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The Last of Us stagione 2 - Recensione: Kill Abby Vol 1

La seconda stagione di The Last of Us si è appena conclusa e il richiamo dei clicker mi porta a tirare le somme su questa nuova grande avventura

Se siete avidi lettori di CineFacts sarete anche a vostro agio con la logica che spesso uso con opere mastodontiche quali The Last of Us.

 

Il pigro esercizio di “bello” o “brutto”, “capolavoro” o “sopravvalutato”, è per me soporifero quasi quanto una diretta del PGA Tour.

L’adattamento HBO dell’opera videoludica di Naughty Dog richiede un discorso molto più ampio e, a mio modo di vedere, molto più interessante, perché abbiamo l'occasione di analizzare e discutere le differenze tra un medium ampiamente decodificato come quello del linguaggio per immagini, e uno molto più giovane e in mutamento quale quello del gaming.

 

The Last of Us è l’opera perfetta per esercitarci in questa analisi, poiché alla basa riesce a mescolare una narrazione densa con un gameplay altrettanto profondo, inquinando le due dinamiche con scelte ben precise che quando si opera un adattamento devono essere messe in discussione.

In questo pezzo dedicato a The Last of Us cercherò di rintracciare il perché di certe scelte, andando a smontare il mezzo videoludico esattamente come si fa da bambini quando vogliamo capire come funziona il telecomando della costosissima TV dei nostri genitori. 

 

Prima di tuffarmi in questa avventura ci tengo a sottolineare che la porzione di articolo dedicata a tale analisi conterrà spoiler (e non potrebbe essere altrimenti): quindi, prima che qualcuno si arrabbi, voglio offrire anche un parere generale senza spoiler riguardo questa stagione 2.

 

[Il trailer della stagione 2 di The Last of Us]

 

 

Questa seconda stagione di The Last of Us aveva il difficile compito di portare ai videogiocatori una delle storie più intense, sconvolgenti e spaccacuore della storia del mezzo.

 

Grazie a una serie di specchi, leve e botole, i ragazzi di Naughty Dog hanno catturato il cuore del giocatore per accoltellarlo subito con una lama avvelenata, per poi affondare lentamente il colpo guardando negli occhi stupiti e pieni di orrore, la loro vittima. 

Riprodurre quel viaggio è impresa ardua.

 

Il The Last of Us adattato nella prima stagione era una storia sull’amore di un genitore verso il proprio figlio e cosa questo sentimento così complesso può comportare.

La sua costruzione era molto più "semplice" (passatemi il termine) rispetto a The Last of Us Parte II, il cui tema è invece quello della vendetta e le conseguenze dell’amore raccontato nella prima stagione (in questa frase non c’è alcun riferimento al film di Paolo Sorrentino).

Se la Parte I metteva una questione morale sul piatto a inizio e fine gioco, la Parte II deve esplorare un tema più stratificato e con molti angoli, impiegando diverse storie e punti di vista per ribaltare continuamente la percezione del giocatore, costringendolo a non saltare a facili conclusioni. 

 

Per The Last of Us stagione 2, Craig Mazin si ritrova tra le mani una quantità di materiale molto più grande e le situazioni da costruire o ricostruire nel racconto per immagini richiedono molto più tempo, ergo: non era possibile fare tutto in una sola stagione.  

Per questa ragione il viaggio è chiaramente incompleto, i temi sono ancora da esplorare nella loro interezza e molte cose criticate in questa stagione dal pubblico di gamer (che ci stanno regalando il nuovo, insostenibile, “era meglio il libro”) sono state smentite con la progressione della serie, mentre altre verranno probabilmente ribaltante in stagione 3. 

 

Credo fermamente che The Last of Us 2 faccia un ottimo lavoro nell’adattare l’opera videoludica.

Se prendete le sole cutscene - i filmati che veicolano la trama principale del gioco - The Last of Us Parte II contiene circa 9 ore di materiale che, per quanto i fan lo abbiano raggruppato e messo insieme per fare una sorta di film, sono insufficienti per veicolare la storia.

La costruzione dei conflitti tra i personaggi, le sfumature emotive, i rapporti e molti altri elementi vengono in piccola parte vissuti e raccontati nel gameplay ma in buona sostanza sono mancanti, dato che i due mezzi sono diversi.

Il gameplay tende un po’ a passare quanto ti serve nell’economia di quello che vuole raccontare la storia (come anche il raccordo logico tra punto A e B) e grande parte dell’empatia verso i personaggi arriva al giocatore indirettamente nel momento in cui li gioca, condividendo il viaggio: questo meccanismo, che riprenderemo più avanti, in un adattamento non esiste e quindi serve dare allo spettatore molto altro che funga da costruzione drammatica.  

 

La serie di Craig Mazin nell’adattare il gioco prende molte decisioni che rimescolano alcuni eventi ma, grazie a una buona scrittura, si prende anche la briga di dare maggiore contesto e dimensione a personaggi e situazioni (molte decisioni avranno un impatto nelle prossime stagioni o a fine serie, come è normale che sia).

 

 

[Isaac in The Last of Us stagione 2]

 

 

Prendiamo a esempio Isaac, interpretato in entrambe le opere da Jeffrey Wright.

 

In The Last of Us serie TV ha molto più carattere e delle motivazioni più strutturate nel suo conflitto con la FEDRA e i Serafiti. Anche le motivazioni ideologiche che lo hanno portato a costruire il Washington Liberation Front hanno una matrice più importante, perché danno ulteriore contesto all’idea che questo stato militare imposto dalla FEDRA, prepotente e abusivo, è retaggio di un mondo le cui regole non esistono più e in questa stagione 2 di The Last of Us inauguriamo l’esplorazione di un mondo nuovo.

 

Inoltre, alcuni elementi legati a come The Last of Us Parte II affronta le moralità delle situazioni, sempre sfaccettate e mai nette, sono già delineati in questa stagione grazie a scelte spesso sottili.

Parlando proprio di Isaac, la scena di tortura va a sovvertire la visione che avevamo dei Serafiti, esponendo un conflitto che è mosso da meccanismi di ritorsione che, in altre parole, sono vendetta.

Chi ha scagliato il primo attacco o chi ha rotto per primo la tregua importa poco: entrambi i lati hanno ombre lunghe sul conflitto che, probabilmente, sarà autodistruttivo e che, come sottolinea la reazione dei due soldati WLF di pattuglia fuori dalla stanza, sono mossi da moralità che alcuni abbracciano e altri mettono in dubbio. 

 

The Last of Us stagione 2 parla di questo già dal principio, nel momento in cui decide di riprendere esattamente da dove avevamo lasciato con la fine della prima stagione.

La scelta di Joel di salvare Ellie è per alcuni di noi totalmente giusta, mentre altri potrebbero metterla in discussione.

Noi però abbiamo tutte le informazioni, abbiamo vissuto il viaggio, la perdita, i totem che hanno creato Joel e nutrito i suoi dubbi su un mondo che, con un fucile puntato, gli aveva già promesso una soluzione che avrebbe salvato il mondo e così non è stato.  

