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L'architettura distopica: Parte 1 - Metropolis, Blade Runner, Brazil, Akira - Cinerama 07

Come la scenografia costruisce la distopia

Il genere fantascientifico, tra utopia e distopia, è sempre stato una succulenta occasione per stimolare vividi immaginari visivi soprattutto dal punto di vista scenografico, anche se spesso, però, sono poggiati su cliché quasi sempiterni.

 

La branca distopica in particolare ha concesso spesso maggiore libertà d'azione, giustificando talvolta un maggiore scollamento dalla realtà, ma anch'essa inevitabilmente ha prodotto diversi cliché, degli scenari tipo che hanno saputo attraversare decenni e decenni di Storia del Cinema.

 

In questa sede analizzeremo nello specifico il contributo dell'Architettura, più d'esterni che d'interni, in alcune delle pellicole più esemplari del genere.

 

Ci interesseremo dunque della scenografia cinematografica, un reparto forse ancora meno considerato del montaggio.

 

In un discorso di questo tipo è uno il riferimento assoluto, l'eterno termine con cui raffrontarsi, il capolavoro immortale che ha saputo conservare tutta la sua potenza espressiva dopo quasi un secolo:

Metropolis di Fritz Lang.

 

 

[Fritz Lang]

 

Pur essendo uno dei più celebri esempi dell'Espressionismo cinematografico, la pellicola non si è però posta scenograficamente come diretta emanazione dell'Espressionismo architettonico.

 

Possiamo infatti considerare lo stile adottato come una storta di antesignano del cyberpunk, che negli anni del postmoderno ha saputo codificare una propria cifra formale pescando da un gran numero di esperienze eterogenee.

 

Seppur tale passaggio logico possa risultare forzato visto l'anno di uscita del film, il 1927, è facile notare come tra i riferimenti artistici del film coesistano istanze quasi contraddittorie.

 

Innanzitutto sono presenti degli elementi che poi diverranno dei veri e propri archetipi per il genere. 

È il caso, ad esempio, dell'eccessiva enormità delle costruzioni, dell'evidentissima sproporzione tra individuo e città.

 

Si tratta di una rappresentazione simbolica del potere, distopico, attraverso quel monumentalismo, qui però slegato dal Neoclassicismo che sarà largamente impiegato dai maggiori regimi novecenteschi.

 

Pur essendo assenti i caratteri tipici dell'architettura fascista, ciò che colpisce del panorama urbano di Metropolis è la grande accozzaglia di edifici dai tratti ripetitivi, impersonali, sintomo concreto di una società oligarchica e iper-classista.

 

 

[Tra le strade di Metropolis]

 

Ci si presenta davanti agli occhi un vero e proprio sovraccarico visivo e strutturale, almeno nella parte in superficie della megalopoli, contrapposta ai sotterranei dedicati alla classe proletaria.

 

La rigida separazione tra questi due mondi si esprime chiaramente sul piano scenografico, con particolare attenzione per l'interior design.

 

Se nell'appartamento del potente industriale Joh Fredersen, padre del protagonista, salta all'occhio l'iper-decorativismo dell'Art Déco, mai kitsch, nei tunnel ipogei ciò che colpisce è uno stile invece scarno, ripetitivo, geometrico.

 

Così le divise identiche di decine e decine di operai sono associate a un'opprimente successione di elementi architettonici, riproposti a non finire.

 

La ripetitività a livello dei piani alti diventa emblema del conformismo borghese delle classi dominanti, mentre quella del sottosuolo rappresenta, di fatto, il terribile giogo della schiavitù.

 

I locali destinati al lavoro conservano tali caratteristiche, alle quali però si aggiunge una composizione quasi artistica dei vari macchinari, davvero cyberpunk.

 

Questa componente sarà poi ulteriormente esplicitata nell'abitazione dell'inventore Rotwang, specie quando assisteremo al trasferimento dell'aspetto esteriore di Maria, la protagonista, al robot HEL, in un tripudio tesliano di onde elettromagnetiche e di congegni decisamente singolari.

