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Hildur Guðnadóttir, tra tradizione e sperimentazione

Viaggio nelle musiche della compositrice islandese, vincitrice dell’Oscar per la Migliore Colonna Sonora

Il nome di Hildur Guðnadóttir negli ultimi anni sta prendendo sempre più piede a Hollywood. 

 

Ma chi è la compositrice che ha firmato la colonna sonora di Assassinio a Venezia, ancora nelle sale italiane in questi giorni?

 

Hildur Guðnadóttir nasce in Islanda nel 1982 da genitori musicisti e imbraccia per la prima volta il suo violoncello alla tenera età di quattro anni; il suo percorso musicale si arricchisce ben presto di sperimentazioni e fusioni con l’elettronica. 

 

Comincia a lavorare per il Cinema a fianco di Jóhan Jóhannssonn, per cui suona il violoncello e collabora nelle soundtrack di Arrival (2016) di Denis Villeneuve e Mary Magdalene (2018) di Garth Davis

È del 2018 la prima colonna sonora firmata interamente da lei: Soldado di Stefano Sollima. Da lì va avanti da sola fino al 2020, anno in cui vince l’Oscar per la Migliore Colonna Sonora per Joker, alla prima nomination. 

Successivamente ha lavorato anche alle musiche di Tár (2022) di Todd Field

 

Ma la sua esperienza musicale non si limita al Cinema, perché ci sono da sottolineare le collaborazioni con i Pan Sonic, i Múm, i The Knife, gli Storveit Nix Noltes e altri gruppi d’avanguardia. 

Degna di nota è anche la sua produzione da solista, fra cui ricordo Saman, album del 2014.  

 

L’ultima colonna sonora che porta la sua firma è quella di Assassinio a Venezia, terzo capitolo della saga diretta da Kenneth Branagh basata sui romanzi della celebre Agatha Christie, con protagonista il detective Hercule Poirot.

 

 

[Il trailer di Assassinio a Venezia]

 

 

Dopo Assassinio sull’Orient Express (2017) e Assassinio sul Nilo (2022), l’ultima fatica di Kenneth Branagh assume tinte particolarmente oscure: è un thriller soprannaturale dove il tema della morte apre a forti interrogativi sul dopo, suggerendo un interiore travaglio del protagonista. 

 

Lo spazio in cui si snoda la vicenda non è solo visibile, ma anche interiore/invisibile e l’ambiente del palazzo in cui avviene la vicenda sembra una via di mezzo tra esteriorità e interiorità, naturale e soprannaturale.

 

"Se esistono gli spiriti, esiste l’anima e quindi esiste Dio. E allora abbiamo tutto", spiega Poirot alla medium Joyce Reynolds.

 

Tuttavia in una vita in cui ha visto la crudeltà umana declinata in mille varianti, l'atteggiamento del detective è ormai scettico e privo di speranza.

L’azione avviene interamente all’interno di un palazzo a Venezia, che è molto più di una semplice ambientazione: quell'edificio ha visto tutto e interviene continuamente nella narrazione suggerendo, mostrando, nascondendo, alludendo, osservando. 

 

La musica di Hildur Guðnadóttir rappresenta la sua voce.

 

L’orchestrazione ridotta, cameristica, cupa e intima, vuole rispecchiare l’ambiente claustrofobico in cui avviene l’azione, limitato all'interno del palazzo, a quelle stanze sempre chiuse a chiave e illuminate dagli aloni delle candele che restringono ancora di più lo spazio visibile. La tenue voce del clarinetto o il canto fioco del violoncello si dipanano come sottili fili di fumo in un ambiente sonoro fatto di cigolii, rumori improvvisi e voci lontane reali o immaginarie. 

 

In brani come Haunt o Gondolas le linee tematiche emergono dal nulla, sviluppandosi su intervalli ristretti, note ribattute e melismi, che rievocano le melodie del canto gregoriano. 

 

 

[Il brano Gondolas, tratto dalla colonna sonora di Assassinio a Venezia] 

 

 

In altri brani Hildur Guðnadóttir si serve invece di alcune tecniche estese, ovvero quei metodi esecutivi e compositivi che, "forzando" le tradizionali modalità espressive degli strumenti, ottengono suoni non convenzionali. 