 

Joel ha fatto tutto quello che ha fatto per amore.

Il tema della prima stagione è il motore di tutto: un amore basato su istinti atavici che sono complessi da comprendere e che forse un giorno anche Ellie sperimenterà, magari facendo meglio di quanto ha fatto Joel, così desideroso di rompere un circolo di padri e figli.

 

Joel è anche ben conscio che quella scelta ha un prezzo da pagare e in questa stagione 2 di The Last of Us arriva in più forme mettendo tutto in dubbio.

Perché quella scelta, per qualcuno che non sa, è solo crudele e brutale. Chiama vendetta.

Un concetto che, come tra Lupi e Serafiti, potrebbe portare alla distruzione di tutto.

Chi ha ragione? Chi ha torto? Chi ha sferrato il primo colpo?

Quali sono le motivazioni più “giuste”?

Tutto si ribalta e si rimescola.

 

Nulla è davvero definito e questa stagione 2 di The Last of Us ci consegna la prima parte di questo lungo viaggio di vendetta e di racconti.

È una storia tragica. Questo è il punto, perché le ragioni e le filosofie, come ruggisce Isaac al serafito imprigionato, importano poco.

Non è un ballo che dovremmo fare. 

È una storia tragica, un racconto di padri e figli, un viaggio stoico dedicato a personaggi estremamente fedeli ai propri principi morali.

 

Ellie e Joel hanno un contrasto particolare perché Ellie, come molti giovani ragazzi e ragazze, vive in un mondo distrutto senza uno scopo.

Le era stato promesso il destino di una falena.

Ellie, come visto nella prima stagione, vede il proprio destino scritto da un morso.

 

Un morso è anche quello che le porta via la ragazza che ama e che le fa sapere che tutto quello che deve fare è seguire le Luci (o meglio, le lucciole, prendendo il nome originale del gruppo, aka Firefly) per spegnersi nella fiamma e dare al mondo il fuoco per bruciare l’infezione. 

 

 

[Abby in The Last of Us stagione 2]

 

 

The Last of Us stagione 2 si prende il suo tempo: ci parla di questi personaggi, definisce la loro fibra morale e il loro credo: non è il tipo di show estremamente ludico e macchiettistico nel raccontare i suoi temi. 

 

Il mondo di The Last of Us non ha quella componente ludica di una storia di vendetta che generalmente dona molta soddisfazione allo spettatore.

Ellie nel videogioco falcia una quantità di nemici non indifferente, perché il gameplay, nel gaming, viene prima di tutto, soprattutto della scrittura; alcune scene incluse nella serie sono infatti state tagliate dal gioco, perché avrebbero allungato ulteriormente un’avventura già di per se corposa e il rischio sarebbe stato quello di alienare il giocatore. 

 

Nel momento in cui metti in scena in televisione The Last of Us non puoi trasformare Ellie in Atomica Bionda e pretendere che questa falci nemici come si schiacciano noccioline, soprattutto se si sta cercando di definire ulteriormente Ellie come personaggio.

Questo aspetto di The Last of Us stagione 2 per me è molto interessante, anche se ci allontana da uno stilema, legato alle storie di vendetta, che è sempre e solo fatto di violenza e una scrittura inesistente.

 

Ellie non è Joel.

Non è un adulto che dopo aver visto l’inferno ha i mezzi e lo stomaco per usare qualsiasi estremo violento per proteggere chi ama e sopravvivere.

Joel spinge in profondità anche le cose più orribili da lui compiute, Ellie invece è pur sempre una ragazzina e uccidere, nel mondo di The Last of Us, non è qualcosa che passa con tanta leggerezza.

Questo è stato reso ben chiaro fin dalla stagione precedente e, soprattutto, nessuno è al sicuro dalla morte. 

 

In The Last of Us stagione 2 la tanto criticata descrizione di Ellie calza perfettamente a un personaggio che andando avanti fa i conti con i propri estremi violenti.

Ellie è guidata dalla rabbia. Non è riflessiva o metodica.

Viene dominata da questo sentimento che la porta poi a vivere situazioni violente legate al tema della vendetta e quanto sia giusta e quali siano le conseguenze del suo esercizio, che la segnano profondamente.

Lei non è Joel e tra impazzire di dolore e desiderare vendetta e sparare a qualcuno a sangue freddo c’è un'enorme differenza.

Questo The Last of Us lo racconta. Un personaggio che, per il nostro desiderio ludico di vedere la vendetta passare per scene d’azione, abbatte nemici come fosse John Rambo, non avrebbe poi lo spazio di manovra per traumatizzarsi e veicolare i temi legati alla vendetta; sarebbe tutto estremamente dissonante.

 

The Last of Us ci consegna un racconto che di puntata in puntata sposta i nostri punti di vista e mette a confronto le moralità dei personaggi.

 

Jesse, ad esempio, è un personaggio che adoro. Lui è il boy scout, è tutto quello che Ellie non è e non sarà mai, perché la ragazza è nata sola e, per suo desiderio, vorrebbe morire sola così da avere un senso.

Jesse invece vive seguendo un principio morale legato alla comunità: tutto quello che fa è mosso da tale principio; nessuno va lasciato indietro e chiunque, anche l’iraconda Ellie, merita salvezza. 

Jesse rinuncia all’amore vero e fa fronte a tutte le sue responsabilità anche nel momento in cui, come Dina, capisce che la sua sopravvivenza non è più una questione di attaccamento alla vita, ma di dover sopravvivere per pensare a qualcun altro.

 

The Last of Us stagione 2 potrebbe essere riassunta in quel murales che troviamo nella libreria che fa da campo base di Tommy e Jesse, dove Ellie e il ragazzo hanno un acceso confronto morale che li definisce: “in tutto c’è una morale se riesci a trovarla.” 

 

 

[La musica continua a essere importante in The Last of Us]

 

 

The Last of Us ha molte morali al suo interno e la sua scrittura è spesso affidata a dettagli, dialoghi e azioni che definiscono i personaggi, invitando lo spettatore a prestare estrema attenzione a quanto accade in ogni singolo episodio (prendendosi anche tale attenzione costruendo tutto con grande attenzione e amore per il materiale originale).

 

Se riuscite a trovarli, The Last of Us stagione 2 ha grandi significati e definisce il primo atto di una tragedia che andando avanti continuerà a sovvertire quello che lo spettatore pensa di sapere.  

Il più grande errore che si possa fare guardando The Last of Us è un po’ il più vecchio del mondo, ovvero aspettarsi che la serie TV faccia esattamente le stesse cose che fa il videogioco: semplicemente non è possibile! 

 

Se dovessi trovare un difetto a questa stagione due di The Last of Us lo individuerei nella descrizione di questo nuovo mondo.

