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Twin Peaks: The Return - Come David Lynch ha cambiato, ancora, la TV

Parlare di Twin Peaks: The Return è forse una delle imprese più complesse di questo momento storico eppure si rende necessario al fine di spiegare perché dovreste vederlo e rivederlo.

Int. Giorno.

Salotto di Alessandro  

 

Siamo in un flashback: Alessandro è bambino, quattro anni circa. 

Il salotto è spoglio, illuminato da una lampada dal lungo gambo che emette una luce giallognola.

 

Vestito in un pacchianissimo pile anni '90, Alessandro gioca in ginocchio su un pavimento dalla fantasia bianca e nera, come macchie di un dalmata o la ghiaia di un sentiero di campagna.

Suo padre siede su una grossa poltrona di vimini imbottita, ipnotizzato dallo schermo della televisione a tubo catodico. 

 

Alessandro non sembra particolarmente attratto dalla scatola in 4:3, impegnato a spingere una macchinina di metallo, riproduzione della Batmobile del famigerato film di Tim Burton, sulle piastrelle, quando senza preavviso le note di un tema cupo e misterioso irrompono nella sua testa, attingendo agli strati più reconditi del suo subconscio.

 

La scritta Twin Peaks, scontornata di un verde acceso, capeggia al centro della TV.  

 

La camera si avvicina in un unico fluido movimento verso il volto del bambino e si ferma in un primissimo piano sull’espressione sconcerta e stupita.

Terminata la sigla, stacchiamo a nero.  

 

STACCO. 

 

 



Era qualche tempo che non introducevo un pezzo de Il Divano di Ale con una pseudo-pagina di sceneggiatura, descrivendo qualcosa che collegasse indissolubilmente l’argomento del pezzo al redattore impegnato nella sua stesura.

 

Eppure siamo sulle pagine di CineFacts.it, il cui fondatore, il nostro mitico Teo, porta Twin Peaks e il suo creatore David Lynch così tanto nel cuore da essere diventato lui stesso personaggio e luogo di un mito, portale umano della cinefilia, membro onorario del Club Silencio, baluardo, moderatore, creatore, redattore e faro del Cinefactorium, evocabile solo ed esclusivamente guidando lungo una polverosa strada interstatale, alla ricerca del locale sopra un decadente negozio convenienza.

 

Ed è esattamente così che ci siamo conosciuti la prima volta.

E vi posso assicurare che il tempo, quando entri in quella stanza, diventa una variabile aleatoria, si piega e si scompone, perde senso e sostanza, mostrandoti il presente che è il passato e un futuro che è oggi, ieri e quello che verrà domani quando è già stato tre anni fa.  

 

In verità abbiamo parlato di Lynch, ho potuto vedere il sacro cofanetto autografato e conosciuto i due gatti: Ura e Maki.

No: il The Jumping Man, per fortuna, non era presente.

 

Veniamo però al dunque.  

 

 



Il 24 febbraio abbiamo celebrato e analizzato Twin Peaks, addentrandoci nei meandri, meramente tecnici, dietro al successo di uno show che ha cambiato per sempre la televisione e la cui onda d’urto si è propagata così a lungo nel tempo da avere un concreto effetto sul mondo della produzione televisiva, oltre un decennio più tardi.

 

Un fenomeno che si verifica molto più spesso di quanto si possa pensare, soprattutto quando si parla di un autore che va a precorrere così ferocemente i tempi.

Anche il cinema, molto spesso, necessita di una storicizzazione per essere compreso a pieno.

 

Potremmo citare Blade Runner, 2001: Odissea nello spazio - flop di botteghino - La Cosa di John Carpenter - altro flop di incassi - e molti altri, più o meno pesanti dal punto di vista autoriale.

 

Sul finire degli anni ‘80, David Lynch era così all’avanguardia da aver anticipato di quasi 20 anni un’intera corrente di autori del grande schermo in TV, mostrando come anche la serialità potesse avere un taglio autoriale e come, a discapito del mezzo, si potesse arrivare a creare intrattenimento alto e addirittura sperimentale.  

 

Quando in quel periodo di gestazione, che val dal 2014 al 2016, David Lynch e Mark Frost prendono a lavorare attivamente sul ritorno di Twin Peaks in televisione, si sta nuovamente scrivendo la Storia del piccolo schermo.  

 

 

 

 

Facciamo quindi le dovute analisi storiche, nonostante l’idea di “analisi storica” faccia un po’ sorridere considerato lo stretto spazio temporale intercorso, ma siamo nel 2019 e non abbiamo certo dato il tempo necessario a un'opera di rottura per essere digerita e metabolizzata, rendendosi altresì indispensabile tentare di decodificare i tempi.

 

Oltretutto, in quanto spostato mentale, sono fermamente convinto che imparare a leggere il presente, con le dovute misure, sia estremamente complesso e, proprio per questa ragione, sia necessario imparare a farlo, poiché è davvero troppo facile, come accade da secoli, scadere nel “viviamo in un’epoca derelitta, maledetta e causeranno la fine del genere umano”.  

