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Storia ed evoluzione dei formati cinematografici, Parte III: Ultra Panavision 70, IMAX, Techniscope, Univisium

Che ruolo hanno giocato i formati nella nascita della concezione moderna di Cinema? A quali necessità la loro evoluzione ha risposto, e dove si pone il confine tra orientamento artistico e perfezionamento tecnico? 

Eccoci dunque all’ultimo capitolo del nostro viaggio nell’universo dei formati e delle tecnologie che hanno dato vita al Cinema sin dalla sua nascita.

 

 

Con i precedenti capitoli ci siamo fermati a ridosso degli anni ’60, con la rivoluzione panoramica già avviata e sviluppata in una miriade di forme e modalità che troveranno la propria affermazione o decadenza nei decenni a venire. 

 

Da qui ricominciamo dunque la tournée, con il formato che si impose verso la fine degli anni ’50 come la migliore evoluzione dei vari Cinerama, Cinemascope e Todd-AO: l’Ultra Panavision 70. 

_______________________________

 

Parte terza – L’epoca moderna

 

ovvero del perfezionamento tecnologico e delle nuove forme di Cinema  

 

 

[Robert Richardson (dop), sul set di The Hateful Eight (2015)]

 

 

I. Ultra Panavision 70  

 

Come già accennato in precedenza, quello dell’immediato dopoguerra fu un periodo di eccezionale fermento dell’industria cinematografica, che allora doveva fronteggiare la minaccia della televisione come pericoloso competitor nella sfera dell’intrattenimento.

 

Nel secondo capitolo abbiamo avuto modo di vedere come la pressione della concorrenza fu incanalata dagli studios di Hollywood (e non solo) nella ricerca di un’immagine che potesse differenziarsi distintamente dal formato semi-quadrato offerto dalla TV: fu questa, tra le altre, una delle ragioni all’origine dell’introduzione del rivoluzionario formato panoramico.

 

Nel 1957, Panavision introduce il sistema che di lì a poco diventerà tra i formati di maggior successo di sempre: l’Ultra Panavision 70, inizialmente chiamato MGM Camera 65.

 

Come suggerisce il nome, il sistema utilizzava pellicole a grande formato (65mm in camera), che garantivano l’eccezionale risoluzione su cui il marketing odierno continua a basare intere campagne di promozione ogni qualvolta il Quentin Tarantino di turno decide di girare in questo formato.

 

 

[Poster italiano de La Battaglia dei Giganti (1965). Visibili in basso i loghi di Cinerama, Technicolor e Ultra-Panavision]

 

Il lettore attento ricorderà dai capitoli precedenti che da sé questa fu la soluzione adottata vent’anni prima per ricreare un’immagine più ampia del tradizionale 1.37:1, proposta, tra gli altri, da Mike Todd con il suo Todd-AO.

 

L’alternativa, avanzata con circa un lustro d’anticipo rispetto a Panavision, era costituita dal più laborioso Cinemascope che impiegava, sia in fase di ripresa che proiezione, un sistema squeeze and de-squeeze ("schiaccia e distendi") a lenti anamorfiche, ricreando l’effetto panoramico su negativo 35mm.

 

Ebbene, Ultra Panavision 70 combina le due soluzioni, utilizzando pellicola a grande formato e le proprie lenti anamorfiche dotate di uno squeeze factor di 1.25.

Lo spettacolare risultato, ottenuto fondendo caratteristiche dei supporti rivali, offriva l’aspect ratio più estrema sul mercato (2.76:1), mentre l’eccezionale resa ottica delle lenti Panavision eliminò praticamente del tutto le aberrazioni cromatiche e l’eccesso di grana dalle immagini.

 

Inoltre, l’Ultra Panavision 70 godeva di due ulteriori vantaggi che ne facilitavano la diffusione commerciale: in primis, era progettato per esser proiettato su schermo flat (a differenza degli esperimenti Cinerama e Todd-AO), rendendo l’adozione meno onerosa per i distributori; in secondo luogo, prevedeva l’utilizzo di un frame rate standard di 24 fotogrammi al secondo (fps), evitando così di incappare in problematiche simili a quelle del Todd-AO.