Siamo a 25 anni dall’esplosione della pandemia e in 5 anni dagli eventi di stagione 1 ci troviamo in un mondo che ha visto la caduta della FEDRA e la formazione di due nuovi ordini creati dall’uomo. 

In una certa sostanza il mondo di The Last of Us non ha più debiti con il mondo pre-pandemia, ma ha molto da dire rispetto alle storie del suo recente passato.

 

Nella prima stagione alcuni piccoli elementi di environmental storytelling erano stati trasposti nella serie e anche il rapporto da Bill e Frank, molto utile a descrivere diverse dinamiche, viene ampliato e approfondito (potrei anche citare come viene messo in scena il ritrovamento del bunker con quella sorta di “asilo” sotterraneo).  

In questa stagione due di The Last of Us forse ci sarebbe stato spazio per riportare un po’ di quelle storie invisibili raccontate esplorando Seattle con Ellie e Dina.

Potrei portare l’esempio di una lettera di un sopravvissuto che scrive appellandosi a un possibile sopravvissuto che possa trovarla e da consegnare alla sua famiglia: uscito in cerca di provviste per moglie e figlioletto viene sorpreso da degli infetti e, seppur rifugiatosi in una stanza, è stato morso e quindi condannato a morte certa.

Poteva forse essere un veicolo interessante per descrivere ulteriormente i nuovi infetti, come gli Stalker. 

 

L’altro possibile difetto della serie è probabilmente congenito. 

Contrariamente ad altre serie TV qui c’è la sopracitata intenzione di strutturare le stagioni come enormi atti di una storia molto grande, cosa che non è del tutto dovuta in un mezzo seriale.

Generalmente il tema di una stagione sorge e tramonta nel corso di questa e a rimanere appesa è la narrativa principale che fa da sfondo e da motore alla serie, spesso le stagioni cercano di chiudersi lasciando aperto uno spiraglio, ma anche prevedendo la possibilità di non vedere mai più il nuovo giorno!

 

Qui invece alcuni temi sono ancora da approfondire, molti punti di vista cambieranno nei successivi atti e mentre alcune situazioni aperte si chiudono, altre lo faranno andando più avanti.

 

 

[Occhio ai dettagli in The Last of Us]

 

 

La stagione 3 di The Last of Us racconterà la storia di Abby, il suo personale atto, che evolverà ulteriormente le tematiche e contestualmente collegherà alcuni puntini qui lasciati in sospeso.

 

La scrittura di Craig Mazin, in tal senso, si è dimostrata molto precisa nel ricollegare tutto semplicemente dando i giusti tempi allo sviluppo della storia, per esempio la decisione di Jesse di non discutere come abbia rintracciato Dina e Ellie durante un momento concitato poteva sembrare un buco di sceneggiatura, mentre era dichiaratamente un atto di sovversione verso qualcosa di stupido che in certe storie capita sempre, difatti nell’ultimo episodio, nel quale si ritorna agli eventi dopo il flashback, tutto torna. 

 

Il problema è che lo spettatore rimarrà appeso per un po’ di tempo e, forse, avremmo voluto da HBO lo sforzo di fare quello che David Lynch ha fatto con il suo Twin Peaks, regalando al pubblico un racconto unico, gigantesco, di 18 ore (parti) da fruire senza interruzioni di sorta.

Probabilmente, considerati i costi di produzione di The Last of Us, sarebbe stato l’investimento più oneroso della Storia della TV ma, dannazione, è così che si fa la Storia! 

 

Ora che avete un mio parere sommario, mi prendo la briga di discutere alcuni dettagli e differenze tra lo show e il videogioco, come anticipato in apertura.

 

 

[Norman Reedus in Death Stranding 2]

 

 

Non è una gara di cosplay!

 

Hollywood è da sempre alla ricerca di storie e wave e il mondo del gaming è nei radar dell’industria del Cinema da sempre.

Tuttavia è piuttosto innegabile che in passato il materiale per poter creare opere interessanti scarseggiava, inoltre a Hollywood nessuno aveva idea di come inquadrare questo strano medium, la cui codifica è ancora in corso.

 

Pensate solo che il fumetto, un mezzo infinitamente più anziano del gaming, ha impiegato decenni per essere interpretato a dovere nelle sue trasposizioni sul grande schermo (anche se alcuni faticano ancora a capire come fare!)  

 

Oggi, in teoria, dovrebbe essere più facile ma non è così perché il gaming è diventato più stratificato: scrittura e regia funzionano secondo stilemi molto diversi, perché il gameplay è DIO nel gaming e tutto il resto deve stare al servizio della componente ludica, creando variazioni di linguaggio.

Come se non bastasse le tecnologie si sono enormemente evolute e oggi i motori di gioco (la tecnologia che rende possibile le meccaniche ludiche, tanto quanto l’impianto grafico, la fisica e tutto quello che da vita e interagibilità al mondo di gioco) sono così evoluti e sofisticati da prestare alcune sue risorse ai VFX per il Cinema e la televisione.

 

Quella che banalmente è chiamata “grafica” è così avanzata che attori e attrici di Hollywood e non (come Luca Marinelli e Alissa Jung, recentemente annunciati come parte del cast di Death Stranding 2: On the Beach) vengono scansionati e riprodotti con impressionante fedeltà nelle opere videoludiche.

La discussione sulle tecniche videoludiche e di storytelling nel gaming è così accesa e interessante che Hideo Kojima, autore di Death Stranding, ha tenuto un panel al Festival di Cannes appena concluso. 

 

I più brillanti di voi avranno già capito dove voglio andare a parare: come adatti un videogioco i cui protagonisti sono volti già noti? 

Prendiamo il sopracitato Death Stranding dove nel cast spiccano nomi come Norman Reedus, Mads Mikkelsen, Léa Seydoux, Margaret Qualley, Guillermo del Toro e Nicolas Winding Refn

 

Il sequel, in uscita a breve, aggiunge al cast George Miller, Fatih Akin, Elle Fanning e i sopracitati Luca Marinelli e Alissa Jung.  

 

A24 sta attualmente producendo un adattamento cinematografico che, chiaramente, si rivolge non solo ai fan ma anche al grande pubblico che quando sente dire “videogioco” grida compulsivamente “PLAISTASCION!”, come fosse un gallo ruspante in libera uscita.

Tuttavia sarà impossibile non pensare a quei volti, così ben definiti, tanto quanto alle loro interpretazioni indissolubilmente associate a quei personaggi. 

 

Un problema altrettanto simile si verifica anche in The Last of Us: per quanto i volti dei protagonisti non siano (spesso) di attori noti e esistenti, il pubblico ha una precisa immagine in testa.

 

Ellie e Joel hanno fattezze che un team di designer ha passato giorni e settimane per partorire, definendo indiscutibilmente l’identità di quei personaggi; una ricerca artistica che descrive questi personaggi in modo più avanzato (poiché visivo) ma non molto diverso da quello che fa uno scrittore quando descrive minuziosamente i protagonisti di un libro.  

 

Come si fa? 