 

Gli ultimi 10 anni della televisione sono stati, decisamente, tra i più importanti e significativi mai visti.

 

Finalmente il medium sembra divenuto maturo abbastanza da aver assorbito la lezione di piccolo schermo autoriale impartita da Lynch, cominciando a sfruttare gli spazi e le possibilità che un racconto di stampo episodico può offrire, facendo degli ampi respiri una forza e non un limite sovrano al quale sottostare.

 

Parliamoci chiaramente: se Breaking Bad ha avuto, seppur a lento rilascio, un impatto generazionale, è stato proprio grazie alla decisione di non sottostimare l’audience, liberandosi di quella spocchia che voleva il piccolo schermo come un mezzo massificato che, in quanto tale, doveva abbassare gli standard produttivi e creativi, al fine di trasmettere esclusivamente un intrattenimento digeribile per… beh, quello che veniva ritenuto uno spettatore pigro, voglioso di distrazioni e stupido.  

 

La serie creata da Vince Gilligan, oltre ad aver imposto al pubblico un taglio autoriale riconoscibile sia nella narrazione che nella messa in scena, ha utilizzato in modo intelligente gli spazi della televisione, prendendo in considerazione la massa come essere pensante, capace di fagocitare anche prodotti complessi, ingaggiandola nell’assimilazione di uno show davanti al quale è davvero difficile rimanere indifferenti.  

 

 

 

 

Quando ero un pischelletto presuntuoso, pruriginoso e ignorante, prima di Breaking Bad, quando si pensava che Lost fosse una serie rivoluzionaria, ero stato capace per caso o per fortuna di comprendere che il futuro del piccolo schermo sarebbe passato per il famoso “quality over quantity”.

 

Insomma: non aveva alcun senso investire un budget, evidentemente inadeguato, lungo una stagione di oltre venti episodi che doveva per necessità mettere in scena terribili filler e svilire la narrazione in tutto e per tutto.

Gli esempi sono stati davvero molteplici.

 

Me ne convinsi appassionandomi alla serie di Dexter, le cui ultime stagioni sono una continua offesa all’intelligenza dello spettatore e alla creatura che dà il nome alla serie, confrontandola con quelle a più ampio respiro, le classiche, quali Smallville o la sopracitata Lost.  

 

Quando fui investito da Breaking Bad compresi che avevo avuto ragione, che quella era la vera rivoluzione che stavamo aspettando e che Vince Gilligan aveva davvero compreso come sfruttare il piccolo schermo per mettere in scena una situazione fatta di personaggi complessi e sfaccettati, capaci di evolversi nel corso di uno storytelling il cui punto d’arrivo è chiaro tanto quanto il punto d’inizio.

 

Breaking Bad si espandeva attraverso le vibrazioni armoniche di un film di Quentin Tarantino o Martin Scorsese e, guardandolo, non si aveva mai la sensazione di girare a vuoto, assistendo piuttosto allo spettacolo di una palla che ruota sempre più rapidamente verso un villaggio a valle.

 

Quella serie, oltretutto, era così strutturata nel linguaggio da necessitare più visioni.  

 

Ce ne furono molte altre, successive quanto contemporanee, quali True Detective, Game of Thrones, The Shield, Sons of Anarchy, The Wire, Mad Men, Boardwalk Empire, arrivando ad accrescere la coscienza dell’utilizzo del mezzo da far nascere esperimenti di successo quali BoJack Horseman, Black Mirror o Sherlock.  

 

La televisione è diventata estremamente più sofisticata di quanto non lo sia mai stata prima d’ora, diventando quasi cinematografica, fino al punto da arrivare a debuttare al cinema: lo ha fatto Gomorra, come il sopracitato Sherlock e non vi sto a ricordare come l’idea iniziale di Mulholland Drive fosse quella di girare un film, da mandare al cinema, che facesse da pilot per la serie.  

 

In questo panorama, ora conosciuto come Primavera delle Serie TV, si stagliano anche mostri incapaci di leggere il tempo e alla ricerca di formule falso-autoriali, proprio come accadeva al cinema, al fine di riprodurre in serie anche il successo di tali prodotti.  

 

Non ha funzionato e il sistema produttivo è impazzito, buttandosi in operazioni commerciali di un pubblico di massa sempre più spaventato dal nuovo, soffocato dalle molteplici offerte, riscopertosi conservatore e fondamentalmente nostalgico di un passato molto confortante.

 

Se avete letto il precedente articolo, state capendo dove si vuole andare a parare e la parola che stiamo tutti cercando è: Revival.  

 

 



La nostalgia ha preso a correre, e diverse serie revival e remake - comprese soap come Dallas e Dynasty - sono state messe in lavorazione ri-portando in TV le Gilmore Girls di Amy Sherman-Palladino, X-Files, Will & Grace, Pappa e Ciccia, Prison Break, MacGyver, Supercar e molte altre.  

 

La televisione sembrava tornata al suo primo prodotto, mettendo in scena in molti casi la stessa identica televisione che il pubblico aveva spento molti anni prima.

