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Favolacce - Recensione: l'oscurità sotto la superficie

La recensione di Favolacce, secondo film dei fratelli D'Innocenzo

Favolacce. Storie di una quotidianità marcia e minuta.

 

L’ostentazione del benessere e di felicità fittizie, la solidarietà di borgata costruita su sorrisi di cartapesta dietro ai quali si nascondono silenzi profondi, genitori orchi e figli oggetto, sballottati, ignorati, esposti a mo’ di trofeo.

 

Favolacce dei fratelli D’Innocenzo - uscito direttamente in streaming l’11 maggio a causa della pandemia di COVID-19 - ci è stato presentato come ‘il Parasite Italiano’: un film brillante e inusuale per il panorama cinematografico italiano.

 

Citando il detective Somerset potrei azzardare un: "Condivido la seconda parte".

 

[Il trailer ufficiale di Favolacce]

 

 

Parasite di Bong Joon-ho ci ha raccontato la guerra di classe della Corea del Sud, dalla quale non ci si può sottrarre e dove nessuno uscirà mai nella veste scintillante del vincitore; Favolacce, invece, ci mostra uno spaccato sociale ben preciso dove non c’è lotta, ma solo rassegnazione e miseria.

 

Un contesto degradante, abietto, distruttivo.

 

Il tema sociale comune c’è, ma i sistemi rappresentativi sono diametralmente opposti, così come lo spirito di fondo delle due produzioni.

Di questa affermazione, dunque, resta solo uno sgradevole gusto di marketing condito con una spruzzata d'incompetenza.

 

Dichiarando chiusa la polemica tra me e il sottoscritto, possiamo passare al film.

 

 

 

 

La voce narrante ci introduce nella periferia a sud di Roma.

 

"Quanto segue è ispirato ad una storia vera... la storia vera è ispirata ad una storia falsa...

La storia falsa non è molto ispirata"

 

In un contesto da villette a schiera all’americana si muovono i protagonisti del racconto: nuclei familiari solidi e felici, sotto la cui superficie di apparenza risciacqua il torbido, cozzano miserie dettate dalla difficoltà di essere genitori e individui decenti.

 

Nel vortice di Spinaceto c'è il dramma di essere figli inascoltati, abbandonati a vizi vuoti e continui, vittime delle altalenanti, feroci attenzioni di mamma e papà.

 

Ci sono le storie orribili e bisbigliate di padri e madri impreparati per il ruolo, di figli vessati da piccole grandi violenze (fisiche e psicologiche), silenziose imposizioni e consuetudini tanto orribili quanto socialmente accettate.

 

 

[Fratelli gemelli, autori e registi: Damiano e Fabio D'Innocenzo]

 

Quella mostrato da Favolacce è un micro-cosmo comunitario che non si limita ai soli sobborghi di Roma, ma che potrebbe essere pienamente applicabile a qualsiasi provincia italiana.

 

Tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare leggendo queste righe, quello incorniciato dall'ottima fotografia di Paolo Carnera non è un dramma votato a grida mucciniane o a lacrimoni sommessi à la Ozpetek.

 

La critica di Damiano e Fabio D’Innocenzo - già collaboratori alla sceneggiatura di Dogman di Matteo Garrone - è sommessa e tagliente.

Non necessita di esplosioni violente, nutrendosi più realisticamente di gesti crudeli e nascosti, oltre che a primi piani eloquenti e campi lunghi dove la macchina da presa non si cimenta mai in virtuosismi inefficaci per la narrazione.

 

Quello delle Favolacce non è un melò per casalinghe annoiate, ma un film disturbante che si esprime per mezzo di non detti, toni sardonici e situazioni grottesche.

Un dramma scritto in maniera brillante (si è portato a casa il premio alla Miglior Sceneggiatura alla Berlinale 2020) che spacca l’animo dello spettatore, in silenzio, con modalità assolutamente inusuali per il Cinema italiano.

 

Nel cast si disimpegnano ottimamente “gli adulti”, specialmente Gabriel Montesi e Barbara Chichiarelli; non dello stesso livello i pargoli protagonisti del film che, purtroppo, ancora una volta, evidenziano la grande difficoltà dell'Italia nel produrre giovani attori che si dimostrino all'altezza del compito.

 

Per Elio Germano si sono esaurite le parole ormai da un pezzo: oltre a confermare una grande “varietà di ruoli” nel proprio repertorio, con Favolacce e Volevo nascondermi, ancora una volta dimostra di essere uno dei migliori attori dello stivale.

 

Il suo Bruno Placido è il prototipo perfetto dell’uomo meschino, del padre incapace e pusillanime.

 

 


 

Dopo La Terra dell’abbastanza, i due registi e autori classe ’88 confermano una consolidata maturità stilistico/rappresentativa e certificano le loro abilità di scrittura, mettendo in scena uno spaccato sociale marcio e desolante come non si vedeva dai tempi dei Brutti sporchi e cattivi di Ettore Scola.

 

Quello messo in mostra da Favolacce è un Cinema graffiante, di respiro europeo, che si discosta parecchio dal tenore dei drammi italiani visti e rivisti, avvicinandosi invece all’algida crudezza di produzioni vicine ai nomi di Michael Haneke, Todd Solondz e Yorgos Lanthimos.

 

Un Cinema da denuncia rassegnata e amara dove la speranza, nel finale, viene metacinematograficamente demolita con la forza di un telecomando utilizzato per uno scorrettissimo rewind... che però forse non lo è davvero.

 

Favolacce è un film ambizioso e ben costruito, non esente da difetti, che segna definitivamente l’ascesa di due autori che - al loro secondo lungometraggio - dimostrano di avere le idee ben chiare e le capacità per andare dannatamente lontano.

 

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