagione dei primi "sequel" con La presa di Mileto, tragedia storica suddivisa in due parti.

 

Eschilo, colui che viene formalmente considerato il padre della tragedia greca nella sua forma matura e completa, è stato il drammaturgo che adottò stabilmente il sistema della "trilogia legata", che attraverso tre opere tragiche raccontava un'unica lunga vicenda (è il caso, ad esempio, dell'Orestea, che comprende Agamennone, Coefore e Eumenidi).

 

 

 [L'amore e il rapporto di coppia (ma non solo!) secondo Richard Linklater: la trilogia dei Before]

 

 

Di qui in avanti, la Storia della Letteratura, della Musica, del Teatro e del Cinema si sono popolate di produzioni in grado di intrattenere il fruitore attraverso un percorso che si muove e si conclude nell'arco di tre tappe.

 

Tre: un numero che ritorna, non casuale, perfettamente bilanciato e utile a evitare il rischio di sbrodolamenti contenutistici, in accordo con uno dei sistemi di racconto più utilizzati, la struttura narrativa in tre atti (Atto 1/Setup; Atto 2/Confronto; Atto 3/Risoluzione).

 

Osservando la produzione letteraria mondiale è piuttosto facile indicare un grande numero di trilogie, a partire da quella del nostro Dante Alighieri, la Divina Commedia suddivisa nelle sue tre cantiche; restando in Italia si potrebbe citare anche Italo Calvino con I nostri antenati (trilogia comprensiva di Il visconte dimezzatoIl barone rampante e Il cavaliere inesistente); ci sono poi le geniali riproposizioni in chiave fantasy de la chanson de geste in epoca moderna, come nel caso de Il Signore degli Anelli del geniale J.R.R. Tolkien, trilogia ritornata in auge anche grazie all'eccezionale adattamento cinematografico di Peter Jackson.

 

 

[In principio era una trilogia, poi... sappiamo com'è andata a finire]

 

Si potrebbero citare i lavori di Cormac McCarthy (Trilogia della frontiera), Stieg Larsson (Trilogia Millennium) - e molti altri - in merito alla narrativa letteraria, di Giuseppe Verdi (Trilogia popolare) per la musica, Luigi Pirandello e Carlo Goldoni per quanto concerne il mondo del Teatro.

 

Scandagliando la Storia del Cinema fin dai suoi esordi si può individuare una buona casistica di trilogie proiettate sul telo bianco già dal 1914 con tre film dedicati al Mago di Oz (The patchwork Girl of Oz; The Magic Cloak; His Majesty, the Scarecrow of Oz); oppure col Maestro Fritz Lang che, nel 1922, con Il dottor Mabuse (Dr. Mabuse, der Spieler) rimpolpò il movimento espressionista tedesco costruendo un trittico che si concluse quasi quarant'anni dopo, nel 1960, con Il diabolico dottor Mabuse (Die 1000 Augen des Dr. Mabuse), successivo al mediano Il testamento del dottor Mabuse (Das Testament des Dr. Mabuse) del 1933.

 

Le trilogie cinematografiche si possono dividere ideologicamente in due tipologie: quelle "narrative", costruite su un continuum narrativo, dove la storia si dipana attraverso i suoi tre capitoli, e le "trilogie tematiche", dove gli episodi rappresentati sono slegati fra loro, i personaggi e le vicende non hanno continuità nelle opere proposte.

 

Nella prima tipologia possiamo annoverare il capolavoro di Francis Ford Coppola, Il Padrino, il campione d'incassi delle nostre infanzie Ritorno al Futuro o il rivoluzionario Sam Raimi con il suo squinternato Ash, protagonista della trilogia de La Casa.

 

Nella seconda casistica si tratta invece di produzioni collegate da un ideologico fil rouge tematico.

È il caso della Trilogia della nevrosi di Elio Petri, comprensiva di tre capisaldi come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), La classe operaia va in paradiso (1971) e La proprietà non è più un furto (1973).

 

Un trittico utile a indagare - per l'appunto - attorno a tre grandi nevrosi del popolo italiano degli anni '70: potere, lavoro e denaro.