 

Will & Grace, come Pappa e Ciccia, era praticamente la medesima sit-com.

E operazioni nuove ma vecchie, come The Last Man Standing di Tim Allen, stavano riproponendo format televisivi ormai obsoleti ma, ripeto, confortanti.  

 

La televisione americana, anche grazie a show divenuti parodia di se stessi, come Grey’s Anatomy o The Walking Dead (le nuove soap opera), per buona parte sembra aver intercettato la voglia del pubblico di farsi coccolare, di assorbire puro intrattenimento, che molte volte io stesso cerco e gradisco: leggero, disimpegnato, quel Horsing Around che BoJack Horseman guarda ciclicamente un po’ per egocentrismo e un po’ per paura del presente.  

 

Si usa dire che, prima o poi, anche uno scoiattolo cieco trova una ghianda, ed è questo il caso di Showtime: un network non proprio di Serie A, seppur di buona rilevanza, che affrontando vicissitudini tipiche di una rete poco avvezza a trattare con un autore riesce a mettere in produzione quello che venne pubblicizzato come il revival di Twin Peaks.  

 

La creatura di David Lynch e Mark Frost, quella che era stata assassinata senza troppe cerimonie da ABC, stava tornando, realizzando la profezia sibillina di Laura Palmer - mancata di un anno solo ed esclusivamente per via di problemi creati dal network, ma non è questa la sede di discussione.       

 

Cosa rende quindi Twin Peaks: The Return, un nuovo capitolo della serialità in TV?  

 

 

 


Come abbiamo esplorato, in breve, la televisione è finalmente cresciuta, maturata, giunta a una nuova evoluzione, eppure molto spesso, o forse sarebbe interessante dire "raramente", arriva al pubblico con un taglio autoriale riconoscibile.

 

Quel segno capace di scardinare regole e strutture, attirando l’interesse dello spettatore.

Tre casi in particolare sono già stati citati: il Breaking Bad di Gilligan; il True Detective di Nic Pizzolatto e Cary Fukunaga; BoJack Horseman di Raphael Bob-Waksberg.  

 

David Lynch, coadiuvato da Frost, spende mesi a stilare, via lunghe chiamate Skype, una sceneggiatura che nessuno avrebbe mai pensato di leggere, figlia dell’evoluzione dello studio di linguaggio che i due autori americani hanno compiuto nel corso della loro carriera.

 

Se Frost si è dedicato totalmente alla scrittura, diventando un romanziere di successo e abbandonando quindi la struttura per immagini, Lynch ha spostato la sua poetica verso il racconto per sensazioni, lasciando pendere la bilancia sempre più verso le visioni che avevano generato Eraserhead, sfiorato Twin Peaks e che hanno trovato sfogo in Fuoco Cammina con Me e maturazione in Strade Perdute, Mulholland Drive e INLAND EMPIRE.

 

Lynch e Frost scrivono, in buona sostanza, una sceneggiatura che è un unico racconto lungo 18 episodi, quello che Lynch definirà e continua a definire "il Twin Peaks di 18 ore".

 

Questa struttura con il senno di poi è piuttosto palese ma, con la sensazione del momento, lascia completamente spiazzato lo spettatore che, ammaliato dall’esordio delle prime due parti, avverte una certa confusione nel ritrovare di settimana in settimana le parti di The Return.  

 

Sembra inutile sottolineare come non si sia parlato di episodi ma di “parti”.

Questo per rimarcare, per volere dell’autore, l’intenzione dichiarata a monte e quindi l’aver girato un Twin Peaks che è un unico lungo racconto di 18 ore e non una serie a episodi.  

 

Così facendo, Lynch spezza la struttura e va all’osso della narrazione, tagliando dialoghi di raccordo, semplificazioni, riassunti, e affidando lo spettatore al tessuto di una storia che è un libro, che è un lungo film e che in quanto tale funziona per indizi visivi e sonori e non attraverso dialoghi a spiegare quello che le immagini veicolano - o forse per certe produzioni sarebbe meglio dire “dovrebbero veicolare” - con chiarezza.  

 

The Return è in effetti sacrificato dalla costrizione a fruizione settimanale e, paradossalmente, si presta molto di più al binge watching e se fruito ad intervalli più brevi - uno, due o tre episodi al giorno - noterete che tutto torna, ha perfettamente senso, e nulla si sfilaccia come fa spesso la serialità quando viene abbattuto il muro del tempo tra gli episodi. 

Parola di un recensore che ha provato l’esperienza sulla propria pelle. 

 

 

 


La scrittura di The Return, così come viene presentata, potrebbe sembrare per nulla innovativa, considerando che in superficie già altri prodotti fanno quanto detto poco sopra.

In verità c’è una sostanziale, quanto fondamentale, differenza: Lynch misura i dialoghi.

 

Viviamo in un momento storico in cui anche la migliore delle produzioni conta un minutaggio elevatissimo di dialoghi, spiegazioni incessanti sull’universo narrativo attraverso confronti tra i personaggi che, per quanto ben scritti, sono pur sempre teatrali, molto forti sul momento ma spesso lasciati all’oblio del passare delle stagioni.