 

 

[Dina in The Last of Us stagione 2]

 

 

Il problema, per quanto più marcato, è risolvibile pensando al Cinema come al teatro, alla letteratura o al fumetto.

 

Chiaramente non possiamo pretendere che Hamilton verrà sempre e per sempre interpretato dai favolosi volti del musical che ha ammaliato il mondo.

Allo stesso modo il personaggio immaginato da un lettore seguendo la descrizione di un libro, difficilmente sarà identico in una trasposizione.

Il tanto amato 007 di Daniel Craig è stato una scommessa che fece storcere il naso a molti, perché 007 biondo… per citare Ray Wise in How I Met Your Mother, “grown men are not blonde!”.

 

Vale altrettanto per i fumetti, dove un design spesso ben definito è aperto a molte interpretazioni e tra le pagine patinate e il Cinema si registrano varie interpretazioni.

Per gli adattamenti videoludici credo sia legittimo aspettarsi altrettanto.

Non è che i fumettisti lavorino meno sul design dei propri eroi e se guardiamo ai vari volti che hanno incarnato personaggi molto amati (al cinema) troviamo nette differenze non solo tra loro, ma anche rispetto al materiale originale (il Peter Parker di Tom Holland sta a quello del fumetto come io sto a Elodie e altrettanto si potrebbe dire dell’amato Constantine di Keanu Reeves).

 

Quello che conta è la capacità dell’attore di vestire il personaggio e portare allo spettatore la sua essenza; non è una gara di Cosplay di una fiera del fumetto.  

 

Inoltre le critiche sul casting di The Last of Us vivono di una natura aleatoria che svelano un po’ l’asino che casca con tonfo sordo ogni volta che vengono pronunciate.

Bella Ramsey viene attaccata ancora perché non è davvero somigliante a Ellie.

Di contro Pedro Pascal e Gabriel Luna, seppur di etnie diverse e distanti dalle controparti videoludiche, sembrano andar bene. 

 

Anche Isabela Merced, nei panni di Dina, per quanto diversa dal volto scelto nel gioco (che in questo caso appartiene alla modella Cascina Caradonna), va benissimo! 

 

Sono fermamente convinto che il problema sia uno: Hollywood, da sempre, ci ha abituato a protagonisti belli come il sole. Nell’industria si è fermamente convinti che un bel faccino, un volto che buca lo schermo, sia molto più facile da accogliere e le critiche a Bella Ramsey ci stanno dimostrando questo. 

Il problema non è tanto che non le somigli, quanto che non è “easy on the eyes”, come direbbero a Roccaraso, dato che la quasi totalità dei meme online sfotte l’aspetto dell’attrice e non tanto la somiglianza con il modello creato nel gioco. 

Bella Ramsey incarna una Ellie molto punk e, personalmente, la gradisco.

Se volete addormentarvi sognando la Ellie del videogioco in un setup quasi fotorealistico, esistono pagine Instagram che realizzano modelli del personaggio con le IA.

Sono pagine molto strane e mi fanno paura. A ciascuno il suo! 

 

Al contempo sono arrivate diverse critiche per il casting di Kaitlyn Dever nei panni di Abby. Per molti sarebbe sbagliato non aver chiesto all’attrice di andare in palestra per riprodurre la scultorea possenza del personaggio del videogioco.

Qui finalmente tocchiamo una prima grande differenza tra i due media. 

 

Quando Naughty Dog ha pensato il personaggio di Abby, inizialmente non solo non era caucasica, ma non era nemmeno così palestrata.

Se ci fate caso in The Last of Us Parte II c’è un retcon abbastanza invisibile, perché il medico ucciso da Joel non era bianco.

Abby era inizialmente molto più simile a Ellie, anche se dotata di un addestramento militare, ed era latina o nera. Il concept è stato modificato perché, come anticipato, in un videogioco regna il… gameplay!

Bravi! Avete vinto una testa di Clicker di balsa!

 

Per i babbani sembrerà stregoneria ma, nei videogiochi, un po’ come si potrebbe dire parlando di un auto o di una moto, le cose pad alla mano hanno uno specifico feedback.

Tutto è possibile grazie alle animazioni, alla risposta del mondo di gioco alle azioni del giocatore e, ovviamente, al concept dietro il personaggio che l’utente si trova a giocare.

 

Già in The Last of Us Parte I è possibile notare come nel passaggio tra Joel e Ellie il feedback sia diverso: Joel nei colpi è più brutale e pesante, le sue armi scalciano come muli e hanno un potere distruttivo devastante; Ellie è minuta, agile, usa il coltello e l’arco. 

 

 

[I primi design di Abby in The Last of Us Parte II]

 

In The Last of Us Parte II, che ci costringe a utilizzare Abby per gran parte dell’avventura, si rende necessario diversificare il gameplay tra Ellie e Abby: per questa ragione Abby è un toro.

 

Quando corre per caricare un avversario o un infetto è un treno, i suoi colpi sono macigni e le sue armi tendono a far deflagrare i nemici. 

La differenza tra Ellie e Abby è sottile quanto basta per consegnare ai giocatori uno stacco tale da non rendere le (circa) 30 ore di gioco estremamente piatte e ripetitive. 

 

Caratterialmente Abby non è mai definita dalla sua fisicità.

La costruzione del suo personaggio è totalmente affidata alle motivazioni della sua vendetta, al rapporto con il padre come con Owen e i membri del suo gruppo, alle conseguenze che le sue azioni avranno e come ridefiniscono la nostra percezione della vendetta, al viaggio che compie per riscrivere tutto il suo sistema di valori che, insieme al giocatore, mutano esplorando il conflitto tra il Washington Liberation Front e i Serafiti. 

 

Abby in The Last of Us Parte II è fisicamente una divinità della guerra solo per esigenze di gameplay e nella serie TV trovo sia totalmente accessorio chiedere a un'interprete di modificare drasticamente il proprio fisico.

Nella serie, contrariamente al gioco, viene aggiunto uno strato molto interessante: Abby si rivela molto più incline alla bruta violenza e viene presentata come un leader.

Isaac stesso, prima di andare in guerra sull’isola dei Serafiti, è preoccupato perché Abby è scomparsa; il leader del WLF sa che la sua crociata contro il gruppo religioso potrebbe vederlo cadere in battaglia e vede in Abby qualcuno di simile a lui che possa guidare il WLF anche dopo una sua eventuale dipartita. 

Craig Mazin in The Last of Us stagione 2 ci presenta da subito un personaggio ruvido, carismatico e abile: la sua fisicità è davvero accessoria. 

 

Curiosità a margine: per creare Abby nel gioco ci sono volute ben 3 persone: il volto è quello di Jocelyn Mettler, game developer e VFX Artist, il corpo è modellato su Colleen Fotsch, atleta statunitense, Laura Bailey è invece l’attrice che si è prestata per il motion capture e per l’interpretazione di Abby. 