  

 

[I sotterranei della megalopoli]

 

Analizziamo ora però, in modo più specifico, alcuni elementi che meritano una contestualizzazione architettonica ben più approfondita, e ripartiamo dalla Metropolis borghese, quella dei grandi palazzi.

 

Diversi edifici sembrano rispondere alle concezioni teoriche e formali del Movimento Moderno, in un connubio di Razionalismo e Funzionalismo, quasi ricreando il panorama urbano di molte metropoli reali.

 

Alcune soluzioni sembrano però esasperare tali tendenze, quasi anticipando la stagione del Brutalismo, con il suo béton brut pesante e iper-volumetrico.

 

Certe facciate giocano infatti su composizioni volumetriche molto rigide, tra elementi aggettanti e rientranti.

 

Molti sono, comunque, i palazzi costituti da semplici parallelepipedi uniformi, con centinaia di piccole finestre identiche e strettamente simmetriche, in linea con l'anti-decorativismo modernista.

 

 

[L'Unité d'Habitation de Marseille di Le Corbusier, uno dei primi esempi di Brutalismo]

 

 

Ma non finiscono qui le eccezioni, visto che le parti terminali di molti edifici si distanziano dal geometrismo esasperato del Movimento Moderno, influenzato, specie nel caso del Bauhaus di Walter Gropius, dalla poetica in materia del De Stijl olandese.

 

Non sono pochi i palazzi che concludono la loro linea verticale con delle soluzioni particolari, spesso inscritte in volumi piramidali.

 

Sono diverse le ispirazioni che hanno potuto concorrere in una scelta di questo tipo, preferita al classico tetto orizzontale, e il contributo principale è dato dall'Art Déco, che si pone come sintesi creativa di un gran numero di esperienze eterogenee, non necessariamente provenienti dal mondo architettonico.

 

Si riassumono infatti istanze quasi incompatibili, in grado di coprire oltre quattromila anni di Storia, tra ziggurat mesopotamiche e Futurismo.

 

Dalla vetrata dell'abitazione di Joh Fredersen scorgiamo nitidamente due edifici particolari, che nella loro opulenza spaziale richiamano ancora il Brutalismo.

 

La parte conclusiva del primo palazzo si configura come un'ordinata compenetrazione di solidi, evocando molto l'estetica del De Stijl, con un'alternanza di vuoti e spazi pieni.

 

Il secondo edificio, invece, richiama proprio una ziggurat semplificata, composta da tre livelli materialmente pesanti, pieni.

 

 

[Il design Art Déco dell'appartamento di Joh Fredersen]

 

 

Diverso è il discorso che interessa la parte più rilevante della megalopoli, quella più grande, quella che Maria definirà una simil-torre di Babele, costruita dagli operai-schiavi.

 

È lì che risiede la famiglia Fredersen, tanto in alto nella scala gerarchica quanto a livello spaziale.

 

La nuova torre di Babele si ispira direttamente alla Torre dell'Alta Slesia realizzata, a Poznan nel 1911, dall'architetto tedesco Hans Poelzig.

 

Poelzig fu uno degli esponenti della Deutscher Werkbund, vero e proprio punto di contatto tra l'artigianato di Art Déco e Arts and Crafts e la produzione industriale del Bauhaus.

 

L'edificio ha un corpo centrale semi-cilindrico che termina con una cupola, ed esteticamente è caratterizzato dal contrasto cromatico di numerosi inserti geometrici.

 

 

[La parte finale della Torre dell'Alta Slesia di Hans Poelzig]

 

Lo schema essenziale della torre di Metropolis richiama il progetto di Poelzig, ma è arricchito da molti più dettagli e molto diverso nella parte terminale.

 

Il corpo cilindrico, che perde la sua ortogonalità, è solcato da diversi elementi aggettanti, che confluiscono poi in una sezione cilindrica, dal diametro minore, ancor più complessa dal punto di vista volumetrico.

 

Il settore conclusivo presenta, prima di alcuni elementi che aumentano la verticalità della struttura, una sorta di rievocazione dei doccioni gotici.

 

L'architettura gotica è sì contemplata tra le fonti d’ispirazione dell'Art Déco, in virtù del suo frequente ricorso ad angoli acuti e linee spezzate, ma è una delle principali ispirazioni delle teorie espressioniste.