 

I dialoghi di Lynch sono quotidiani, perfettamente credibili e misurati alla bocca dei personaggi che gli danno voce, evitando di ricordare a chi guarda la relazione tra di essi, le loro motivazioni, cosa hanno fatto, cosa stanno facendo e cosa hanno intenzione di fare.

 

Quando in Twin Peaks è necessario descrivere parlano i quadri, i suoni, la messa in scena, la presenza dei personaggi e i loro gesti, portando in primo piano la vera scrittura per il cinema: quella invisibile.  

 

I detective della sezione omicidi parlano del costo di riparazione di un fanale della macchina, si sfidano in scommesse infantili come compagni di liceo, hanno delle pance nutrite da una vita tutto sommato non proprio spericolata e non si mettono a riflettere sul significato del genere umano.

 

Non è il loro ruolo e quando qualcosa è fottutamente strano, beh: dicono che è fottutamente strano.

 

Quello che è quotidiano - seppur affiancato da un qualcosa di orribile, altrettanto reale e crudele - divenendo di per sé una componente più fantastica e motivo di mistero e intrigo, è leggero, carico di una verve comica intrinseca ai personaggi e al loro essere comuni, sbadati, sereni.  


Un po' come quando nella prima stagione si insisteva sulle tavolate piene di ciambelle e tazze di caffè bollente.

 

Lynch, in pieno controllo della sua creatura e armato di una nuova coscienza narrativa, non ha nessuna intenzione di cullare il suo spettatore o men che meno di mentirgli.

Twin Peaks era una serie TV della fine degli anni '80, mentre The Returns è una serie del presente, prodotta nel 2016, che non ha nessuna intenzione di riproporre la medesima struttura narrativa e di messa in scena di 25 anni addietro.  

 

L'autore allarga gli orizzonti del suo racconto e si muove tra Las Vegas e Twin Peaks, espandendo il respiro di un racconto che ci deve lasciare spiazzati, poiché che ci piaccia o no sono passati 25 anni e il mondo è cambiato e noi, in quell’universo, siamo estranei e sperduti tanto quanto l’Agente Speciale Dale Cooper.  

 

 

 


David Lynch ci porta in una Twin Peaks rurale molto più dolente, quasi crudele, dove anche la cittadina al confine con il Canada ha subito una certa urbanizzazione e dove il male, quello che prima era tenuto a bada dai Bookhouse Boys, sembra aver preso piede.  

 

I luoghi del racconto sono invecchiati e altri si sono rinnovati, come il Double R di Norma divenuto un po’ più franchise, dove la stazione di Big Ed rappresenta quasi un’istituzione decadente di un'epoca verso il tramonto, dove il dottor Jacoby è definitivamente impazzito e, con una modernità rara per un autore di 70 anni come Lynch, diventa un folle divulgatore dell’etere, one man show di una propaganda rabbiosa contro una società che ha un po’ voltato le spalle a quella naturalezza e ingenuità di Twin Peaks - un arrabbiato di Internet, che vende pale per scavarsi una via di fuga dalla merda.  

 

Il male in un certo senso ha vinto e Cooper, risvegliatosi dopo 25 anni di prigionia nella Red Room, diventa un surreale Odisseo in fuga verso casa, cercando di rientrare nel corpo che BOB gli ha rubato un quarto di secolo addietro.  

 

Nel fare tutto questo, Lynch usa quello che è la sua poetica, mescolandola a quella di Twin Peaks, introducendo situazioni e personaggi nuovi che, come in passato, diventano quasi incredibilmente tutti funzionali all’incedere degli eventi.  

 

Lynch non butta via una scena, non spreca un dialogo, non perde occasione di far parlare la sua messa in scena e i suoi temi attraverso le maschere lasciate in sospeso dalla serie originale, rinnovandole e rispettandone il totem, mescolandole con nuovi caratteri e iconografie.

 

Le maschere di Twin Peaks calzano all’umore della storia e, se taluni sono romantici, altri sono schiavi della loro stessa follia come Jerry Horne, taluni sono preda di oscure presenze come Sara Palmer o Audrey Horne, e altri rispecchiano la ferocia del presente e come si siano evoluti gli istinti oscuri delle nuove Laura Palmer. 

Lynch potrebbe sembrare un moralista quando invece è semplicemente un artista, ovvero un uomo che usa le sue storie per descrivere la percezione del mondo che lo circonda e come l’uomo stia cercando di viverci dentro.  

 

Gli spunti sono quasi infiniti e le idee visive non si contano e si aprono a molteplici interpretazioni.

 

The Return passa dalle visioni astratte dei luoghi di Cooper, dai doppelgänger alle incursioni della noir loggia bianca, dallo spirito pulp dei due assassini interpretati da Jennifer Jason Leigh e Tim Roth allo spirito puramente horror delle manifestazioni dei membri della loggia nera, per approdare infine a elementi ironici, comici e a vere e proprie chicche per lo spettatore, come la comparsata di David Duchovny nei panni di Denise Bryson.