 

 

[Ho adorato il rapporto di Joel con Dina in The Last of Us]

 

 

Non è un colpo di scena! Come The Last of Us Parte II ci manipola.

 

Questa seconda stagione di The Last of Us è protagonista di un dibattito che riguarda le modalità con le quali viene introdotta Abby allo spettatore, rispetto al gioco.

Un passaggio ritenuto molto importante, considerando che una serie di scelte (che ora andrò a discutere) hanno reso la morte di Joel uno degli eventi più iconici e scioccanti della Storia del gaming. 

 

Nella serie è stato scelto di riprendere il finale della prima stagione di The Last of Us per mostrare Joel ed Ellie scendere a valle verso Jackson e staccare poi su Abby e le Luci sopravvissute alle azioni di Joel.

Apprendiamo che Abby vuole vendetta (ma non sappiamo precisamente perché) e che ha una manciata di informazioni su Joel, per poi compiere un salto temporale di cinque anni.

All’omicidio di Joel ci arriviamo con una costruzione differente.

Craig Mazin sceglie di focalizzarsi sulla tormenta, sull’attacco a Jackson che offre un secondo elemento di tensione e porta altri temi e moralità su chi sia Joel, oltre che sul rapporto tra Ellie e Joel popolato da cose non dette allo spettatore che esploreremo più avanti.  

 

Nel gioco cambia tutto e c’è una ragione ben specifica che ha portato Craig Mazin a scegliere un approccio totalmente opposto.

Parliamone! 

 

Giocando The Last of Us Parte II abbiamo un’alternanza di gameplay tra i vari protagonisti.

Dopo aver giocato Joel ed Ellie (così da ritrovare i nostri eroi, definire lo spazio e i protagonisti del racconto e prendere confidenza con i controlli base del gioco), The Last of Us Parte II ci mette nei panni di Abby, portandoci (per capirci) nello chalet sulle montagne dove avverrà il misfatto. 

Il gioco ci fa conoscere Abby e Owen e, per quanto ne sappiamo, stiamo giocando un gruppo di sopravvissuti che stanno cercando qualcuno, ma non viene mai menzionato Joel.

Ci concentriamo più che altro sul rapporto tra i nostri due nuovi personaggi e i vari conflitti tra loro, compresa l’ombra della vendetta di Abby.

 

Qui Neil Druckmann e i ragazzi di Naughty Dog hanno costruito la loro trappola letale per il cuore del pubblico, perché a questo punto stiamo giocando Abby. 

In un videogioco nel momento in cui ci viene dato il controllo di un personaggio si crea immediatamente una connessione: quello è il nostro eroe.

Impariamo a conoscerlo, comprendiamo le sue motivazioni e le abilità da utilizzare nel gameplay per divertirci.

 

Naughty Dog, per amplificare il legame con Abby, decide intelligentemente di darci in pasto un conflitto, principalmente con Owen e che nella serie TV non è esplicitato in quel contesto, e di buttarci a capofitto nell’azione, perché nulla crea un immediato legame tra giocatore e personaggio come uno scorcio di gameplay action nel quale dobbiamo salvarci la pelle, innescando anche una certa empatia.

Se poi a toglierci dai guai è l’eroe del gioco, Joel, con il quale dobbiamo collaborare per scappare e abbattere una serie di infetti, le meccaniche del medium ci stanno sostanzialmente appiccicando Abby sul cuore. 

 

Quando Abby e Joel si rifugiano nella baita popolata da Owen e i vari membri del gruppo c’è un cambio di tono che porta Abby a svelare i suoi veri intenti: uccidere Joel. 

 

Il giocatore viene fondamentalmente tradito.

È un colpo di teatro molto potente, perché nella grammatica di un videogioco non ti aspetteresti mai e poi mai di giocare un villain, soprattutto dopo che ogni elemento ha lavorato per fartelo accettare e accendere in te una serie di domande e curiosità su di lui. 

 

The Last of Us Parte II ti fa controllare qualcosa che non vorresti vedere accadere e un senso di urgenza si fa strada nel giocatore quando Abby e il gruppo inizia a torturare Joel, lasciandoti il controllo di Ellie che, pensi, riuscirà a salvarlo.

Chiaramente non sarà così e con l’illusione del controllo sei costretto a guardare Abby brutalizzare e uccidere Joel, rimanendo affranto e impotente.

Questo è lo shock, non il fatto che Abby voglia vendicarsi di Joel, quanto che siamo stati agenti di quella situazione e questa scelta avrà ulteriori funzioni andando avanti nell’avventura, per meglio capire le morali e come il tema della vendetta viene esplorato. 

 

The Last of Us Parte 2 sovverte le nostre aspettative perché di mezzo ci sono le certezze date dalle meccaniche di gioco.

La vendetta di Abby non è un colpo di scena, non può funzionare in un medium diverso da quello del videogioco. Non stiamo parlando di The Departed, dove dopo un lungo racconto stratificato e affascinante abbiamo una scioccante soluzione finale che ci lascia di stucco. 

 

Quello di The Last of Us stagione 2 è un incipit! 

 

 

[The Last of Us stagione 2 rende Tommy con molta umanità]

 

 

Quel che sarà poi affascinante, accorato e spaccacuore da esplorare saranno tutti i non detti tra Joel e Ellie, il passato di Abby, il sopracitato percorso della ragazza (che è post-vendetta) e tutto quello che viene descritto (sempre utile a sfidare morali e posizioni ideologiche) tra il WLF e i Serafiti.

 

La storia è una tragedia che, contrariamente ad altre, non fa della vendetta qualcosa di giusto, sacro e indiscutibile che fomenta il mito del protagonista e soddisfa lo spettatore. 

Il colpo di teatro del tradimento del giocatore, in TV o nel Cinema, non esiste perché manca quel coinvolgimento diretto dato dal gaming come medium. 

 

In The Last of Us Parte II si può dare un colpo di coda molto potente grazie alla grammatica unica di un mezzo che prima di tutto vive di gameplay e per tale ragione modifica drasticamente risorse e stilemi utili per raccontare una storia.

Per queste ragioni Craig Mazin e Neil Druckmann hanno deciso di cambiare l’incipit di The Last of Us Parte II, perché non per niente si parla di "adattamento".

 

Le esigenze di linguaggio e le possibilità del gaming sono ben diverse da quelle di un mezzo passivo come il racconto per immagini e i livelli di coinvolgimento cambiano, obbligando chi racconta a spostare parti, riscrivere situazioni o personaggi e introdurne di nuovi.

 

Ho infatti trovato calzante per la serie l’idea di creare un pericolo per Jackson, così da lasciare Tommy al campo e rendere improbabile e fuori dai principi morali dei sopravvissuti della cittadina l’idea di far partire una spedizione vendicativa.

Senza contare il conflitto che aveva portato Tommy e Joel a separarsi e che nel gioco viene un po’ buttato alle ortiche quando Tommy parte in solitaria per vendicarsi.