 

Lang, assieme agli scenografi Otto Hunte, Eric Kettelhut e Karl Vollbrecht (che hanno impiegato per la prima volta l'effetto Schüfftan), non costruisce una città modellata sugli stilemi espressionisti, ma concepisce uno stile fortemente sintetico che però non ignora la lezione dell'avanguardia tedesca.

 

L'Espressionismo architettonico riprende infatti il gotico per motivi estetici, visto che le loro opere, specie quelle pittoriche, comunicavano inquietudine anche grazie all'uso di linee oblique e spezzate.

E non è affatto un caso che nella pellicola di Lang compaia, in una delle scene topiche, una cattedrale gotica.

 

 

[La neo-torre di Babele di Metropolis]

 

Un'altra caratteristica dell'Espressionismo, in accordo con le sue concezioni teorico-filosofiche, è l’esasperazione nell'uso plastico dei materiali.

 

Uno degli esempi più celebri è quello della Torre Einstein di Erich Mendelsohn, inaugurata a Potsdam nel 1924.

 

La struttura, che funge da osservatorio astrofisico, espone in modo esemplare la poetica espressionista sull'impiego del materiale ma, in seguito a varie traversie, fu realizzata in muratura intonacata e non in cemento, rimanendo così un esempio più estetico che costruttivo.

 

In Metropolis sono due gli elementi che rimandano a tale utilizzo architettonico della materia.

 

Il primo caso è quello delle sinuose catacombe nelle quali si riuniscono gli operai, il secondo quello delle particolari mura della città, che presentano però una complessa coesistenza di fluidità espressionista e pesantezza brutalista.

 

Simile, ma non identico, è il caso della cupola in vetro che copre i Giardini Eterni.

 

Qui la fonte di riferimento è l'inconfondibile cupola ellissoidale del Glaspavillon di Bruno Taut, realizzato nel 1914, che si pone come mediazione tra i dettami espressionisti e quelli della Deutscher Werkbund.

 

 

[Il Glaspavillon, a sinistra, e la Torre Einstein, a destra]

 

Nel complesso, sulla scia dello stile sintetico della pellicola, sono presenti altri elementi di ispirazione parecchio varia.

 

Rilevanti sono i casi del rudimentalissimo aspetto esteriore della casa dell'inventore Rotwang, che rimanda all'interesse per l'arcaico dell'Art Déco, e di alcune citazioni bibliche, dalla già citata neo-torre di Babele alla HEL in versione Babilonia la Grande.

 

L'ultimo capitolo, non per importanza, riguarda l'influenza del Futurismo sull'immaginario complessivo di Metropolis.

 

L'esaltazione della meccanicità, ad esempio, è evidente nell'episodio della Macchina M.

 

Il gigantesco macchinario altro non è che una composizione artistica di metallo, bulloni e vapore, una di quelle "officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi" decantate nel Manifesto generale del movimento.

 

L'orrorifica trasformazione della Macchina M in Moloch, che accoglie nelle sue fauci il sacrificio degli operai, rientra poi nel solco biblico e pagano della pellicola.

 

 

[La Macchina M prima della trasformazione in Moloch]

 

Ma se tale collegamento può apparire superficiale, ben più radicato è il contributo specificatamente architettonico del Futurismo, in particolare grazie alle opere, per la maggiore rimaste su carta, di Antonio Sant'Elia e di Mario Chiattone (il quale però non aderì formalmente al movimento).

 

Ai progetti dei due, specie a quelli de La città nuova di Sant'Elia, si deve molto della composizione generale della città di Metropolis.

 

La fissità rigida, simil-brutalista, di molti edifici viene infatti sconvolta da diversi ponti sospesi o poggiati su strutture a V, che appaiono incrociati tra loro, ingarbugliati.

 

Sono proprio quelle "linee oblique e quelle ellittiche", che "hanno una potenza emotiva superiore a quelle delle perpendicolari e delle orizzontali", che vengono definite nel Manifesto dell'architettura futurista.

 

Tale dinamicità, resa in pittura da Giacomo Balla e Umberto Boccioni, appare ancora più evidente nei disegni preparatori realizzati dallo scenografo Otto Hunte.