 

 

[Epica western, Ennio Morricone, Clint Eastwood e... Sergio Leone! La trilogia del dollaro, signore e signori]

 

 

Rimanendo nell'epoca d'oro del Cinema Italiano ci potremmo spostare sul "genere", con la Trilogia delle Madri (Suspiria; Inferno; La terza Madre) di Dario Argento, maestro dell'horror che - in quattro decenni - gelò il pubblico raccontando della triade antica e oscura di streghe: Mater Suspiriorum, Mater Tenebrarum e Mater Lacrimarum

 

Mettendo da parte il caso del Maestro dell'orrore, si tratta spesso di trilogie "alte", che non di rado si trovano a indagare, ragionare e rappresentare tematiche legate all'esistenzialismo e al destino dell'uomo sul pianeta Terra.

Basti pensare alla Trilogia Qatsi di Godfrey Reggio (Koyaanisqatsi, Powaqqatsi, Naqoyqatsi) o alla Trilogia sulla Morte di Alejandro González Iñárritu (Amores perros, 21 grammi, Babel), la Trilogia dell'incomunicabilità di Michelangelo Antonioni (L'avventura, La notte, L'eclisse), la Trilogia del Silenzio di Dio di Ingmar Bergman (la vedrete nella selezione), la Trilogia del Cuore d'oro di Lars von Trier (Le onde del destino, Idioti, Dancer in the dark) e tante altre ancora.

 

C'è poi chi della Trilogia ha fatto un vero e proprio marchio di fabbrica. 

 

È il caso di Sergio Leone che, a parte la sua opera d'esordio (Il colosso di Rodi), articolò la sua intera filmografia a colpi di tris, scrivendo e dirigendo la Trilogia del Dollaro (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più; Il buono, il brutto, il cattivo) e la Trilogia del Tempo (C'era una volta il West, Giù la testa, C'era una volta in America).

 

 

[Nicolas Winding Refn ha cominciato la sua carriera cinematografica con Pusher - L'inizio (1996), completando poi la trilogia con Pusher - Sangue sulle mie mani (2005) e Pusher - L'Angelo della morte (2006). Trittico da non perdere per nulla al mondo. Lo trovate su Prime Video: correte!]

 

Che dire poi delle "triplette" che si trasformano in seguito in tetralogie, come nel caso di Matrix delle sorelle Wachowski?

 

Come?! Trilogie espanse a pentalogie?

Qualcuno ha detto "Indiana Jones"?

 

Krzysztof Kieślowski, Richard Linklater, Abel Ferrara, Nicolas Winding Refn, John Carpenter, Takeshi Kitano, Pier Paolo Pasolini, Edgar Wright, Roman Polanski, Park Chan-wook, Robert Rodriguez, Lucio Fulci, Christopher Nolan, Quentin Tarantino...

 

Questi sono solo alcuni dei nomi di registi che, nel corso del tempo, hanno costruito le proprie trilogie cinematografiche.

 

 

[Uomo-natura, tecnologia, guerra, vita e morte. La trilogia Qatsi di Godfrey Reggio]

 

 

La redazione, grazie al risultato del sondaggio tra gli Amici di CineFacts.it, ha selezionato 8 trittici cinematografici - segnalati in ordine cronologico e non di "merito" - da riscoprire assolutamente.

 

Qualche giorno fa abbiamo anche fatto una chiacchierata in live dedicata al tema, cercando di sviscerare l'argomento nel modo più approfondito e completo possibile.

Se volete sentire cosa è stato detto la potete recuperare qui.

 

Quali sono le vostre trilogie preferite? Ditecelo nei commenti e buona lettura! 

 

[Introduzione a cura di Adriano Meis]

[Veste grafica a cura di Drenny DeVito]

 

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Posizione 8

Trilogia della Cavalleria dell'Esercito dell'Unione

di John Ford 

 

A causa del servizio prestato come regista di documentari propagandistici (ripresi anche sul fronte) durante la Seconda Guerra Mondiale e della sua fraterna amicizia con l’attore ultraconservatore John Wayne, spesso si associa John Ford a caratteristiche reazionarie, ma questa sua trilogia – come anche altri esempi del suo Cinema – dimostra il contrario. 

 

Quella che viene definita la Trilogia della Cavalleria potrebbe sembrare un insieme di opere militaristiche ma, in realtà, il trittico di Ford si concentra su tematiche ben più profonde.

Si tratta infatti della summa dei topoi più noti della cinematografia fordiana: il viaggio, le radici culturali, l’amore familiare e la morte. Sullo sfondo, ovviamente, il mito della frontiera.

 

In tutti e tre i casi la trama si svolge al confine dei i territori indiani dove lo scontro è sempre in agguato, ma nel trattare i nemici il regista si allontana da tutte le intolleranze e i nazionalismi dell’epoca.