Si gioca tutto su una scala emotiva monocromatica, non c’è davvero spazio per conflitti emotivi e morali.

La tragedia va giù dalle scale molto in fretta e senza troppa costruzione ma, come anticipato, si parla di un videogioco che ha esigenze e sviluppi differenti e che, un po’ ruffianamente, deve dare spazio alle aspettative di gameplay del giocatore.

 

Nella serie TV di The Last of Us invece c’è una presa di posizione sulla vendetta che passa per le bugie che racconta Ellie al consiglio, l’appoggio di Seth, lo scontro futuro tra Ellie e Jesse e l’idea di società degli abitanti di Jackson, completamente diversa da quella del WLF, dei Serafiti e dei principi morali della stessa Ellie. 

 

Inoltre l’idea di mandare Dina con Joel aiuta l’esplorazione dei rapporti e il groviglio emotivo di Ellie: Dina è l’ennesima figlia di Joel.

Chiaramente i due hanno un rapporto, guardano dei film insieme e lui, di fronte alle minacce di Abby, ancora una volta, aderisce ai suoi principi: pensa a Jackson in fiamme e a proteggere Dina.

Non scappa da quanto ha fatto in passato, non cerca di cavarsela a parole. Pensa a proteggere Dina che, innamorata di Ellie e affezionata a Joel, più avanti userà le informazioni che ha raccolto per aiutare la ragazza.

 

Il setup di The Last of Us stagione 2 cerca di dare uno spazio maggiore ai personaggi, alle loro motivazioni e ai conflitti. 

 

 

[The Last of Us rimane molto evocativo]

 

 

The Last of Us Parte II, in quanto videogioco, utilizza metodi alternativi per dare contesto e dimensione al tutto.

 

Spesso viene utilizzato l'environmental storytelling con pagine di diario, lettere, dettagli delle location e dialoghi in gioco tra i personaggi che vengono alla nostra attenzione esplorando Seattle, ergo esercitando le possibilità date dal gameplay. 

Nella serie TV di The Last of Us troviamo un mondo in cui la Fedra è capitolata, le Luci sono scomparse e il WLF e i Serafiti sono le nuove interpretazioni del mondo offerte dai sopravvissuti.

Per definire nuovi conflitti si rende quindi necessario dare maggiore spazio al personaggio di Isaac che, nel gioco, è abbozzato quanto basta per rendere chiaro lo scontro tra WLF e Serafiti.

 

Grazie al flashback e altri espedienti, come il racconto dei Serafiti trucidati dai Lupi con quell’immagine di padre e figlia trovati morti mano nella mano da Ellie e Dina, Isaac ha possibilità diverse di raccontare le sue motivazioni, si amplia l’arco della sua storia e le morali del WLF, poiché dove manca il gameplay e tutti i suoi sistemi di storytelling, in TV devono arrivare gli stilemi del racconto per immagini. 

 

Tornando alla scelta di impersonare Abby e quanto sia funzionale nell’economia del racconto la struttura di The Last of Us Parte II, la mia convinzione su quanto fosse intraducibile allo stesso modo diventa granitica se pensiamo che un simile espediente è stato utilizzato in The Last of Us Parte I ma, in quel caso, viene lasciato perfettamente intatto nell’adattamento.

Perché? 

 

The Last of Us Parte I ci fa giocare nei panni di Sarah, la figlia di Joel.

Prendiamo confidenza con i controlli e indirettamente vogliamo bene a questo personaggio perché, anche qui, veniamo messi subito in pericolo e proprio Joel arriva a salvarci.

Per quanto ne sappiamo in quel momento, The Last of Us Parte I sarà un gioco nel quale padre e figlia sopravvivono a questa apocalisse da Cordyceps. 

 

Invece no! Colpo di teatro.

Il personaggio che stiamo giocando muore, spezzandoci il cuore.

Noi giochiamo Joel dopo un salto in avanti nel tempo di 20 anni, poiché è lui il vero protagonista. La scelta funziona per definire il trauma di Joel e il rapporto con Ellie che porterà alla forte decisione dell’ultimo atto, anch’essa messa nelle mani del giocatore e che viviamo emotivamente in entrambi i mezzi, anche se nel gioco è un po’ più ludica; nell’adattamento l’azione non è spettacolarizzata e il peso della scelta arriva allo spettatore.

Tornando al punto, avendo avuto il controllo di Sarah e della scena subiamo una violenza molto forte utile a far empatizzare il giocatore con Joel. 

 

Nell’adattamento di The Last of Us Parte I, Craig Mazin non altera questa struttura perché perfettamente traducibile.

Anche in questo caso il gameplay è forse di maggiore impatto per i motivi già discussi, ma nell’adattamento avvertiamo un diverso stacco perché il "cosa" viene raccontato è potente e cruciale tanto quanto il "come".

 

La morte di Sarah è qualcosa di portante della scrittura di Joel e si presta quasi 1:1 con il linguaggio per immagini, perché in maniera molto simile possiamo seguire Sarah e legarci a lei grazie al rapporto universale padre e figlia, definito ulteriormente da un totem importante come l’orologio rotto, che Joel porterà al polso per tutta la vita.

È uno snodo assolutamente centrale nel come è imbastito perché rappresenta un colpo di scena che, se alterato, rompe l’incipit del racconto e di conseguenza tutto quello che viene dopo.

Il peso della morte di Sarah aleggia sopra la testa di Joel ed è fondamentale che noi lo abbracciamo dall’inizio alla fine, mentre lo shock della vendetta di Abby si regge su quanto sappiamo su Ellie e Joel e il nostro rapporto con loro, non tanto sul fatto che si possa empatizzare con Abby.

 

Il nostro rapporto con Abby viene definito solo più avanti e questa scelta di farcela conoscere in un secondo momento rimane intatto nel rispetto dell’idea di come The Last of Us sceglie di veicolare le sue morali. 

 

Le decisioni sono simili, ma hanno implicazioni completamente diverse e dunque si traducono differentemente da un mezzo all’altro, perché il colpo di scena con Abby ha un elemento non centrale costruito sul gaming e, per funzionare nel gaming in quanto tale, va lasciato intatto, dando vita a The Last of Us Parte II. 

 

 

[Un frame dalla stagione 1 di The Last of Us] 

 

 

In tutto questo non credo che una soluzione sia migliore dell’altra.

 

Da videogiocatore sono totalmente d’accordo con chi sostiene che l’impatto dato da The Last of Us Parte II è più violento rispetto a quello della serie TV ma, guardando i due media, sono anche conscio che il gaming ha delle armi a sua disposizione che il racconto per immagini non ha.

Penso che la dinamica di Abby in TV non possa funzionare come elemento di sorpresa o colpo di scena, proprio perché manca quel rapporto intimo creato dal gameplay.

Va ricordato che uno spettatore medio estraneo al gioco vivrà comunque sensazioni conflittuali e già in questa seconda stagione di The Last of Us ha una percezione degli eventi molto potente.  