 

 

[Frame da una scena di Ben-Hur (1959)]

 

 

Film rilevanti

 

Tra le produzioni più rilevanti in Ultra Panavision 70 compare di certo il capolavoro di William WylerBen-Hur (1959), colossal ambientato nella Roma imperiale che stabilì anche il record di Oscar vinti (11), record tutt’oggi imbattuto ed eguagliato solo da Titanic (1997) e Il Signore degli Anelli - Il Ritorno del Re (2003).

 

Per Ben-Hur, MGM e Panavision vinsero inoltre uno speciale premio tecnico dedicato appunto all’evoluzione del processo fotografico anamorfico introdotto in quegli anni.

 

Altri titoli degni di nota sono Gli ammutinati del Bounty (1962), film epico diretto da Lewis Milestone con Marlon Brando e Richard Harris, e La Battaglia dei Giganti (1965), film storico sulla Seconda Guerra Mondiale con protagonista un brillante Henry Fonda.

 

Infine, dopo quasi mezzo secolo dall’ultimo utilizzo, Quentin Tarantino lo ha prescelto come cornice del suo ottavo film, The Hateful Eight (2015), girando interamente in Ultra Panavision 70, mentre i fratelli Russo ne hanno occasionalmente impiegato le lenti nei due capitoli finali della tetralogia degli Avengers (2018, 2019), girando però la maggior parte su supporto IMAX digitale, come vedremo più avanti.

_______________________________ 

 

 

 

 

II. Techniscope  

 

Abbiamo visto come il centro gravitazionale dell’energia innovatrice di questi anni sia stata immancabilmente Hollywood, terra promessa dello show business e catalizzatore di tutto ciò che ruota nell’orbita dell’intrattenimento.

 

Il Cinema, tuttavia, parla una lingua universale, come ha avuto modo di ricordarci ultimamente il pluripremiato regista coreano Bong Joon-ho, e da tale andava sviluppandosi in tutto il mondo secondo le sfumature e le declinazioni espressive della creatività di popoli diversi.

 

È così che intorno al 1960, la divisione italiana della Technicolor introduce un formato cinematografico destinato a divenire iconico, oltre che di grande successo almeno fino all’inizio degli anni ’80: il Techniscope

 

Volendo trovare affinità o azzardare qualche analogia tra invenzione e inventori, il Techniscope rappresentò molto di ciò che contraddistingueva i caratteri del cinema italiano cui si rivolgeva; esso potrebbe difatti essere considerato una mutazione naturale, un’evoluzione spontanea delle necessità pratiche che il fare Cinema in Italia implicava.

 

 

[Fotogramma restaurato di C'era una volta il West (1968), di Sergio Leone]

 

 

Pertanto, Techniscope non fu soltanto un efficace medium traspositivo delle velleità artistiche dei cineasti nostrani (e non solo), ma corrispose anche ad un pragmatismo tangibile, materiale, insomma a un’esigenza finanziaria che inesorabilmente contraddistingueva una frazione sostanziale delle produzioni cinematografiche del tempo.

 

La convenienza del Techniscope risiedeva principalmente nella sua economicità: pur non rinunciando all’ormai indispensabile formato panoramico (fino ad un rapporto d’aspetto di 2.39:1), i tecnici italiani riuscirono a combinare la pellicola 35mm (significativamente meno cara) e le lenti sferiche, che permettevano di evitare le onerose royalties per l’utilizzo di processi brevettati come quelli Panavision.

 

Inoltre, e qui c’è la genialità del Techniscope, il film impiegato aveva solo due perforazioni per fotogramma invece che le consuete quattro.

 

 

Insomma, Technicolor Italia rivelò un modo, alquanto semplice, di ottenere un widescreen a partire da un negativo 35mm e lenti non anamorfiche: semplicemente tagliando l’altezza del frame.

 

 

 

 

Il beneficio monetario di quest’innovazione fu chiaramente enorme: mantenendo la frequenza costante a 24 fps (come Techniscope faceva), per girare lo stesso minutaggio occorreva la metà della pellicola.