 

Ne Il massacro di Fort Apache, per esempio, si può notare un profondo respiro pacifista nei confronti dei nativi americani e un rispetto della loro cultura e della loro visione del mondo.

Ma non solo, perché da una prospettiva narrativa la pellicola segna anche una controtendenza significativa: Ford sceglie di esaltare i protagonisti della vicenda attraverso la rappresentazione non di una vittoria, bensì di una sconfitta ispirata alla battaglia del Little Big Horn, una delle più cocenti subite dall’esercito statunitense.

Così facendo, il regista rifiuta le glorie ammorbidite dalle leggende del West per condannare di fatto gli alti gradi militari e le loro empie visioni e onorare i soldati mandati al macello.  

 

I cavalieri del Nord Ovest, invece, acquista un profilo più classico: le scene di battaglia sono scarse e in primo piano viene messa la vita militare tra comicità e romanticismo.

Tra l’altro, viene sviluppato in maniera più approfondita il tema della morte caro a Ford, con un punto di vista malinconico ma non necessariamente negativo.

Ne emerge quindi una visione più umana dove, per assurdo, si “indebolisce” l’immagine della Cavalleria in generale per esaltare i sentimenti e le esistenze degli uomini e le famiglie che ne fanno parte.  

 

Rio Bravo segue il cammino segnato dalla pellicola precedente e, se possibile, lo sviluppa ulteriormente.

Le scene di combattimento sono sempre meno frequenti a favore dell'innesto di una componente musicale maggiore rispetto agli altri due film. Inoltre, l’elemento di scontro con gli indiani, in questo caso, funge solo da sfondo a una trama che si concentra su tematiche sentimentali, affettive e familiari, dove forse perfino la grandezza della Cavalleria può fare solo da contorno.

Se si vuole, quindi, una narrazione ancora più positiva soprattutto se la si paragona a quella della prima opera. 

 

In conclusione, la Trilogia della Cavalleria dimostra quanto il Cinema di Ford non vada confuso con l’etichetta che spesso gli viene erroneamente assegnata: l’etica militare della milizia americana in questo caso non è che un contesto in cui i valori e i sentimenti umani sono i veri eroi da celebrare.

 

Il massacro di Fort Apache, 1948

Disponibile su Prime Video, RaiPlay, Chili

I cavalieri del Nord Ovest, 1949

Disponibile su RaiPlay, Chili

Rio Bravo, 1950

Disponibile su Apple iTunes, Google Play, Prime Video

 

[a cura di Jacopo Troise]

 

Posizione 7

The Apu Trilogy     

di Satyajit Ray  

 

Quando un giovane Satyajit Ray decise di portare su schermo le parole dello scrittore Bibhutibhushan Bandyopadhyay, sicuramente non poteva immaginare il grandissimo successo di cui godette e gode tutt’ora quest’incredibile trilogia.

 

Il film che apre la storia della vita di Apu, Pather Panchali (o Il Lamento Sul sentiero), deve la sua particolarità, oltre all’effettiva bellezza, alla voluminosità di “prime volte”: la prima volta di Ray alla regia, quella di Subrata Mitra come direttore della fotografia, di tantissimi attori alle prime armi… Persino il romanzo omonimo da cui è tratto è il primo lavoro dello scrittore stesso!

 

Ray, senza sceneggiatura e munito solo di appunti e disegni, iniziò a tratteggiare il percorso del piccolo Apu: quest’ultimo viene affiancato principalmente dalle figure familiari nei suoi primi anni di vita, quindi non è, inizialmente, unico protagonista.

 

Questa scelta è dovuta alla necessità del regista di concentrarsi su aspetti per lui fondamentali: quella di Apu è sì una storia di formazione, tipica della letteratura bengalese, ma anche uno specchio della situazione economica disastrosa del Bengala negli anni ’20.

 

La messa in scena non risulta artefatta, anzi, possiede una spontaneità che, in questo caso, è un pregio, accompagnata da immagini tangibili e sincere, evidenziando come egli abbia attinto a piene mani dal Neorealismo italiano.

 

Su questa identica scia è Aparajito (o L’invitto), che prosegue da dove si era concluso il film precedente. Qui Apu, ormai ragazzino, manifesta il desiderio di apprendere e proseguire i suoi studi a scuola, cosa che avverrà attraverso sacrifici sia personali che famigliari.

 

Senza fare spoiler, è bene sottolineare quanto sia interessante e azzardata la gestione del rapporto tra Apu e sua madre, che si discosta quasi completamente dall’opera letteraria originale, sottolineando ancora una volta che l’obiettivo di Ray fosse evidenziare l’interdipendenza anche tra sentimenti positivi in momenti negativi e viceversa.