 

In generale, come ripetuto più volte, possiamo considerare Metropolis come un prodotto decisamente singolare, in grado di condensare con successo un gran numero di istanze architettoniche ed estetiche.

 

Come disse Luis Buñuel, dopo tale esempio "il Cinema sarà l'interprete fedele dei più audaci sogni dell'Architettura" e, nel bene o nel male, è esattamente così che è andata.

 

 

[I progetti di Antonio Sant'Elia, a sinistra, e Mario Chiattone, a destra]

 

Già nel 1930, esulando brevemente dal genere distopico, sarà il caso di Just Imagine, uscito in Italia col titolo I prodigi del 2000 (nonostante fosse ambientato nel 1980).

 

Questo musical fantascientifico fu certamente esemplare dal punto di vista scenografico, nonostante il flop al botteghino.

 

Per l'avveniristica New York del futuro venne infatti creato un modello da oltre 200mila dollari, con grattacieli di 7 metri, e gli scenografi Stephen Goosson e Ralph Hammeras si ispirarono, oltre agli stilemi dell'Art Déco, ai lavori dell'architetto statunitense Hugh Ferriss, dai quali deriva anche la skyline di Gotham City.

 

I ponti sospesi tra i grattacieli e le strade costruite su più livelli creano una vera e propria giungla urbana, nella quale svettano i vari grattacieli volumetricamente complessi.

 

Nel suo The Metropolis of Tomorrow, pubblicato nel 1929, Ferriss propone 60 progetti architettonici sperimentando sul rapporto tra dimensione della pianta, massa e altezza degli edifici, specie nella sezione "An Imaginary Metropolis".

 

I risultati sono visivamente impressionanti e contribuiranno, anche se non quanto Metropolis, a formare l'immaginario generale del genere fantascientifico.

 

 

[Alcuni progetti del The Metropolis of Tomorrow di Hugh Ferriss]

 

Immaginario del quale si serviranno due delle più grandi espressioni cinematografiche della fantascienza distopica: Blade Runner di Ridley Scott e Brazil di Terry Gilliam.

I due film contribuiranno, il primo più del secondo, alla creazione della corrente cyberpunk avvenuta proprio nei primi anni '80.

 

Blade Runner, in particolare, pur essendo ambientato nel 2019 si pone nel filone del retrofuturismo.

Significative sono le parole del regista, che parlò dello stile del film come "vecchio di 40 anni", ma "collocato 40 anni nel futuro".

 

È così che si spiega la scena d'apertura, nella quale il panorama losangelino è accompagnato da alcune improvvise vampate di fuoco, uscite da longilinee ciminiere che si confondono coi grattacieli della città.

 

L'universo urbano del film è modellato su una notevole quantità di fonti iconografiche e architettoniche, tra cui ovviamente Metropolis, oltre ai progetti di Sant'Elia, dei quali diventa ora possibile sfruttare anche i contrasti cromatici.

 

Lo skyline post-industriale si ispira poi alla tecnologica Hong Kong e alla città natale di Scott, la grigia South Shields, mentre l'atmosfera generale è mutuata dai lavori del fumettista francese Jean Giraud, alias Moebius, e dal contributo diretto del concept artist Syd Mead.

 

Nel caso di Moebius, il riferimento è alla rivista di fumetti da lui co-fondata nel 1974, Métal Hurlant, che pubblicherà anche Milo Manara e Alejandro Jodorowsky.

 

La sua estetica futuristica molto carica sia dal punto di vista cromatico che immaginativo contribuirà a plasmare quell'invasività visiva tipica della Los Angeles al neon di Ridley Scott.

 

 

[Gli stili futuristici di Moebius, in alto, e Syd Mead, in basso]

 

Il clima scenografico generale di Blade Runner, rispetto a Metropolis, è decisamente più decadente, più cyberpunk.

 

Se nella pellicola di Lang a colpire è talvolta l'eccessivo rigore, ora a farlo sono la pioggia, la nebbia e gli sgargianti colori di insegne e pubblicità digitali, elementi tipici del neo-noir.