 

Lynch invade lo schermo con sezioni oniriche, improvvisa scene, gira quadri scanzonati come la scena di sesso tra Dougie e Janey-E o il trenino a ritmo sincopato negli uffici della Lucky 7 e diventa incredibilmente dolce e crudo utilizzando il personaggio di Harry Dean Stanton.    

 

 



Lynch rende il suo Twin Peaks ancora più bipolare rispetto alla serie originale e le parti ironiche, molto sopra le righe, acquistano una valenza splendidamente assurda tanto quanto le scene più oniriche ed oscure.

 

Si potrebbe citare il cameo di Michael Cera, figlio di Lucy ed Andy, che veste i panni di Wally Brando, una sorta di improbabile caricatura de Il Selvaggio di Marlon Brando, oppure la figura splendida dei Mitchum Brothers, con il loro seguito di vallette svampite.

 

Eppure il vero colpo di genio sta nel mettere come protagonista assoluto di una buona parte della serie Dougie Jones, il doppelganger “trappola” creato da BOB nel quale Dale Cooper rimane imbrigliato, dando vita a un personaggio memorabile, oltremodo goffo, eppure sospinto dal lato bianco dell’universo, aiutato dal caso e reso eroe incosciente di una storia tremendamente seria.

 

Una maschera che Lynch rende quasi tragicomica, come il protagonista di un film muto, incapace di comunicare, spinto dai suoi istinti più ingenui eppure presente, lucido quando il suo sguardo si ferma su Sonny Jim, il figlio che Dougie, quasi rubando inconsapevolmente la vita a Cooper, ha con Janey-E.  

 

Nella serie Lynch fa qualcosa di assurdo e controintuitivo, mostrando una Twin Peaks cambiata e dolente, piena di personaggi pesti eppure felici nella loro melanconia, intrappola l’Agente Cooper ricordato dal pubblico, porta un BOB risoluto e presente e trasforma Gordon Cole nel protagonista delle indagini insieme a Diane, un personaggio presente, seppur mai messo in scena, della prima serie.  

 

David Lynch, in un progetto che sulla carta sembra un suicidio mediatico, demolisce con una grazia insospettabile ogni preconcetto che lo spettatore si era fatto guardando i teaser trailer di The Return e tenendosi negli occhi quell’ultima puntata che aveva tanto lasciato il segno 26 anni prima.

 

La cultura dell’hype viene messa in ginocchio e Lynch si prende i suoi tempi per arrivare a dare allo spettatore ciò che avrebbe voluto fin da subito, scavando nella mitologia della serie, ed esplodendo in un finale che è croce e delizia per un pubblico assuefatto a una televisione, e un cinema, così didascalici da andare comunque a cercare ulteriori semplificazioni sulla rete.  

 

 



Fin da subito, guardando le prime due parti, si capisce quale passo Lynch adotta per mettere in scena e raccontare la propria storia.

 

The Return è lo show più cinematografico che possiate trovare in televisione e quello con il più forte impatto autoriale, dove ogni sequenza è frutto di una scelta, studiata e sviluppata nella logica del regista che l’ha scritta e girata.  

 

Lynch sembra voler mettere in un angolo lo spettatore che non aveva gradito Fuoco Cammina con Me, usando quel film come base di quella che sarebbe dovuta essere la sua Twin Peaks: uno spettacolo televisivo che ha poco a che fare con le deformazioni dell’ingerenza di ABC e che porta la sua poetica in ogni frammento della storia.  

 

La messa in scena è quella dei lavori più recenti di Lynch e parla per frame, sfrutta le sensazioni sottopelle, cerca una costruzione che sia funzionale alla narrazione della storia e non opzionale.

 

Molte serie TV, così come molti film, hanno il bruttissimo difetto di spiegare attraverso i dialoghi quello che sta per succedere o che è successo, demolendo completamente l’impatto sul pubblico.  

 

Lynch, usando il linguaggio del cinema, con la Parte 8 identificata come “Gotta Light?” porta in televisione un cinema d’avanguardia dove le origini di BOB, nonché della famigerata Judy già citata in Fuoco Cammina con Me, godono di uno spettacolo visivo lungo quasi un’ora.

 

Nella Parte 8 il regista usa un bianco e nero stupendo, usa le immagini, il montaggio, il sound design curato da lui stesso lungo tutta la serie, e si avvale di quella capacità unica di trasmettere un senso di strana tensione e disagio.

 

Nulla come la Parte 8 ha mai ossessionato e infestato i miei pensieri.

Nulla, nel 2019 o prima, ha quella pulizia, quella potenza visiva e iconica, creando un personaggio e un tormentone che hanno immediatamente polarizzato l’attenzione del pubblico.  

 

“This is the water and this is the well.

Drink full and descend.

The horse is the white of the eyes and dark within.”  

 

Parte 8 è un incubo a onde elettromagnetiche, espressione del male in quanto entità parte di natura che governa, insieme al bene, l’universo.

