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Il talento del calabrone - Recensione: Gli Occhi del Cuore in salsa thriller

Il secondo lungometraggio di Giacomo Cimini si prende terribilmente sul serio

Il talento del calabrone è il secondo lungometraggio di Giacomo Cimini a diciassette anni di distanza da Red Riding Hood. 

 

Il regista italiano ha fatto parecchia esperienza all'estero ed è forse questo il motivo di tutto ciò che a mio avviso non funziona ne Il talento del calabrone. 

 

La storia mette al centro un disc jockey radiofonico che all'interno del suo programma riceve le telefonate degli ascoltatori, finché arriva quella di un uomo che dichiara che sta per suicidarsi mentre guida un'autobomba in giro per Milano. 

 

Il thriller si sviluppa fondamentalmente in due location principali, lo studio radiofonico e l'abitacolo dell'auto, ed è popolato da pochi personaggi. 

 

[Trailer de Il talento del calabrone]

 

 

Sulla carta il progetto è affascinante e permette di esprimere un gran lavoro di sceneggiatura, regia, interpretazioni degli attori e fotografia: il film è stato promosso lo scorso febbraio - quando ancora vivevamo tutti nell'illusione che a marzo i cinema sarebbero stati aperti - con un trailer accattivante che puntava proprio a sottolineare quegli aspetti come punti di forza.

 

Peccato che a mio avviso ne Il talento del calabrone non ci sia nulla di tutto ciò e siano invece proprio la sceneggiatura e la regia in primis ad affossare il film, rendendolo spesso involontariamente comico e ridicolo e facendo recitare due grandi attori come Sergio Castellitto e Anna Foglietta in maniera imbarazzante. 

 

Mi sento fisicamente male a dover parlare male di un film italiano, perché credo tanto nel nostro Cinema e spesso mi trovo a difenderlo dai luoghi comuni e dagli stereotipi sbagliati.

Credo che negli ultimi anni stiamo continuando ad avere dimostrazioni del fatto che qui da noi ci siano ottimi sceneggiatori e ottimi registi, così come ottimi tecnici in qualunque reparto e ottimi interpreti. 

 

Ma Il talento del calabrone va altrove.

 

Sembra che le intenzioni da parte di Cimini - qui in veste di co-sceneggiatore oltre che di regista - fossero quelle di presentare qualcosa di necessariamente diverso dal solito, facendo felici tutti quegli Stanis La Rochelle che ripetono in continuazione che il nostro Cinema sia "troppo italiano" con un thriller originale, serrato, profondo e con un colpo di scena finale sconvolgente. 

 

Si è però dimenticato che la tensione andrebbe costruita a dovere, così come i personaggi che la storia la vivono e la fanno vivere a chi li guarda: il risultato di questa operazione mi è dunque parso il contrario di quello che voleva disperatamente essere e troppi passaggi de Il talento del calabrone mi hanno appunto purtroppo ricordato Gli Occhi del Cuore di borisiana memoria. 

 

Ma se in Boris la cosa era una parodia, qui si prendono tutti incredibilmente sul serio e ci credono tantissimo. 

 

 

["Allora, primo: tu non parli se non interpellato. Secondo: se ti dico di fare una cosa, tu la fai e basta."]

 

 

Lorenzo Richelmy nei panni del disc jockey di successo si trova intrappolato da una parte in uno strano e forzato accento milanese che non gli appartiene e dall'altra in un ruolo che ha troppo poco tempo per essere presentato e compreso, perché viene subito catapultato nella situazione pericolosa senza dar modo allo spettatore di percepire il suo ribaltamento emotivo. 

 

Per tutta la durata del film DJ Steph - un concentrato di cliché con barba incolta, tatuaggi, spettinatura finto noncurante e sigaretta - cambierà continuamente intenzioni senza motivo, passando dallo spaventato al risoluto, dal disilluso al combattivo e dal ribelle al soggiogato a seconda delle comodità della sceneggiatura, che gli mette in bocca battute improponibili anche per una recita di fine anno alle scuole medie.

 

Vittime di queste battute sono anche Castellitto e Foglietta, che pare abbiano recitato senza avere una direzione precisa da parte della regia: il primo, nei panni dell'uomo che minaccia di uccidersi compiendo una strage, fa quello che può e va apprezzato il visibile impegno profuso, ma non si discosta molto dal recitare il suo personaggio alternando i sorrisetti beffardi di uno che la sa lunga allo sguardo nel vuoto di uno che non ha più niente da perdere. 

 

 

["Tutto sommato qua ti si chiedono tre-quattro facce: basita, preoccupata, spensierata e intensa, che è la più difficile."]

 

 

Anna Foglietta è invece secondo me il paradigma del "vorrei ma non riesco" de Il talento del calabrone: gesti e linee di dialogo nati per renderla cool ma senza una minima funzionalità nel racconto rendono il suo tenente colonnello dei Carabinieri qualcosa di involontariamente buffo. 

 

Indossare una fondina e gli anfibi con l'abito da sera che aveva al galà prima di essere coinvolta nel caso non ha senso alcuno, non cambia le cose e non crea coolness

 

Puntare la pistola in faccia a un civile urlandogli che gli farà "saltare il cervello" (sic) non fa personaggio, ma macchietta americana buttata in mezzo a un film che vorrebbe essere ambientato in Italia. 

 

 

["Perché Il talento del calabrone non è soltanto intrattenimento, Il talento del calabrone è... arte, e questo perché affronta i grandi temi della vita con coraggio."]