 

In alcuni casi, però, si scorgono degli strani echi estetici tra le due opere, come nel caso di un'inquadratura della torre dove Rick Deckard si reca per incontrare il capitano Bryant, quasi identica a una relativa alla neo-torre di Babele di Joh Fredersen.

 

Il perché, in realtà, è presto detto: il supervisore agli effetti speciali del film David Dryer decise di utilizzare alcuni fotogrammi di Metropolis per regolare le riprese delle miniature degli edifici, visto il mancato impiego di effetti speciali digitali.

 

Proprio da quest'ultima osservazione si evince come sia stato fondamentale il lavoro dei cinque scenografi scelti da Scott, tra i quali figurava anche Lawrence Paull.

 

A differenza dell'archetipo langhiano, poi, l'elemento centrale nel tessuto urbano non è una torre, bensì una ziggurat, quella della Tyrell Corporation, o quella legata all'Art Déco.

 

Non è infatti un caso che sia gli interni della sede della compagnia che quelli di casa Deckard siano caratterizzati da un gusto geometrico, ora moderno ora quasi arcaico, ispirato anche alla Ennis House di Frank Lloyd Wright, col suo stile Revival Maya (una sorta di variante dell'Art Déco).

 

Possiamo dunque vedere Blade Runner come un aggiornamento dei cliché originati da Metropolis, in grado comunque di determinarne nuovi, divenendo esso stesso un nuovo termine di raffronto.

 

 

[La ziggurat della Tyrell Corporation]

 

Lo stesso si può dire, almeno a livello teorico data la minore fama della pellicola, del visionario Brazil di Terry Gilliam uscito nel 1985, nel quale però le novità sono molte di più.

 

Come nel caso di Blade Runner si è optato per una distopia retrofuturista, contaminata sia dai grandi riferimenti del genere che dalle atmosfere del noir degli anni '40.

 

Dal punto di vista urbano, le ispirazioni concrete sono dichiarate dallo stesso regista.

Si tratta di "Belgrado o Scunthorpe", la città con la più grande acciaieria d'Inghilterra, "in una piovigginosa giornata di febbraio".

"O Cicero, Illinois, vista attraverso il fondo di una bottiglia di birra".

 

Nel documentario The Birth of Brazil del 1988, Gilliam parlerà poi di una metropoli collocata "sul bordo tra Los Angeles e Belfast, qualunque cosa significhi".

 

I vari stili presenti nella pellicola, talvolta sintetizzati in modo molto originale, creano infatti l'atmosfera perfetta per questo gioiello del genere, una distopia iper-burocratica e kafkiana.

 

L'eco di Metropolis è ancora presente, ma l'architettura d'esterni gioca stavolta un ruolo marginale, vista la quasi totale preminenza di scene al chiuso.

 

 

[Da Los Angeles a Scunthorpe]

 

Due sono i binari architettonici che segnano la pellicola, tra palazzi del potere e abitazioni private.

 

I primi, in linea con l'intento satirico della distopia, sono di un Brutalismo davvero esasperato, e appaiono come un marcato esacerbamento dei classici edifici governativi razionalisti.

 

È così che gli interni del Ministero dell'Informazione, dove lavora il protagonista Sam Lowry, restituiscono un sentimento tanto straniante quanto claustrofobico.

 

Il soffitto è infatti molto basso, mentre le postazioni degli impiegati sono confusionarie e vicinissime l'una all'altra.

 

A dominare cromaticamente è il grigio, freddo e impersonale, del béton brut e degli onnipresenti tubi, dei cavi e degli apparecchi retrofuturisti che danno quel tocco di cyberpunk.

 

Solo l'ufficio del capo di Sam, Mr. Kurtzmann, interpretato dal recentemente scomparso Ian Holm, si pone come punto di contatto tra il binario brutalista e quello kitsch delle abitazioni borghesi.

 

A livello visivo, comunque, le ampie vetrate opache e quadrettate che delimitano la stanza concorrono a creare un ambiente di lavoro decisamente opprimente.

 

 

[Ian Holm, alias Mr. Kurtzmann]

 

Quando Sam sarà promosso al Reparto Recupero Informazioni e cambierà ufficio, il variare del design d'interni diverrà un preciso sintomo del regime iper-burocratico.