 

In definitiva credo che il videogioco abbia la possibilità di arrivare al pubblico con una forza emotiva spesso irriproducibile.

Nel gaming c’è la possibilità di dare il controllo della scena, un qualcosa di potente che per chi gioca è una promessa ma anche un’illusione, soprattutto quando si parla di opere dalla forte componente narrativa.

Da un lato è una promessa perché il giocatore ha delle possibilità di interazione che lo divertono e hanno causa e effetto sul mondo di gioco; allo stesso tempo è un’illusione perché, come fatto da Naughty Dog, si può utilizzare il controllo della scena per costringere il giocatore a subire il racconto e obbligarlo a fare qualcosa che magari non vorrebbe, il che è molto più violento rispetto ad assistere a qualcosa di tragico. 

 

Lo stesso The Last of Us Parte II, dopo quello shock, obbliga il suo utente a giocare ulteriormente con Abby e qui si innesca l’esplorazione di una serie di morali riguardo la vendetta che porteranno il giocatore a voler posare il pad e pensare “No io questa cosa non la posso fare, non scherziamo!”. 

 

Senza fare spoiler alcuno, ma portando un ulteriore esempio ad appannaggio degli appassionati che conoscono bene questa iconica scena, pensate all’atto finale di Metal Gear Solid 3: Snake Eater.

Hideo Kojima prende una decisione estremamente violenta verso la sua utenza, che costringe il giocatore a fare qualcosa di emotivamente molto forte, che segna tutta la morale e i conflitti tra Naked Snake e uno dei protagonisti. 

 

The Last of Us Stagione 2 prende delle scelte al fine di adattare una storia con meccaniche indissolubilmente legate al suo mezzo di riferimento (il videogioco) e sono convinto che, considerato quanto è giovane il medium, molti non si sono ancora resi conto di come si muove e perché. 

 

 

[The Last of Us e i suoi preziosi flashback]

 

 

Quel portico, quel maledetto portico!

 

The Last of Us stagione 2 apporta tanti cambiamenti, molti dei quali alcuni stanno ignorando (o non notando), per concentrarsi su quelli più evidenti o coraggiosi come, per esempio, la scena del portico.

 

Se siete unicamente fruitori della serie TV vi rassicuro: NON farò alcuno spoiler coprendo argomenti oltre la serie TV.

Per tutti gli altri, sapete già tutto e ci possiamo perfettamente capire senza scendere in alcun dettaglio. 

 

Durante la produzione di The Last of Us Parte II Neil Druckmann si è reso conto di quanto sia importante inserire nel gioco la scena del portico, tuttavia non ha idea di dove inserirla...

Spende parte della produzione con questa Spada di Damocle sulla testa piena di urla di clicker, per poi decidere di posizionarla nell’ultimo atto. 

Nel gioco passiamo quasi tutta l’avventura senza sapere se Joel e Ellie hanno avuto un chiarimento. 

 

In The Last of Us Parte II funge da cioccolatino avvelenato prima che si chiuda la tragedia, qualcosa di cui William Shakespeare in qualche modo sarebbe fiero.

Ancora una volta c’è da sottolineare che nel live action ci sono esigenze e tempi ben diversi.  

Rispettare una simile decisione avrebbe voluto dire proporre questa scena tra due o tre anni (dipende quanto velocemente HBO produrrà la serie, considerando che avrà probabilmente quattro stagioni).

Come ha dichiarato Neil Druckmann nel corso del podcast ufficiale di The Last of Us, la cosa non avrebbe avuto grande senso.

 

Si rende necessario mettere sul tavolo tutte le motivazioni e i conflitti di Ellie, perché quello che verrà dopo ci distrarrà per molte ore e sarebbe un po’ troppo chiedere allo spettatore di tenere a mente un raccordo narrativo di anni prima: forse una produzione matta, folle e senza precedenti, votata a produrre e consegnare un unico e gigantesco racconto avrebbe potuto mantenere questa struttura. 

Così invece no!

 

Il giocatore medio vive la storia di un gioco come The Last of Us nell’arco di una manciata di giorni e non nel corso di più stagioni che si protraggono per anni.

I raccordi narrativi ed emotivi si raffreddano e perdono di efficacia, tuttavia la scena è sostanzialmente identica e accompagna la puntata 6, dedicata a raccontare il rapporto tra Ellie e Joel lungo i cinque anni passati a Jackson. 

 

Un episodio che si apre con un flashback ambientato nel 1983 che ci racconta un giovane Joel che, guarda un po’, protegge Tommy dal padre (un meraviglioso Tony Dalton).

 

Si parla di catene che si passano di padre in figlio.

Dalton interpreta un padre che affrontato dal figlio Joel va in pezzi pensando a quanto si stia impegnando per fare di meglio rispetto a suo padre: “When it’s your turn I hope you do a little better than me”. ["Quando toccherà a te spero che farai un po' meglio di quanto ho fatto io"]

 

Questa frase aleggia su Joel lungo tutto l’episodio, anche quando nella capsula dell’Apollo 1 chiede a Ellie “Sto andando bene?” e, quando sono sotto il portico, Joel ripete a Ellie la stessa identica frase pronunciata dal padre. 

Credo che in sceneggiatura si siano creati un appiglio per creare qualcosa di diverso per il finale di serie e, se avete giocato il titolo, potete provare a immaginare quale tipo di appiglio emotivo potranno costruire per Ellie giocando su questa dinamica.

 

Perché in fondo è un dettaglio che sa di fine storia, di fila che vengono tirate riguardo scelte, morali e conseguenze, mentre la scena del portico è più utile a definire le motivazioni di Ellie in quel momento e cosa le pesa sul cuore.    

 

 

[The Last of Us stagione 2 sa essere fedele al gioco]

 

 

The Last of Us tra spore e crudeltà!

 

Una scelta che ho trovato un po’ tardiva è la reintroduzione delle spore come elemento di infezione.

 

Nel gioco di The Last of Us oltre al morso l’infezione passa per le spore, ma nella serie TV questa cosa era stata tenuta fuori dai giochi. 

In questa seconda stagione di The Last of Us le spore diventano elemento drammatico: vengono introdotte in apertura della puntata 5 e servono a contestualizzare una serie di situazioni.

Il WLF ha ormai finito di perlustrare l’ospedale e dopo aver preso tutto quello che hanno ritenuto utile o necessario, stanno lasciando il campo; le spore diventano virali per via aerea se, come da buona tradizione per i funghi, questi hanno modo di proliferare in posti chiusi e umidi. 

 

Credo avrebbero potuto fare altrettanto nel corso della prima stagione e forse è stato un errore non farlo, nonostante risulti plausibile che solo un corpo paramilitare che ha occasione di visitare in forze una struttura abbandonata possa incappare nelle spore e avere qualcuno che sia in grado di raccontare questa storia (via radio), considerando in quanto poco tempo riesce a sopraffare l’ospite esposto al contagio.