 

Tutto si conclude con Apur Sansar (o Il mondo di Apu) - forse il lungometraggio con influenze europee ancora più visibili - dove Apu adulto, intenzionato a dedicarsi alla sua vocazione per la scrittura, si ritroverà in un inaspettato vortice di passioni e dolori, affrontando persino l’amore, e arrivando alla fine del suo percorso di crescita.

 

Nonostante ciascuna pellicola presenti le proprie peculiarità, il tema della morte permea impetuosamente la trilogia intera, creando una sorta di filo conduttore che, assieme alla natura ripresa da Subrata Mitra e alle musiche del sitarista Ravi Shankar, immortalano il racconto della vita di Apu come una delle più significative nella Storia del Cinema.

 

Pather Panchali, 1955

Disponibile su Chili

Aparajito, 1956

Disponibile su Chili

Apur Sansar, 1959

Disponibile su Chili

 

[A cura di Eris Celentano]

 

Posizione 6

Trilogia della Condizione Umana 

di Masaki Kobayashi 

 

Masaki Kobayashi decide di adattare in una trilogia fiume - di 579 minuti complessivi - il romanzo Ningen no jōken di Junpei Gomikawa.

 

Si tratta di una trilogia narrativa che segue le vicende di un giovane ingegnere 28enne di nome Kaji durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il protagonista della storia è interpretato splendidamente da Tatsuya Nakadai, attore feticcio del regista giapponese (come dimenticare la loro collaborazione in Harakiri?).

L'uomo, un pacifista con idee socialiste, viene inviato con la moglie a supervisionare i lavori di estrazione in una miniera nell'inospitale Manciuria, all'epoca colonia giapponese, ed esonerato in un primo momento dal servizio militare obbligatorio. 

 

La vicenda di Kaji si snoda in tre film: Nessun amore è più grande - l'unico disponibile doppiato in italiano, seppur tagliato di 40 minuti - Il cammino verso l'eternità e La preghiera del soldato

 

In Nessun amore è più grande Kobayashi decide di mostrarci in modo estremamente crudo ed esplicito gli orrori della guerra, nei suoi riverberi più periferici, ma altrettanto spietati; lo sguardo del regista, che poi è lo sguardo di Kaji, con cui sente di condividere ideologia ed esperienze, è un impietoso focus sulla crudeltà nelle miniere, sullo sfruttamento, sul razzismo operato dai giapponesi sui cinesi, dagli uomini sulle donne, dai vincenti sui perdenti.

 

La vita umana vale meno della produzione, dell'avidità, del danaro: è interessante vedere come si possa traslare questa storia nel presente e nelle conseguenze del tardo capitalismo nei Paesi del terzo mondo.

Kobayashi infatti si limita a un approccio documentaristico alla guerra ma parla, come suggerisce evidentemente il titolo della trilogia, di una condizione esistenziale, del seme del male covato in seno all'umanità, a prescindere dalle coordinate spaziali e temporali. 

 

Ne Il cammino verso l'eternità, parte centrale della trilogia, Kaji si troverà a dover entrare nell'esercito e a guardare la guerra dritta negli occhi; il gioco di poteri e manipolazioni, la legge della giungla, della spada e del sangue che regola l'umanità in quelle terre - e in quelle situazioni in cui non vigono le leggi morali - accresceranno ancora di più lo sconforto in questo giovane coraggioso, idealista, onesto, costretto al compromesso che, negli strati più profondi del suo animo, non potrà mai accettare.

 

Per sopravvivere Kaji dovrà infatti versare del sangue e diventare a sua volta oppressore. 

 

Ne La preghiera del soldato, dopo la sconfitta del battaglione di cui era a capo, Kaji verrà imprigionato dalle Armate Rosse e, nonostante le sue ideologie socialiste, non potrà che notare le idiosincrasie che dominano le fila dell'esercito sovietico. 

 

Alla fine della Trilogia de La condizione umana il giovane idealista è diventato un uomo disilluso.

È emblematico come il protagonista rientri perfettamente in quell'età in cui un ragazzo deve fare i conti con la durezza della vita di un adulto.

 

Alla fine il suo unico obiettivo, dopo aver dedicato gli ultimi anni alla difesa dei diritti umani, sarà quello di sopravvivere e abbracciare la moglie amata: sentimento limpido e puro, evidente dalla prima sequenza di Nessun amore è più grande all'ultimo minuto de La preghiera di un soldato, permea l'intera opera, come un fiocco di neve in una valle di sangue. 