 

Lo stile brutalista, se possibile, si rende ancor più scarno e pesante, e si perde anche gran parte della componente cyberpunk.

 

Il lungo corridoio che separa gli uffici è composto da opulenti solidi in cemento, talmente simmetrici e regolari da risultare fastidiosi.

Il grigio, ancora una volta, la fa da padrone anche sui tubi, ora disposti in maniera molto più ordinata.

 

Il nuovo ufficio di Sam è decisamente singolare, costruito tutto in cemento.

In larghezza è decisamente piccolo, mentre il soffitto obliquo taglia lo spazio a disposizione rendendolo poco confortevole.

 

Tali assunti architettonici si ripresentano, come preventivabile, per l'ingresso del palazzo ministeriale e l'atrio.

 

All'esterno il Ministero ha uno stile monumentale, caratterizzato da forme molto nette e non decorate, quasi a richiamare l'architettura dei regimi totalitari novecenteschi.

 

L'atrio, al quale si giunge tramite delle imponenti scalinate di cemento, segue lo stesso stile con un soffitto molto alto e un aspetto asettico, impersonale.

 

Tutti questi tratti, quelli dei palazzi del potere, saranno poi travasati nel sogno ricorrente di Sam, che immagina di volare tra una schiera sterminata di palazzi identici, perfettamente distanziati l'uno dall'altro e provvisti di pareti assolutamente lisce.

 

 

[Gli uffici del Ministero dell'Informazione]

 

Diverso è il discorso in merito alle abitazioni private, di norma di proprietà di personaggi borghesi, come la madre di Sam e la sua cerchia di amici.

 

Al folle ordine brutalista delle strutture governative si sostituisce uno stile decisamente kitsch, visivamente eccessivo, caratterizzato da un'accozzaglia incoerente di arredi e accessori.

 

Anche la casa di Sam, nonostante sia meno di cattivo gusto, presenta alcune di queste caratteristiche, pur conservando un accenno di disposizione geometrica.

 

Alle dozzine di apparecchi tecnologici retrofuturisti si sommano, come sempre, cavi e tubi che, in una fase del film, riempiranno per un malfunzionamento tutta la casa.

 

Presentati i due binari principali, concentriamoci ora su alcune situazioni particolari che meritano un'analisi individuale e che, non casualmente, si succedono nella parte finale della pellicola.

 

 

[Il sogno ricorrente di Sam]

 

Il primo caso riguarda l'incontro amoroso tra Sam e Jill, che credono di aver eluso le ricerche delle forze dell'ordine.

 

I due hanno un rapporto in un appartamento insolitamente arredato con buon gusto, caratterizzato da colori tenui e armoniosi tra il bianco e il pesca.

La camera è spaziosa, con pochi arredi ben distribuiti e un letto ornato da veli bianchi.

 

Le pareti sembrano richiamare il vitalismo dei dipinti fauvisti e concorrono nel creare un'atmosfera quasi favolistica, che sarà però turbata il mattino dopo dall'irruzione degli agenti di polizia.

 

Sam verrà così portato in una strana stanzetta cubica, dalle pareti bianche semitrasparenti, per essere interrogato, venendo poi accompagnato in un altro bizzarro locale.

 

Lì viene legato a una sedia che poggia su una piattaforma sorretta da un fitto scheletro metallico, quasi high-tech, circondata da un enorme cilindro in cemento, altissimo e senza soffitto.

 

L'imponente struttura sembra tanto sproporzionata nelle dimensioni rispetto a un essere umano, quanto sproporzionato è il potere del regime in relazione ai singoli.

 

 

[La sala interrogatori, con un'inquietante scena sullo sfondo]

 

Solo con un ultimo slancio onirico Sam riuscirà a fuggire, arrivando ad assistere dopo alcune peripezie mentali al funerale di un'amica della madre.

 

La funzione ha luogo, scenograficamente, negli Espaces d'Abraxas, un complesso abitativo inaugurato in Francia nel 1983 su progetto dello spagnolo Ricardo Bofill.