La contestualizzazione e il meccanismo sono passati bene e penso mettano una buona pezza all’assenza delle spore nella prima stagione. 

 

La puntata 5 di The Last of Us stagione 2 ha una discreta carica drammatica nell’introdurre questo elemento, esattamente come avvenuto in passato nel dare allo spettatore dinamiche relative all’infezione ma, al tempo stesso, offre un assist al racconto principale.

Ellie che insegue Nora nel B2, il secondo piano interrato pieno di funghi nel quale scopriamo il team infetto che, con un design fichissimo, viene messo in scena come veicolo di diffusione che respira e diffonde spore, ha una forte carica emotiva. 

 

Lo stupore di Nora nello scoprire che Ellie non era una leggenda è di buon impatto; al tempo stesso la rabbia di Ellie che la porta a torturare Nora apre una nuova fase del personaggio.

Come già detto, Ellie non è Joel. 

Per quanto ne riproduca qui e là alcuni insegnamenti o cose che gli ha visto fare, non ha lo stomaco per torturare qualcuno fino a farlo parlare. 

 

Nell’ultimo episodio di The Last of Us vediamo una Ellie sotto shock che dice a Dina “I made her talk” ["L'ho fatta parlare"].

 

Ellie ha torturato il suo obiettivo estorcendo un paio di indizi sulla posizione di Abby ma, soprattutto, piuttosto che uccidere Nora e esercitare una forma di pietà, decide di lasciare il suo destino all’infezione.

La scelta di Ellie è molto forte e per certi versi anche crudele.

La serie sottolinea ancora una volta la differenza sostanziale tra una ragazzina e le scelte figlie di un uomo maturo: Ellie, per quanto arrabbiata, non ha la forza di portare sulle spalle il peso di azioni così efferate e a sangue freddo, così come non ha la risolutezza di Marlene, la Luce di stagione uno, che la addormenta in ospedale senza davvero farle comprendere cosa sta per fare per trovare una cura e che non si sveglierà mai più.

Un approccio che è perfettamente coerente con tutto quello che ci è stato raccontato su Ellie e Dina. 

 

In questo frangente ci sono diversi cambiamenti rispetto al gioco di The Last of Us, soprattutto quando andiamo all’acquario, dove la dinamica della morte di Mel (incinta) è molto più traumatica per Ellie. Nel videogame è una questione di autodifesa, anche se la scena è molto ingenua: Owen e Mel attaccano Ellie uno alla volta, come si conviene tra gentiluomini e gentildonne. 

 

Nella serie di The Last of Us Ellie li prende alle spalle e usando la pistola di Joel (dal calibro importante e che ci viene ricordato poco prima) spara a Owen poco prima che questo le punti la pistola.

Il colpo passa la gola del ragazzo da parte a parte e ferisce mortalmente Mel che, per lo shock, blatera istruzioni sempre più incoerenti e confuse. Mel non ha mai voluto portare avanti la vendetta di Abby e stava per dare a Ellie la posizione della ragazza.

Ellie probabilmente non l’avrebbe mai uccisa e sapendo della gravidanza di Dina la sua empatia verso Mel è massima.

La scena per certi versi è molto più tragica, perché porta avanti il tema delle conseguenze, anche collaterali, della violenza e della vendetta: Ellie da falena destinata alla morte per portare nuova vita, diventa invece veicolo di morte. 

 

 

In The Last of Us stagione 2 tante differenze sono sottili, mentre altre più marcate ma, a mio modo di vedere, trovo abbiano tutte un senso nell’economia di quello che è il medium di riferimento e come servano l’idea di mantenere le moralità dei personaggi intatte.

A questo punto del racconto Ellie si è esposta a sensazioni molto ruvide e lo spettatore sta capendo quali estreme conseguenze si possono raggiungere e come ragione e torto si confondono.

La stessa Dina, che nel raccontare la sua backstory sembra molto motivata a vendicare Joel, si chiude a riccio nel momento in cui Ellie crolla e condivide le motivazioni di vendetta di Abby e quello che ha fatto Joel all’ospedale.

 

C’è una sorta di fallout emotivo che spegne tutti i personaggi e che si riaccendono solo con l’arrivo di Abby, perché le conseguenze della vendetta non sono di certo finite qui e ancora molto va discusso. 

 

 

[Owen e Mel in The Last of Us stagione 2]

 

 

The Last of Us stagione 2

 

Ora che ho offerto la mia disamina, ci tengo a reiterare quanto sia legittimo e condivisibile preferire la storia raccontata nel videogame rispetto a quella della serie.

 

Io stesso porterò nel cuore The Last of Us Parte II come una delle migliori esperienze videoludiche di sempre, mentre la serie sarà qualcosa di molto relativo e secondario.

D’altronde i videogiochi mettono il fruitore al centro degli eventi, facendo qualcosa di impossibile da replicare per altri mezzi, esattamente come un film fa qualcosa che un libro non potrà mai fare e viceversa.

Il mio è un invito a riflettere su quanto siano diversi i due media e come, andando avanti, il Cinema e la televisione saranno in estrema difficoltà nel rendere interessanti gli adattamenti.

 

Spesso quello che rende nuovo, avvincente e coinvolgente una storia è proprio basato su elementi di storytelling che, in altri mezzi, non esistono. 

 

Credo anche che The Last of Us sia vittima delle solite aspettative mal riposte che gravano sulle spalle della serie, tra chi si aspettava una seconda stagione emotiva tanto quanto la prima e chi desiderava, in modo del tutto irrealistico, una grigia e sanguinosa storia di vendetta che ricorda più una sessione di gameplay (o Rambo) che un racconto maturo. 

Penso non si possa davvero mettere videogioco e serie a confronto su cosa sia meglio o peggio e, come tutte le cose, vanno criticate e osservate per quello che fanno nel loro spazio di appartenenza, perché un "brutto" adattamento è tale non solo se tradisce enormemente il materiale di partenza e diventa irriconoscibile - e non è questo il caso - ma anche quando non funziona come Cinema o televisione - e non è nemmeno questo caso. 

 

Gli adattamenti servono per i fan dell’opera e per arrivare a un nuovo pubblico e, come può essere dimostrato semplicemente parlando a chiunque non ha giocato l’opera, The Last of Us stagione 2 sta funzionando con gli spettatori della serie.

L’unica differenza rispetto alla prima stagione è forse che alcuni giocatori parte del pubblico, un po’ come avveniva prima coi libri, ignorano le gigantesche differenze tra i due media e hanno creato una versione 2.0 di “era meglio il libro!” 

 

Sono convinto questa stagione di The Last of Us sia un buon adattamento dell’opera di Naughty Dog che conferma la qualità di scrittura e messa in scena delle serie HBO e credo anche stia pagando, oltre alle sopracitate idiosincrasie, sia la volontà di dividersi in atti seriali (più che in stagioni quasi a sé stanti) sia quel che comporta essere pop oggi, ovvero: essere oggetto di engagement a ogni costo, da trattare con estrema superficialità. 

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