 

Nessun amore è più grande, 1959

Disponibile in Home Video

Il cammino verso l'eternità, 1959

Disponibile in Home Video

La preghiera di un soldato, 1961

Disponibile in Home Video

 

[A cura di Lorenza Guerra]

 

Posizione 5

Trilogia del Silenzio di Dio

di Ingmar Bergman 

 

La carriera di Ingmar Bergman è costellata da alcuni temi ricorrenti come il sogno, la vecchiaia, la sessualità, la memoria.

Tra questi topoi tematici quello che probabilmente è rimasto più impresso nella Storia del Cinema è il suo rapporto con Dio e con la fede.

 

Il Maestro nativo di Uppsala per gran parte della sua filmografia si è interrogato sulla credenza religiosa, sull'esistenza di un divino - complice anche un rapporto irrisolto con suo padre, il pastore protestante Erik Bergman - e soprattutto sul senso che le possibili risposte a tali quesiti portano nella vita di ognuno.

 

La trilogia del silenzio di Dio è una delle più alte espressioni di questa ricerca maieutica, portata avanti attraverso il dubbio veicolato allo spettatore ed espresso attraverso i suoi personaggi.

 

Un trittico tematico sulla non risposta e sull'attesa che lo stesso Bergman ha messo in dubbio nel 1990 quando, intervistato da Olivier Assayas e Stig Björkman, ha dichiarato esplicitamente che quella trilogia era solo un'operazione commerciale poichè Come in uno specchio apparteneva al suo stile degli anni' 50, mentre i successivi due erano - a detta sua - di ben altra caratura.

 

Come spesso capita la verità sta nel mezzo, e lo stesso autore, che ha sempre giocato molto con le sue dichiarazioni, aveva intenzione - cosa poi non avvenuta - di aprire Luci d'inverno con un riferimento esplicito all'ultima frase del primo capitolo della non-trilogia ("Papà mi ha parlato!" e "Resterò qui fin quando non mi parlerai").

 

È lui stesso poi a commentare un'edizione del 1964 delle tre sceneggiature così: "Questi tre film trattano di un’operazione di riduzione. Come in uno specchio: certezza conquistata. Luci d’inverno: certezza rivelata. Il silenzio: il silenzio di Dio… l’impronta negativa. Perciò compongono una trilogia".

 

La trilogia, oltre che ragionare sul dubbio relativo a un Dio piccolo borghese vicino alla banalità della vita di una classe sempre più arrovellata sui suoi stessi problemi, in realtà è estremamente legata da un rapporto che Bergman crea in tutti e tre i film tra Dio e Amore.

Questo legame si riflette nelle parole di alcuni dei più celebri momenti di tutti e tre i film.

 

L'Amore è inteso come la comunicazione umana, la capacità di mettersi in contatto, e da qui deriva il parallelo tra il silenzio di Dio e l'incomunicabilità tra quasi tutte le coppie di personaggi messi in scena.

Un'incapacità di comunicare che nel rapporto uomo-Dio è insita nell'invocazione che non può ricevere risposta, ma che diventa paradigma della comunicazione tra esseri umani.

 

Nella Trilogia del silenzio di Dio c'è poi un'evoluzione del linguaggio di Bergman (suggerita anche dal discorso precedente): se Come in uno specchio, come detto, è molto più vicino al Bergman degli anni '50 ("più sentimentale, più romantico"), Luci d'inverno resta comunque più teatrale, più in linea con il kammerspiel di strindberghiana memoria rispetto a Il silenzio in cui spazi, interazioni e linguaggio visivo sono preludio della sperimentazione messa in scena nella tetralogia di Farö.

Come in uno specchio, 1961

Disponibile su MUBI

Luci d'inverno, 1963

Disponibile su RaiPlay, Google Play, Chili, Apple TV

Il silenzio, 1963

Disponibile su MUBI e Chili

 

[A cura di Fabrizio Cassandro]

 

Posizione 4

Trilogia dei Diari

di Márta Mészáros 

 

Un diario è un oggetto peculiare. La sua stessa natura condensa l'intimità delle percezioni di chi decide di tenerlo, la necessità riordinare le idee sugli eventi che hanno portato a scriverlo e l'intrinseca sicurezza che, prima o poi, quel diario verrà letto da qualcun altro.