 

 

Che si diffonde nel mondo grazie alle forze oscure messe in gioco dall’animo umano, all’esplosione nucleare che per Lynch è forse il segno di demarcazione che identifica la fine dall’America dei prati perfetti, delle staccionate bianche e del rock'n'roll, e l’inizio di quella società degli orecchi mozzati nei prati, dei club blues, delle dark lady, di malattia e di doppio, entità naturali e motivo d’interesse, ambiente o crociata da combattere, per i suoi protagonisti.  

 

 

 

 

Parte 8 è quanto ogni autore del cinema ha sempre tenuto lontano dalla TV perché pensava non fosse il posto per l’espressione artistica, svilendo la figura dello spettatore di massa che, paradossalmente, vorrebbe attirare al cinema svilendo anche quest’ultimo; un errore che un Maestro come Mario Bava non ha mai fatto, portando le luci e le forme espressive dell’arte pop moderna nel suo cinema e questo, in buona sostanza, fa Lynch.

 

Gotta Light?!” ha la potenza della memorabilità, fa terrore psicologico e fisico, fa sentire il cranio che si spezza sotto le dita di quel Woodsman dalla faccia nera, facendo scorrere il sangue come non si era mai visto in televisione e dandogli un senso lontano dal torture porn alla Hostel e più vicino all’idea di una paura atavica, quella proiettata dentro lo spettatore attraverso quel mesmerizzante loop recitato alla radio, un animale oscuro e viscido che entra nella bocca di una bambina condotta all’oblio da una ninna nanna psicotica e la notte buia di un deserto vasto ed improvvisamente elettrico.

 

Lynch ha portato in televisione una forma horrorifica che mancava, lasciando a casa i fantasmi della ragione e lo zombie romeriano svilito dalle mode a lui nemiche, sfogando il prurito della paura psicologica e della carne, attraverso l’espressionismo di una storia che non ha bisogno di parole se non quelle sussurrate.

 

E con le immagini, il fumo e i quadri costruiti con la regia e la fotografia, ci porta dentro il fungo atomico, portale per il male da nascondere al secondo piano di un negozio convenienza abbandonato.  

 

 

 

 

The Return è il nuovo metro per la televisione del futuro.

 

Capace di lasciare una narrazione inquadrata alle sue spalle, evolvendosi in una vera e propria estensione di un unico racconto, dove i mezzi del cinema entrano nel piccolo schermo, ricordando a tutti che non stiamo più trasmettendo su un televisore a tubo catodico a 4:3 e che il pubblico può essere ingaggiato e non addormentato dalla dipendenza per uno show fruibile solo ed esclusivamente attraverso una visione veloce e compulsiva, a cancellare il vuoto che lascia al suo passaggio. 

 

Girando ogni singola parte della serie Lynch ha occasione di inquadrare tutto attraverso le mescolanze tipiche dei suoi film e, rispettando ritmi serrati a toccare quasi le 18 ore lavorative al giorno, mette in scena come farebbe al cinema e, quasi tornando ai suoi studi artistici nell’allora decadente Philadelphia, rispetta quel saggio modo di dire secondo il quale “ogni inquadratura è un quadro” (Every frame is a painting).

 

In The Return la notte è buia come quella di Strade Perdute, il bianco e nero è pece e grazia di grigi e bianchi come in Elephant Man ed Eraserhead, il colore è smeraldo nel raffigurare le foreste di Twin Peaks, ocra e ruggine quando inquadra il deserto alla Cuore Selvaggio, fluo quando si fa atmosfera da Velluto Blu, quotidiano quando racconta Una Storia Vera e luce quando descrive la California e il mondo un po’ comico e scanzonato di produzioni che probabilmente non vedremo mai, come Ronnie Rocket o Antelope Don't Run No More - due sceneggiature mai realizzate.

 

Immagini angeliche, come quelle della ballerina di Eraserhead, diventano soluzione e bilanciamento al senso di oppressione e gore che le esplosioni di terrore e violenza della loggia nera portano in The Return, materializzandosi nell’incursione nella loggia bianca e in una foresta di giada dove la presenza spirituale di Hawk, il candore di Andy, l’eredità del Maggiore Briggs e i segreti dei boschi pacifici di Twin Peaks, portano con sé una solenne profezia.  

 

In una televisione sempre più falsamente autoriale, dove i personaggi non parlano quasi mai per azioni e la storia passa per immagini che sempre più simili tra loro e spesso posticce, Lynch, un regista 70enne, usa immagini e suono, facendo di loro indizi fondamentali a comprendere la trama.

 

In qualche occasione ci si trova a ricorrere al fermo immagine per capire se quel fotogramma a schermo è stata una visione oppure un suggerimento di chi racconta la storia: un riflesso in una vetrina, un rumore ricorrente, un volto nascosto dietro una maschera sfocata, un frame in una stanza bianca, due occhi lucenti nel buio di una foresta nascosti al centro dello schermo.