 

Ciò ovviamente non avveniva senza costi e anzi implicava svantaggi che furono, in ultima analisi, probabilmente i limiti alla sua diffusione in generi al di fuori di quelli in cui fu inizialmente impiegato: in primis, la risoluzione.

 

L’utilizzo di un’area significativamente minore di superficie fotosensibile (la metà) comportava un’inevitabile minor resa dei dettagli, una minore sharpness, possibilmente più problemi di grana (a parità di velocità della pellicola) e aberrazioni cromatiche più evidenti.

 

Occorre notare come Techniscope costituisse un immenso vantaggio dal lato della produzione, mentre richiedesse degli aggiustamenti in fase di distribuzione, dove la maggior parte dei proiettori erano attrezzati per proiettare rulli da quattro perforazioni per fotogramma.

Qui dunque avveniva l’anamorfizzazione (di fattore 2) della stampa originale e si trasferiva così il film su supporto a 4 perforazioni, pronto per essere distribuito e proiettato.

 

È in particolare in questo stadio che la maggior parte dei sopracitati difetti tecnici venivano a galla.

 

 

[Esempio di positivo originale e relativo adattamento anamorfico su supporto 4-perf per proiezione]

 

 

Film rilevanti

 

Nonostante le evidenti limitazioni del formato, Techniscope ebbe un successo straordinario, molto al di sopra delle aspettative iniziali.

 

Nel 2011, IMDb stilò una lista di oltre 1200 film girati in Techniscope.

Moltissimi meriterebbero di essere citati, a partire da tutti gli Spaghetti Western di Sergio Leone, vero e proprio manifesto del nostro Cinema per decenni.

 

Va da sé che la caratteristica di maggiore appeal di Techniscope era certamente il vantaggio economico, che permetteva a produzioni a basso budget di realizzare film altrimenti impraticabili: è infatti facilmente constatabile la grande diffusione del formato fra i B-movies americani, spesso di genere horror o azione.

 

 è

[Dietro le quinte di American Graffiti (1973), di George Lucas]

 

Le immagini prodotte in Techniscope, come accennato di minor qualità rispetto al coevo Cinemascope o ad un qualsiasi 70mm, non sempre costituivano una limitazione.

 

È questo il caso ad esempio di American Graffiti (1973) di George Lucas, che fu girato in Techniscope deliberatamente al fine di ottenere un effetto più sketchy, documentaristico, a discapito della canonica bellezza delle inquadrature; anche Titanic (1997), nelle sequenze sott’acqua fa uso di un principio simile.

 

L’utilizzo del formato si è preservato a lungo e tutt’oggi risulta saltuariamente in uso; produzioni moderne degne di note includono il vincitore dell'Oscar come Miglior Film Argo (2012), Oldboy (2013) di Spike Lee e Tonya (2017) con protagonista Margot Robbie.

_______________________________ 

 

 



 

III. IMAX

 

Eccoci dunque al momento forse più atteso di questa breve antologia, quello per cui qualche lettore ha forse cominciato a seguirla e si è sorbito - mi auguro con interesse o quantomeno piacere - ben dieci formati cinematografici dalla fine del XIX secolo fino al 1970.

 

È questo infatti l’anno in cui la IMAX Corporation introduce l’omonimo formato, destinato a un’ascesa precipitosa e ad un successo destinato a durare fino ai nostri giorni.

Mi rivolgerò qui al segmento principe del formato, l’IMAX 70mm, magari accennando alle evoluzioni e modifiche tecniche realizzatesi prima e dopo l’avvento del digitale.

 

IMAX è un formato tout court: prevede una configurazione specifica di ripresa, proiezione, resa audiovisiva e perfino di una serie di espedienti ergonomici finalizzati all’accrescimento della sensazione di inclusività e immersione dello spettatore.

 

Insomma: IMAX è l’insieme di tutto ciò che si vive dall’ingresso in sala fino ai titoli di coda.

 

 

[Interni del Pacific Science Center Cinema di Seattle (US)]

 

 

In seguito a qualche sparuto tentativo all’inizio del secolo e nella seconda metà degli anni '50, IMAX ripropose l’horizontal pulldown, ovvero lo scorrimento orizzontale della pellicola, riuscendo finalmente a imporre un nuovo modello nell’industria.