Gli stessi intenti muovevano la penna e la cinepresa di Márta Mészáros, assoluta pioniera del cinema ungherese, al momento della costruzione di questa trilogia, composta da Diario per i miei figli (Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes), Diario per i miei amori e Diario per mio padre e mia madre.

 

Rivolgere ai propri affetti più cari tre diari, lascito eterno di come la propria vita si sia intersecata con la grande Storia del proprio paese potrebbe, ai più, sembrare un'operazione autoriferita.

Al contrario, la parabola di crescita della giovane Juli, che altro non è che un alter ego della Mészáros, possiede l'eloquenza dell'assoluto.

 

La sua storia, che parte dal suo arrivo presso la casa della sua matrigna Magda, alta funzionaria del partito comunista, e si dipana lungo i tre film fino al termine della rivoluzione ungherese del 1956, tocca tappe fondamentali della vita dell'autrice e della storia dell'Est dell'Europa.

Un flusso ininterrotto di eventi e sentimenti che si sviluppano man mano che Juli, interpretata da Zsuzsa Czinkóczi, cresce davanti ai nostri occhi.

 

Il suo percorso la vede anche toccare uno dei temi più ricorrenti nella filmografia dell'autrice: il lavoro femminile in fabbrica come forma di emancipazione.

Juli è, dunque, operaia e regista, ribelle e coccolata dal regime a cui si oppone, protagonista e simbolo. Esattamente come l'autrice che ha partorito la sua storia.

 

Due sono i grandi amori che sconvolgono la sua vita: quello per il Cinema e quello per Janós, al contempo figura genitoriale, amore irraggiungibile e uomo che ne ha forgiato i sentimenti rivoluzionari. Una figura non a caso interpretata dal compagno di vita dell'autrice, Jan Nowicki, che nei film interpreta anche il ruolo del padre della protagonista. 

 

L'esperienza quasi ventennale da documentarista ha permesso a Márta Mészáros di calibrare gli inserti storici all'interno della rappresentazione drammatica, inserendo filmati d'archivio nel tessuto narrativo, alternando il colore e il bianco e nero, calibrando ogni singolo movimento di macchina.

 

Il macroscopico e il gigantesco, il sociale e il sentimentale si amalgamano alla perfezione nel corpus di un'opera che appare così unitario. La narrazione orizzontale e la potenza tematica si fondono senza soluzione di continuità.

 

Una storia compiuta che, in un secondo momento, troverà un nuovo impulso grazie al prequel La piccola Vilma: l'ultimo Diario, che però si scosta dalla perfetta progressione del trittico originale, fornendo una nuova prospettiva sulle origini della protagonista.

 

Una protagonista che condensa nel suo animo le lotte e i desideri di intere generazioni. 

 

Diario per i miei figli, 1984

Disponibile su MUBI

Diario per i miei amori, 1987

Disponibile su MUBI

Diario per mio padre e mia madre, 1990

Disponibile su MUBI

 

[A cura di Jacopo Gramegna]

 

Posizione 3

Trilogia della Glaciazione

di Michael Haneke 

 

È il 1989: dopo quasi due decenni di attività come regista televisivo e critico cinematografico, alla soglia dei cinquant'anni, Michael Haneke sbarca sul grande schermo col primo capitolo della sua Trilogia della Glaciazione, composta da Il settimo continenteBenny's Video e 71 frammenti di una cronologia del caso.

 

Sbarca armato di consapevolezza - su più livelli, come vedremo - per gettare le fondamenta di una filmografia assai coesa e premiata, guardando a molte delle proprie esperienze pregresse per delineare una poetica iper-riconoscibile già nell'immediato.

Sono tre le macro-aree, ovviamente interrelate, da cui il cineasta tedesco attinge a piene mani: autobiografia, impegno televisivo, impegno critico.

 

Sul primo versante risulta sommamente rilevante il collocamento in un certo orizzonte socioeconomico e valoriale: figlio di artisti, Haneke è difatti di estrazione più o meno borghese, dato imprescindibile in quanto atto a qualificare come autorappresentazione la prospettiva-cardine del trittico.

 

Il fil rouge che lega le tre pellicole è infatti di ordine tematico, non narrativo, e risiede nella presentazione - tanto lucida quanto impietosa - del disfacimento della borghesia austriaca.

 

La materia di per sé non è nuova, anzi, ma è proprio la consapevolezza generata dalla commistione di attività registica e attività critica a definire un rapporto forma-contenuto parecchio degno di nota.

 

Robert Bresson è forse il maggior punto di riferimento sul piano estetico, e pertanto lo scarto creato attraverso una sottile reinterpretazione dei suoi assunti è centrale.