 

Una scena apparentemente statica come quella di Jean-Michel Renault, pigramente appollaiato dietro il bancone del Roadhouse, assume un suo momentum, l’oscillare di un pendolo che nell’arco di circa tre minuti solleva domande, dà una risposta, crea una parentesi e distrae, comunicando più di quanto avrebbero mai potuto fare una serie interminabile di battute tra lo scorbutico bartender e il ragazzo con la scopa. 

 

E di scene in superficie innocue si nutre tutta la serie, mostrandoci i deliri, silenziosi e sobdoli, di Sarah Palmer o riprendendo in una formula che ritorna alle fusioni lynchiane uomo-macchina di stampo industriale, Philip Jeffries, storico ed enigmatico personaggio di Fuoco Cammina con Me, qui chiave e figura metafisica. 

Con il benestare di David Bowie che non ha potuto dargli voce. 

 

 

 


The Return, così facendo, sedimenta nel corpo, si nutre di misteri lasciati volutamente all’attenzione dello spettatore, un dipinto avvolgente, come le Ninfee e Nuvole di Monet, a trascinare l’audience in una sfera di intimità tra storia e fruitore, trovando senso e corpo quando quest’ultimo è disposto a sedersi e chiudersi nell’immagine.  

 

Lynch non lascia nulla al caso e, in quanto appassionato musicista e produttore, arriva ad evolvere anche l’utilizzo che viene fatto della musica in televisione - per chi non lo sapesse, Lynch non ha solo pubblicato dei suoi album, ma ha anche collaborato con Danger Mouse e Roy Orbison.

 

Nei primi anni 2000 serie come Smallville hanno tempestato e infarcito di canzoni pop del momento le loro produzioni.

A volte con tanta insistenza da chiedermi quanto fosse necessario, estremamente distratto dalla radio di una caffetteria indie a tenere alta l’attenzione in una storia di per sé estremamente ipercinetica.  

 

Lynch a questo discorso non ci sta: in The Returns contestualizza e, rinnovando il Roadhouse, costruisce una sorta di punto di respiro per chiosare alcune delle sue parti e raccontare maschere ed eventi, facendo del locale un live bar dove artisti come Lissie, Eddie Vedder e Nine Inch Nails si esibiscono sul palco, a volte anche senza troppo rumore - come un Moby in secondo piano che suona la chitarra per Rebekah Del Rio.

 

Ogni esibizione ha un senso, una ragione scenica, diventa cornice per un momento intimo dentro una storia il cui incedere non dimentica mai i personaggi, culminando, a mio parere, con la Out of Sand di Edward Louis Severson - aka Eddie Vedder - scritta appositamente per lo show: ballata oscura il cui testo, se avete voglia di ascoltare, è descrizione dell’odissea di Dale Cooper e della sua coraggiosa crociata contro il male.

 

“Now it's gone, gone

 And I am who I am

 Who I was I will never come again

 Running out of sand”.  

 

 

 


Lynch in The Return ha modo di dare sfogo completo al suo riflesso spirituale, alle dicotomie di stampo puramente orientale che secondo lui governano questa esistenza, inscenando una battaglia, forse, senza soluzione di continuità.

 

L’autore non ha mai fatto mistero di come Twin Peaks, in un certo qual modo, sia tra tutte le sue creazioni quella che gradisce di più, la parabola immaginifica nella quale si trova più a suo agio, descrizione dei suoi luoghi di origine e delle sue credenze.

 

I temi del doppio, del male e del bene, della ciclicità degli eventi, di malattia e luce, sono espressi con grande fantasia e semplicità attraverso Twin Peaks e Lynch non manca di mettere in scena quella commistione di generi che troviamo quasi sempre nei suoi lavori e che qui si fa palese nella cura profusa nel risolvere Norma e Big Ed, nel dare a Cooper una sua potenza eroica dolente e da boy scout, nel descrivere l'incorreggibile Shelly Johnson, nella trasformazione di Bobby Briggs, nel descrivere la romantica fragilità di James Hurley, nella solenne presenza di Hawk e la pura spensieratezza di Lucy e Andy, conferendo a loro come alla Signora Ceppo una forza scenica enorme.

 

Catherine Coulson, un personaggio che doveva essere marginale per la serie, regala al pubblico e al mondo della televisione una delle perfomance più dolorose e genuine di sempre.

 

L’ultima performance, cercata dall’attrice con forza anche contro i pareri dei medici, esibendosi in quella serie di chiamate con Hawk ed il cui ultimo messaggio ha una scossa emotiva commovente e melanconica. 

Catherine Coulson verrà a mancare pochi giorni dopo aver girato quelle scene.  

 

La componente emotiva è decisamente centrale in The Return e Lynch, contro la corrente della televisione della nostalgia e negazionista del presente, trova una potenza unica nel dare una certa tristezza dolente alla riscoperta dei personaggi e facendo del tempo una costante parte del dramma.

 

The Return rende i protagonisti storici un po’ più fragili, esposti alle intemperie, e fa patire il suo Odisseo in abito nero culminando in un finale che, facendo meta televisione, porta il racconto fuori dalla finzione, spostandolo in uno spazio che potrebbe essere il nostro, guardando alla vera casa di Laura Palmer e alla sua vera proprietaria - no: non è un’attrice - come a una soluzione senza ritorno per un eroe rassegnato all’assenza di un happy ending.  