 

Così come era stato inizialmente concepito, IMAX prevedeva che una pellicola 70mm scorresse orizzontalmente allo stesso frame rate di 24 fps delle cineprese abituali.

 

Seguendo questo sistema, l’area fotosensibile esposta risultava essere nove volte superiore a quella di un tradizionale 35mm, e fino a tre volte quella di un grande formato 70mm non-IMAX.

 

Difatti, mentre i 70mm precedenti esibivano 5 perforazioni verticali, i film IMAX ne presentano 15, poste ovviamente sopra e sotto ogni fotogramma.

 

 

 

 

La risoluzione risultante è tra le più alte mai raggiunte da un grande schermo (stime parlano di 18K teorici, 12 effettivi), rendendo anche l’esperienza dello spettatore più incolto percepibilmente diversa da qualsiasi forma di home-video o da regolari proiezioni in sala.

 

È inoltre interessante osservarne l’aspect ratio conseguente, che per la prima volta da decenni si muove nella direzione opposta e torna ad un formato semi-quadrato, con un rapporto di 1.43:1 (in analogico, mentre in digitale tocca 1.9:1).

 

Come sempre accade, però, ai vantaggi di resa corrispondono complicazioni logistiche ed economiche che resero i primi anni di IMAX di scarso successo, fino a venire relegato in segmenti di mercato altamente specializzati, documentaristici o scientifici, dove la minor durata dei filmati e la necessità di ottenere la migliore immagine possibile giustificavano l’impiego del formato. 

 

 

[Esempio di fotogramma IMAX, da Interstellar (2014)]

 

Le difficoltà tecniche che avevano impedito la realizzazione di un progetto analogo precedentemente risiedono nella complessa meccanica che le macchine da presa e i proiettori IMAX celano dietro i loro imponenti telai.

 

Ad esempio, a causa della maggiore superficie esposta del film per mantenere il frame rate a 24 fps occorreva una velocità di scorrimento tripla, provocando non pochi problemi di surriscaldamento e potenzialmente tearing (strappo) della pellicola.

O ancora, un corollario del procedimento era la necessità di una quantità tripla di pellicola per girare lo stesso minutaggio rispetto a un 70mm tradizionale (molto di più se rapportato all’assai più diffuso 35mm).

 

Altra peculiarità di IMAX è la totale mancanza di tracce audio su pellicola, che invece corrono distaccatamente in parallelo su sei piste magnetiche e sempre all’interno dello stesso macro-apparecchio, al fine di massimizzare la superficie di esposizione e di impressione, anche se dall’inizio degli anni ’90 si tende a preferire un sistema digitale alternativo per la resa audio.

 

 

[Il direttore della fotografia Hoye van Hoytema: uno che i 30 chili di IMAX se li mette anche in spalla!]

 

Ancora, una caratteristica molto nota e un’immancabile difficoltà in fase di lavorazione è il fatto che finanche le versioni più moderne di cinepresa IMAX sono incredibilmente rumorose, rendendole inadatte, ad esempio, a scene di dialogo intenso; inoltre, la sopra accennata complessità meccanica le rende straordinariamente pesanti, impedendo usi eccessivamente dinamici della macchina da presa.

 

Dunkirk (2018), che tutt’oggi detiene il record di minutaggio 70mm IMAX film (79 minuti), offre un campione quasi scolastico di tutte le problematiche causate da IMAX: le scene di dialogo sono quasi esclusivamente state girate in 70mm tradizionale a causa del frastuono, così come alcune delle sequenze particolarmente movimentate per cui era necessaria una ripresa mobile.

 

 

A tal proposito vale la pena raccontare un aneddoto (CineFacts!) curioso: Christopher Nolan, insieme al sontuoso Hoyte van Hoytema alla fotografia, per meglio comprendere come girare le sequenze in nave ricevette la consulenza di... Steven Spielberg e Ron Howard! 

 

 

[Guida ai formati realizzata dalla distribuzione di Dunkirk (2018)]

 

Insomma, le esigenze di produzione di IMAX erano (e sono) una discreta gatta da pelare per produttori e troupe, in particolare alla luce del fatto che sono davvero poche, in proporzione, le strutture attrezzate per una distribuzione coerente con il formato.