 

Si tratta di una sorta di aggiornamento postmoderno della brutalista Unité d'Habitation de Marseille di Le Corbusier.

 

La parte dell'edificio che vediamo è il Théâtre, dalla forma semicircolare: Bofill riprende infatti alcuni elementi dell'architettura dell'Antica Grecia, come colonne e capitelli, e li adatta al suo postmodernismo quasi barocco, che comunque rievoca certi stilemi brutalisti.

 

La struttura è stata scelta vista la sua conformazione straniante, decisamente inusuale, ed è assolutamente in linea con la poetica scenografica di Brazil.

 

Fondendo un gran numero di fonti iconografiche e architettoniche, Gilliam e i suoi scenografi, Norman Garwood, John Beard e Keith Pain, hanno infatti prodotto un condensato stilistico molto eterogeneo, che ascrive compiutamente alle tendenze postmoderne di fine Novecento.

 

Più di Blade Runner, Brazil ha saputo costruire un microcosmo architettonicamente autonomo, molto più legato al sottotesto specifico della propria trama e molto più rilevante dal punto di vista puramente scenografico.

 

 

[Gli Espaces d'Abraxas di Ricardo Bofill]

 

Concludiamo la nostra analisi trattando Akira, film di animazione giapponese uscito nel 1988 e basato sull'omonimo manga di Katsuhiro Ōtomo, anche regista e sceneggiatore della pellicola.

 

L'opera è ambientata nel 2019, lo stesso anno di Blade Runner, nella città di Neo-Tokyo ricostruita dopo una rovinosa Terza Guerra Mondiale.

 

Lo stile complessivo è decisamente cyberpunk e si ispira smaccatamente ai lavori di Moebius, quindi ovviamente anche a Blade Runner, e ad altri film di fantascienza, come Tron e Guerre Stellari.

 

Naturalmente il fatto di essere un film di animazione ha favorito non poco la creazione di uno stile visivo molto espressivo, soprattutto dal punto di vista cromatico, mostrando evidenti affinità con le opere di Giraud.

 

 

[La Neo-Tokyo del manga Akira]

 

La Neo-Tokyo di Akira è una città contraddittoria, fatta tanto di giganteschi palazzi ipermoderni quanto di vicoli sporchi e decadenti.

 

Nel panorama urbano gioca un ruolo fondamentale l'illuminazione dei palazzi, accesissima e dai colori molto vari, alla quale si aggiungono molti fasci di luce proiettati verso il cielo.

 

Cielo che però difficilmente si scorge, visto che alle spalle di un qualsiasi edificio appare sempre un grattacielo più grande, più alto e più largo.

 

Lo stile architettonico è tutto sommato comune, tra rimandi al superato Movimento Moderno e gli echi dell'allora florida architettura high-tech, o tardo-modernista.

 

Anche in questo caso, tanto per cambiare, una sicura fonte d'ispirazione diretta e/o indiretta (ad esempio tramite la rielaborazione di Blade Runner) è stata Metropolis.

 

Ora come allora i mastodontici palazzi sono l'incarnazione in cemento, vetro e metallo del potere costituito, mentre le zone altre, come le periferie disagiate di Neo-Tokyo, sono la rappresentazione concreta delle classi subalterne.

 

 

[La Neo-Tokyo del film Akira]

 

Termina così questa analisi, partita da Metropolis e passata attraverso alcune delle espressioni più alte del genere distopico che hanno sempre dovuto confrontarsi, alcune più alcune meno, con l'archetipo tedesco.

 

Non si esaurisce qui però il discorso sull'architettura distopica, che continuerà in via eccezionale tra due settimane, con la seconda parte.

 

Alcuni dei film trattati, con grande attenzione per l'interior design, saranno:

Il processo di Orson Welles;

Agente Lemmy Caution: missione Alphaville di Jean-Luc Godard;

Tempo di divertimento di Jacques Tati;

Arancia meccanica di Stanley Kubrick.

 

Ringrazio Maria Pia Papia per lo spunto, sperando di aver illustrato una connessione interessante, per quanto limitata, tra Cinema e Architettura che sarà comunque ulteriormente estesa tra due settimane.

 

Cinerama Out.    

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