Se l'immensa grandezza del regista francese nasceva difatti da una concezione del filmico e del profilmico intrinsecamente connessa ad un pensiero di matrice giansenista (e pascaliana), parte della grandezza di Haneke scaturisce proprio dalla negazione di un certo tipo di componente religioso-metafisica.

 

Tratti fondamentali del "cinematografo" di Bresson come la matericità della messinscena, il montaggio ellittico, il ruolo del fuori campo, la gestione straniante degli interpreti e l'antidrammaticità della narrazione sono così posti al servizio di un diverso disegno teorico e, di conseguenza, lievemente modificati nella sostanza.

 

Haneke non si accontenta tuttavia di aggiornare tale armamentario e aggiunge, per l'appunto, altri piani di riflessione: partendo da un sostrato filosofico vicino al postmoderno, medita ad esempio sul ruolo dei media (TV in primis) e, in maniera non solo consequenziale, sui concetti di rappresentazione e mediazione artistica.

 

In toto, come avrà capito chi già conosce il regista, Michael Haneke non pianta dunque solo dei semi, ma inaugura la propria carriera cinematografica con una maturità sconcertante, aggettivo, quest'ultimo, che potrebbe forse essere il più adatto per descrivere molti aspetti della filmografia di uno dei più grandi autori viventi.

 

Il settimo continente, 1989

Disponibile in Home Video

Benny's video, 1992

Disponibile in Home Video

71 frammenti di una cronologia del caso, 1994

Disponibile in Home Video

 

[A cura di Mattia Gritti]     

 

Posizione 2

Trilogia sulla Memoria del Cile

di Patricio Guzmán 

 

Essere costretti a fuggire dalla propria terra natale a causa dell’instaurarsi di una dittatura segna profondamente l’esistenza di un individuo.

 

È ciò che è accaduto al regista Patricio Guzmán dopo che, nel 1973, dovette abbandonare il Cile per sottrarsi alle angherie di Augusto Pinochet, terribile despota che governò il territorio sudamericano fino al 1990, mettendo violentemente a tacere ogni voce che provasse a opporsi al suo comando.

Guzmán ha dedicato l’intera sua carriera al suo tanto amato quanto ferito Cile, un territorio zittito per decenni, nascosto da un pesante drappo di silenzi.

 

Quei silenzi a cui abbiamo poi dato il nome di desaparecidos.

 

C’è solo un modo per restituire la dignità a una terra massacrata e a degli esseri umani che sono stati fatti sparire: ricordare.

 

Nella Trilogia sulla Memoria del Cile la memoria è l’elemento che rende umano l’essere vivente e che, anche se addolora, gli dona un senso di equilibrio necessario alla sopravvivenza.

Se non c’è memoria, se questa viene sotterrata, vieni disumanizzato e finisci per essere un corpo errante senza un obiettivo, alla perenne ricerca di niente.

 

La Trilogia documentaristica di Guzmán è un’opera brillante, è un raggio di luce nella buia storia cilena: affrontandola se ne resta inizialmente abbagliati, filtrandola poi con calma si notano tutti i diversi colori che compongono il raggio, i diversi piani di lettura che vanno avanti parallelamente per tutti e tre i film.

 

In Nostalgia della luce ci troviamo nel deserto dell’Atacama: osserviamo i corpi celesti, ci investono domande esistenziali e, in uno dei luoghi più aridi, primitivi del pianeta, proviamo a indagare sull’Esistenza.

Di noi stessi, del mondo.

Dei desaparecidos che sono ormai ossa e polvere nel deserto.

 

Dall’aria desertica pregna di domande, ne La memoria dell’acqua passiamo ai corsi d’acqua che scorrono in Patagonia, luogo in cui incontriamo gli ultimi pochissimi nativi rimasti: un punto fisso tra un passato sporco di sangue e un presente ancora troppo offuscato.

L’acqua scorre insieme ai racconti e collega generazioni distanti nel tempo e nello spazio.

 

Se l’aria rappresenta la ricerca continua delle origini e l’acqua una connessione spazio-temporale tra ieri e oggi, ne La cordigliera dei sogni – il capitolo forse più intimamente sentito dal regista - è la terra delle Ande la protagonista naturale.

La catena montuosa è il simbolo della chiusura che ha dovuto subire il Cile, è un bavaglio che lo ha messo a tacere e che ha separato gli oppressi dal resto del mondo, rendendoli invisibili e privandoli di qualunque sogno.