 

Andare oltre nell’analisi di Twin Peaks: The Return richiederebbe forse gli spazi di un libro, di uno studio da praticare in ritiro monastico e non è per nulla facile spiegare cosa rende questo The Return il nuovo baluardo della televisione contemporanea e, a questo punto, di quella futura.  

 

David Lynch ha scritto, diretto e curato maniacalmente in post produzione uno show che ha portato realmente in televisione tutti quei valori che il cinema sempre più difficilmente porta sullo schermo, facendo invece quello che fa la televisione peggiore, quella che lui ha voluto buttare giù sul finire degli anni '80, ovvero intrattenimento massificato.

 

Nessun altro show ha questa ricerca visiva nella messa in scena, nessun altro show ha una scrittura così dritta nei suoi intenti e così ben eseguita e mai inutilmente intricata da dialoghi e ragionamenti vuoti, nessun altro show usa così bene lo spazio della serialità raccontando una storia divisa in parti senza ricordare allo spettatore di star assistendo a uno sceneggiato per la televisione.

 

Nessun altro show ha fatto horror così bene e nessun altro show ha creato così tanti miti nel mito, celebrando anche se stesso con un vero seguito e non una messa in scena aggiornata di un more of the same.  

 

 



Twin Peaks: The Return ha il pregio di aver trasformato, per la prima volta dai tempi di Orson Welles, un grande regista in un attore fondamentale per il mezzo nel quale si esprime, consegnando Gordon Cole alla storia e dimostrando nuovamente il valore di un’attrice stupenda quale Laura Dern, in uno dei caratteri femminili più noir e psicotici del piccolo schermo.    

 

Il serial riesce dove ogni altra operazione revival e nostalgia fallisce e spostandosi nel tempo, per davvero, viaggia verso un presente che forse per Lynch è tecnicamente entusiastico, mettendo a frutto tutta quella evoluzione digitale che molti rinnegano e criticano, usando un suo racconto come fu con il mai troppo ricordato INLAND EMPIRE, al fine di dimostrare come l’evoluzione tecnologica e i mezzi siano limitati e limitanti solo per chi non ha capacità di sfruttarli al servizio dello storytelling cinematografico. 

 

The Return, come ha dimostrato la prima al Festival di Cannes e le tante comparsate entusiastiche di Lynch, sempre impegnato a pubblicizzare lo sforzo profuso nella post produzione del sonoro, è incredibilmente valido anche sul grande schermo e, come dichiarato, un vero e proprio Twin Peaks di 18 ore.      

 

Twin Peaks: The Return ha l’incredibile pregio di comunicare con lo spettatore attraverso molteplici livelli, di usare il cinema nella sua accezione più pura, piegando le regole del mezzo televisivo e della serialità, rinfrescando temi e stilemi, sputando ancora una volta sull’idea di rassicurare il pubblico e obbligandolo a fruire di un prodotto rinnovato e così folle da finire con un urlo.

 

Un'esplosione di scrittura e messa in scena dove dopo una lunga attesa potrebbe aver prevalso l’incubo, lasciando lo spettatore aperto alla non-spiegazione delle cose e togliendogli certezze proprio quando sembra averne più bisogno.  

 

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5 commenti

Marco Natale

4 anni fa

Io credo che faccia già scuola. Basti vedere Legion nonostante la prima stagione sia uscita prima di Twin Peaks: The Return. E si perfetto esempio, è esattamente il 2001 della tv, spero che lo capiranno tutti

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Filman

5 anni fa

L'idea di narrazione antipicata/posticipata portata al grande pubblico con l'uso sistematico del cliffhanger è sicuramente un vessillo di cui JJ Abrams è il portatore, senza considerare la quantità spesso sottovalutata di esplorazioni stilistiche sulla serialità che il fondatore della Bad Robot ha condotto nel mondo delle TV, nel loro piccolo tutte presenti in Lost e poi raffinate in altre serie.
Il discorso è generalizzato alla considerazione, per me sbagliata, della nuova (nuova) televisione come invenzione.

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Grazie Lu, molto gentile!
Mangerai un sacco di ciambelle e berrai molto caffè nero, ad ogni compleanno.

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Grazie mille, Alex!
Concordo, credo che ne sentiremo parlare davvero solo tra qualche anno.
Come detto nell'articolo, quando si è nei tempi è sempre difficile riuscire a digerire un prodotto così complesso e che cerca di spostare i gusti e gli stilemi narrativi.

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Il Greco, il tuo commento m'incuriosice parecchio.
Tieni conto che nel mio discorso, prendo in considerazione la nuova tv, per questo una serie come Lost la prendo marginalmente in esame. Anzi, non la prendo proprio in esame, in quanto non parte del panorama piu' recente.
Pero' sono comunque curioso.
Cosa, secondo te, ha creato Lost di rivoluzionario per la tv?

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