 

È il caso di Alcoven, Seance, St. Louis, dove possiamo sentire l’uso di varie tecniche contemporanee applicate al clarinetto come per esempio i multifonici, sistema attraverso cui vengono prodotte più note contemporaneamente in uno strumento monofonico, il flutter tongue in cui l’esecutore fa vibrare la lingua in modo tale da ottenere un suono simile a “Frrrr”, trilli timbrici o effetto growl, una tecnica di emissione che produce un suono graffiante e ruvido.  

 

 

[Il brano Seance tratto dalla colonna sonora di Assassinio a Venezia]

 

 

In questo modo la musica si fonde con i rumori sinistri del palazzo e le mille voci che lo animano, diventando una di loro. 

 

Nel 2020 Hildur Guðnadóttir ha vinto l’Oscar per la Migliore Colonna Sonora per Joker, terza compositrice donna nella Storia del premio a ottenere questo riconoscimento; prima di lei solo Rachel Portman per Emma nel 1997 e Anne Dudley per Full Monty nel 1998.

 

Fin dall'inizio il regista Todd Phillips aveva deciso per le musiche di Joker che il violoncello avrebbe rappresentato la voce del protagonista Arthur Fleck e si era rivolto a Hildur chiedendole di comporre sulla base delle sensazioni che aveva provato leggendo lo script, prima ancora che iniziassero a girare.

In questo modo veniva investita di una grande responsabilità, in quanto sarebbe stata la sua musica a influenzare la narrazione e non il contrario, come normalmente avviene. 

 

Il suono cupo e graffiante del violoncello, talvolta pieno, talvolta suonato sul ponticello per creare una sonorità più rarefatta, talvolta deformato, rappresenta il grido di Arthur Fleck e il cambiamento che lentamente prende piede nella sua personalità. Il violoncello è dunque protagonista assoluto della colonna sonora, accompagnato in molti brani da percussioni che sostengono la melodia come in una lenta e inesorabile, talvolta quasi tribale, marcia verso la follia. 

 

Contrariamente a quanto potremmo pensare ascoltando le tracce che compongono la soundtrack, Hildur Guðnadóttir non ha fatto ricorso a suoni elettronici. 

 

Tuttavia, per molti brani, la compositrice si è servita dell’Halldorophone (o più semplicemente Dorophone), uno strumento ibrido, elettro-acustico progettato dal designer islandese Halldór Úlfarsson che, facendo uso del feedback positivo, o retroazione positiva, è studiato per filtrare e restituire il suono delle corde, creando un effetto-drone. 

 

 

[Hildur Guðnadóttir con l'halldorophone]

 

 

Hildur Guðnadóttir racconta di come il tema di Arthur si sia fatto strada nella sua mente quasi autonomamente, dopo molti giorni di tentativi in cui note e tonalità non riuscivano a corrispondere a quello che aveva provato leggendo lo script.

 

Quando ha trovato il tema di Joker la compositrice racconta di aver sentito come una scossa, una forte reazione fisica, la stessa che ha avuto Joaquin Phoenix la prima volta che l’ha sentita: una delle scene più celebri del film è quella in cui Arthur, dopo il tragico momento in metropolitana, si rifugia in un bagno e inizia quella strana danza divenuta poi famosa. 

 

Joaquin Phoenix racconta spesso che faticava a entrare nella parte per quella scena: fu solo quando Todd Phillips mise come sottofondo sul set l’ultimo brano che aveva ricevuto da Hildur, quello che poi venne chiamato Bathroom Dance, che scattò qualcosa.  

 

 

[Arthur Fleck si nasconde in un bagno pubblico e danza dopo un momento terribile]

 

 

La linea melodica consiste solo di due note, poste a una piccola distanza l'una dall'altra (una terza), ribattute e ripetute con valori ritmici diversi. 