 

Solo recuperando la memoria si può restituire umanità a delle anime che, solo così, potranno essere salve, forse sole ma libere.

 

Nostalgia della luce, 2010

Disponibile su iWonderfull, Google Play, Apple iTunes, Prime Video

La memoria dell'acqua, 2015

Disponibile su iWonderfull, Google Play, Prime Video

La cordigliera dei sogni, 2019

Disponibile su iWonderfull 

 

[A cura di Morena Falcone]

 

Posizione 1

Trilogia Berserk - L'epoca d'oro

di Toshiyuki Kubooka 

 

Era il lontano 1989 quando Kentarō Miura, mangaka nipponico, consegnò al mondo la storia illustrata di Gatsu (o Guts), un antieroe controverso, costretto a vagare senza sosta per poter ottenere l’unica cosa che - inizialmente - brama veramente: una vendetta feroce, implacabile, sanguinaria.

 

Il nostro “eroe maledetto” si muove in un contesto narrativo tra il fantasy e il medioevale: un pianeta Terra popolato da folletti, eserciti mercenari, complotti di coorte, streghe e mostri. Gatsu è marchiato col segno dell’infamia, condannato e perseguitato da esseri demoniaci che cercano di interrompere il suo cammino verso quello che credeva un amico fraterno ma che, in realtà, si è dimostrato essere una figura a dir poco luciferina.

 

Lo stesso Miura, nella sua opera, dopo l’incipit appena descritto, compì quella che si rivelò una delle scelte più vincenti di Berserk: raccontare la dolorosissima genesi del “guerriero nero” che combatte entità maligne con “un oggetto troppo grande per essere chiamato <spada>”.

 

Racconto delle origini che, nel 2012, venne ripreso dallo Studio 4°C - uno dei migliori studios d’animazione giapponesi - e diviso nei tre film di Berserk - L'epoca d'oro: Capitolo I: L'uovo del re dominatore, Capitolo II: La conquista di Doldrey, Capitolo III: L'avvento.

Girati completamente in CGI con tecnica di motion capture, i film di Berserk a distanza di anni oltre a essere visivamente “ben invecchiati” mostrano una notevole progressione dal punto di vista tecnico/stilistico, fino ad arrivare al brutale, orribile e meraviglioso episodio finale, con quella Eclissi che ancora fa sanguinare i cuori di tutti gli appassionati dell’opera.

 

I temi dell’illusorietà del libero arbitrio, dell’amore mal riposto, dell’inseguimento dei propri sogni (a ogni costo), della fratellanza, della violenza autogenerante e dell’onnipresenza del Male sono i piatti forti di un trittico cinematografico che, in qualsiasi senso, non può lasciare indifferente lo spettatore.

 

I caratteri dei personaggi (e le loro evoluzioni!), le morali di fondo e i messaggi dell’autore sono - come spesso accade nelle produzioni orientali - estremamente marcati, al limite dello stereotipo. Eppure la loro efficacia resta intaccata in virtù di un comparto tecnico splendido e una narrazione funzionale, potente e ben strutturata.

 

Il doloroso percorso di Gatsu e compagni rappresentato nel manga di Berserk e nella Trilogia dell’epoca d’oro è, di fatto, una saga epica che ha travolto emotivamente generazioni intere di fruitori nel corso di trent’anni di onorata presenza sul campo.

Un'opera appassionante, estremamente esplicita dal punto di vista del sesso e della violenza, pienamente in grado di irretire anche gli spettatori a digiuno rispetto il lavoro inchiostrato da Kentarō Miura, (ahinoi) incompiuto per via della prematura scomparsa dell'autore. 

 

Dopo una distribuzione in sala sotto forma di “evento cinematografico” durato solo due giorni, Berserk - L'epoca d'oro è ora completamente assente da ogni piattaforma streaming. 

Tuttavia il mio consiglio - se siete stuzzicati da quanto ho appena descritto - è quello di recuperarlo in Home Video: ne varrà la spesa.

 

Ci metto la firma.

 

Berserk - L'epoca d'oro - Capitolo I: L'uovo del re dominatore, 2012

Disponibile in Home Video

Berserk - L'epoca d'oro - Capitolo II: La conquista di Doldrey, 2012

Disponibile in Home Video

Berserk - L'epoca d'oro - Capitolo III: L'avvento, 2013

Disponibile in Home Video

 

[A cura di Adriano Meis]

 



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1 commento

Morena Falcone

2 anni fa

Grazie a te Ale! 💛

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