 

 

Peggio di loro sono purtroppo i personaggi secondari, dall'imbambolato regista radiofonico alla svampita social media manager della radio - che fa cose come esclamare "devo retwittarlo" mentre fotografa un computer con il cellulare - dal capitano dei Carabinieri che non ha un vero scopo nella vicenda ma sta lì per rispondere alle telefonate ai due espertoni che collegati in live scoprono cose incredibilmente banali mentre non si accorgono di quelle palesi. 

 

Il talento del calabrone ha voglia di essere profondo e di toccare temi importanti come la fame di like e numeri nella quale la nostra società è ormai immersa fino ai capelli, il bullismo che crea voragini nella psiche di chi lo subisce e che si trova a crescere senza mai dimenticare, l'impotenza delle forze dell'ordine nei confronti di un uomo solo con un'idea terribile che rimanda a Unabomber così come agli attentati terroristici kamikaze di questi ultimi anni. 

 

Più che toccarli e farci riflettere in merito, però, il film questi temi li prende a ceffoni e li sottolinea con dialoghi espliciti e didascalici al punto che entrambi i "colpi di scena" del film risultano telefonati e, almeno su di me, non hanno sortito effetto alcuno.

 

Come ben sa chi segue il podcast di CineFacts.it faccio parte dei sostenitori del "non è davvero importante cosa si racconta, ma come": Il talento del calabrone però non riesce a mio avviso in nessuno dei due ambiti. 

 

Il cosa è una collezione di stereotipi che pecca di presunzione di originalità, e per questo risulta doppiamente fastidiosa, mentre il come perde di vista la storia in molteplici punti per concentrarsi su dettagli e particolari pensati per essere distintivi, ma che non lo sono affatto.  

 

 

[The Neon Calabron]  Il talento del calabrone

 

 

Abbiamo tutti visto tanti film girati in poche location, se non addirittura in una soltanto, e siamo tutti consapevoli del fatto che il thriller abbia le sue regole e la sua costruzione, a maggior ragione se l'intento è quello di raccontare una storia dove il tempo cinematografico equivale al tempo diegetico. 

 

Minuti e minuti de Il talento del calabrone, invece, ci mostrano il disc jockey che non parla al microfono, l'uomo in automobile che non parla al telefono e la radio che non manda la musica. 

Nel film questi momenti servono per raccontarci degli aspetti tangenziali alla storia principale, ma viene da chiedersi cosa stiano pensando gli ascoltatori della trasmissione mentre sentono minuti e minuti di nulla. 

 

E sorvolo sul reiterato e invadente spot pubblicitario per Radio 105, che fa da set per la vicenda fittizia e che appare nei loghi, nelle battute, sui manifesti. 

Il product placement è utile e può anche essere bello quando è funzionale, ma qui mi è sembrato di rivedere le scene dei film nostrani degli anni '70 in cui i personaggi sfilavano una sigaretta dal pacchetto tenendolo in maniera totalmente innaturale a favore di inquadratura. 


Ne Il talento del calabrone non esiste il concetto di montaggio alternato, tutto avviene consequenzialmente e praticamente mai su due livelli paralleli: mentre succede una cosa è impossibile secondo gli sceneggiatori fare accadere dell'altro, il tempo per i personaggi non in scena si cristallizza per poi rimettersi in moto nell'istante in cui tornano all'interno dell'inquadratura. 

 

Lo spettatore non ha alcun indizio in più rispetto ai personaggi del film e brancola nel buio - almeno secondo le intenzioni - esattamente come loro. 

Questo sarebbe ottimo se si avessero dei personaggi interessanti, dei quali si vuole conoscere la storia e il destino, con i quali si entra in empatia aspettando di vedere cosa riserverà loro il finale degli eventi. 

Ma ne Il talento del calabrone ci sono solo delle figurine piatte e bidimensionali che dicono frasi imbarazzanti e che compiono gesti inconsulti e immotivati.

 

Tutto ciò si rivela quindi antitetico alla concezione di thriller e l'unica spinta nel concludere la visione per me è stata semplicemente la curiosità di verificare se effettivamente quei colpi di scena telefonati - uno dei due addirittura faxato, tanto era arrivato prima - si sarebbero rivelati tali. 

 

Tolto il personaggio di Castellitto, che ha effettivamente qualche sfumatura in più degli altri, alla fine del film non sappiamo praticamente nulla dei personaggi, non li conosciamo.

Esattamente come prima di passare con loro una novantina di minuti non sappiamo chi sia DJ Steph, non sappiamo chi sia il tenente colonnello Rosa Amedei. 

 

Se ci fossero stati altri personaggi a interagire nella stessa storia sarebbe stato uguale, perché non hanno caratteristiche e vivono di rimbalzi.

 

 

["René che faccio, ce lo metto un altro neon?"]  Il talento del calabrone

 

 

Un film che definirei "fighetto" che ha il merito di mostrare delle - poche - bellissime immagini aeree notturne di Milano, ma che presenta una fotografia che prova a scimmiottare l'estetica dei recenti lavori di Nicolas Winding Refn con il risultato di sembrare uno spot pubblicitario di moda, come se la Milano del film fosse incastrata nella Fashion Week che viene citata e non avesse nient'altro da offrire. 

 

Il talento del calabrone ha sfruttato la tecnologia StageCraft resa famosa da The Mandalorian, che permette di sorpassare il vecchio green screen - lo sfondo verde che in post produzione viene eliminato per apporre lo sfondo che si desidera - e avere degli sfondi reali che interagiscono fotograficamente con i soggetti inquadrati, riflettendo su di loro luci e movimenti. 

 

Uno sfondo vero che viene quindi riprodotto per interagire in tempo reale sui soggetti. 

Ma che di base è qualcosa di posticcio, di ricostruito, di artificiale.

 

Tre aggettivi che a mio avviso descrivono perfettamente Il talento del calabrone. 

Il talento del calabrone

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