 

Una melodia percussiva, potremmo dire. È strano come due semplici note possano connotare così fortemente una scena, eppure quando Joaquin Phoenix le sentì per la prima volta, racconta di essere rimasto profondamente colpito e turbato da quella melodia. 

 

Cominciò a muoversi sotto l’influenza dalla musica e fu così che ne nacque quella grottesca danza che sancisce la definitiva trasformazione di Arthur Fleck in Joker. 

 

 

[Gli abitanti di Chernobyl guardano il pulviscolo radioattivo che si deposita su di loro, ignari del pericolo] 

 

 

C’è un’altra colonna sonora che ha ricevuto il plauso della critica e che è valso a Guðnadóttir il Grammy e l'Emmy Award: si tratta di quella per la miniserie TV Chernobyl diretta da Johan Renck.  

 

È noto come per questa colonna sonora Hildur Guðnadóttir si sia servita di suoni campionati dal vivo in una centrale nucleare dismessa in Lituania. 

La sua fondamentale intuizione è stata quella di individuare il protagonista vero della serie, ovvero la centrale nucleare stessa, quel mostro dormiente e terribile che incombe per tutta la durata della seriee e che non ha voce, ma i cui invisibili e mortiferi artigli avvelenano tutto ciò che la circonda. 

 

La musica doveva essere la voce della centrale, doveva restituire al pubblico la sensazione che avevano avuto i primi uomini che erano entrati nell’edificio dopo il disastro.

 

"Volevo che la musica fosse la voce della radiazione, per questo sono andata in una centrale dismessa e ho registrato i suoni delle porte, dei macchinari e di tutto quello che sentivo. 

Ne sono uscite svariate ore di registrazione che ho studiato nei successivi 6 mesi, modellando poi questi suoni fino a renderli elementi musicali."

 

Ad essi si aggiungono campionamenti della sua voce eterea, leggera che contrastano nettamente con i suoni della centrale, come nel caso di Líðurbrano tratto dal suo album solista e riadattato per la serie TV. 

 

C’è però una traccia che si distacca fortemente dal resto della soundtrack e dagli altri lavori della compositrice e su cui vorrei soffermarmi: lo struggente brano che accompagna lo scorrere dei titoli di coda a chiusura della serie, dopo il potente monologo sulla verità. 

 

 

[Titoli di coda della miniserie televisiva Chernobyl]

 

 

Vichnaya Pamyat è un brano corale che si discosta molto dal resto della produzione della compositrice, rifacendosi alla tradizione del canto sacro-liturgico russo. 

 

Un coro a quattro parti con suddivisioni interne e l’utilizzo del basso profondo (voce particolarmente scura), come da tradizione ortodossa. 

Mentre scorrono le immagini d’epoca che ritraggono i veri protagonisti della vicenda e mentre leggiamo il racconto della loro tragica sorte, tutti condannati a causa delle radiazioni assorbite a morire più o meno a stretto giro, le voci del coro cantano tutte insieme in omoritmia, creando la sensazione di una marea che si muove compatta, morbida e cullante.

 

La linea melodica è costruita intorno a piccoli intervalli che girano su se stessi, muovendosi per lo più per grado congiunto, ripetendosi e avviluppandosi, procedendo per aggiunta e sottrazione di voci o per dinamiche (ovvero i forte e i piano), più che per un vero sviluppo del materiale sonoro. 

 

Il titolo di questo brano è Vichanya Pamyat, che nella tradizione ortodossa russa richiama uno specifico tipo di canto che viene eseguito al termine dei riti funebri: il significato di queste parole è Memoria eterna

Facilmente si intuisce il motivo di questa scelta: la conclusione della vicenda non è che tragedia e morte; il rito funebre cristiano tuttavia è sempre fortemente interconnesso alla speranza e da essa inscindibile. 

 

Una speranza c’è, infatti, perché incredibilmente, in questo panorama desolato in cui sembra non restare più niente a cui aggrapparsi, in cui non ci sono più vite e nemmeno l’eroismo di quelli che si sono immolati viene riconosciuto, incredibilmente una vita si è salvata.

La più apparentemente fragile di tutte.

 

Forse allora la morte non è l’ultima parola.

 

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