 

Oltre ai particolari proiettori, infatti, le sale progettate secondo il brevetto IMAX hanno caratteristiche significativamente differenti da quelle tradizionali.

Lo schermo, molto più grande e quadrato, è lievemente curvato e inclinato in avanti; l’angolo secondo cui le file di sedute sono disposte arriva fino a 30°, permettendo allo spettatore di sovrastare la fila immediatamente davanti e così fronteggiare direttamente lo schermo; la distanza tra la platea e lo schermo è poi molto ridotta, rendendo l’esperienza straordinariamente immersiva.

 

Questo insieme di necessità ha reso impraticabile una diffusione capillare del modello e, come abbiamo visto in altre istanze, ne ha conseguentemente limitato anche l’uso in lavorazione: osserviamo dunque anche qui, come per il Kinetoscopio o il Cinerama, l’importanza del connubio tra tecnica e logistica, tra resa audiovisiva e economicità delle soluzioni.

Basti pensare che in Italia le sale IMAX opportunamente equipaggiate si contano sulle dita di una mano, e solo una (all'Oltremare di Riccione, ora chiusa) permetteva la proiezione del nativo IMAX 70mm.  

 

Come prevedibile, nei decenni IMAX si è evoluto in varie forme e modi, con evoluzioni talvolta ben accolte, altre meno.

 

Tra le versioni che si sono succedute meritano menzione l’Omnimax, versione dotata di lenti anamorfiche per un potente effetto fisheye su schermi eccezionalmente curvi, spesso in imponenti strutture emisferiche (planetarium o simili); e l’IMAX 3D, in cui ritroviamo un qualcosa di simile all’espediente principe di Cinerama, ovvero l’impiego di più rulli (due) in simultanea, con lo scopo di emulare il modello di vista binoculare umana così da ricreare l’illusione della tridimensionalità.  

 

 

[La sala IMAX più grande del Regno Unito, presso il British Film Institute di Londra. Notare: la struttura accoglie un'unica sala]

 

 

Film rilevanti 

 

Oltre al già citato Dunkirk (2018), vincitore agli Academy Awards di tre statuette, buona parte della filmografia del regista britannico ha visto (e vedrà) questa tecnologia come protagonista, e ne sono esempi illustri The Dark Knight (2008), Interstellar (2014) e l’attesissimo Tenet (2020).

 

Parzialmente girati in IMAX 70mm sono anche First Man - Il Primo Uomo (2018) del giovane prodigio franco-americano Damien Chazelle, e Star Wars: Gli Ultimi Jedi (2017), secondo capitolo della trilogia dei sequel di Guerre Stellari recentemente conclusasi.

 

 

[Dietro le quinte di First Man (2018), la cui splendida sequenza lunare è interamente girata in IMAX 70mm]

 

Inoltre, come precedentemente accennato, IMAX è stato di frequente utilizzato per documentari e riprese scientifiche, in particolare nei primi decenni dalla sua introduzione.

 

Infine, per quanto riguarda l’evoluzione non analogica del formato, Avengers: Infinity War (2018) e Avengers: Endgame (2019) sono interamente girati secondo l’evoluzione digitale IMAX, con l’ausilio delle appositamente costruite cineprese ARRI.  

_____________________________________________    

 

Conclusione

 

Il nostro percorso attraverso la storia e l’evoluzione dei formati cinematografici potrebbe interrompersi qui.

 

Abbiamo coperto buona parte delle declinazioni in cui il Cinema, inteso come esercizio globale, ha avuto modo di esplorare e di esprimersi a cavallo di tre secoli.

Va da sé che le possibilità creative e immaginifiche alla base della composizione dell’immagine, del sonoro e dell’esperienza di sala sono potenzialmente illimitate, discendendo da un insieme costantemente cangiante di esigenze narrative ed estetiche a loro volta corrispondenti alle evoluzioni delle sensibilità degli autori e delle epoche.

 

È frutto di questo continuo mutamento il fiorire di decine di altri formati che non abbiamo direttamente approfondito, alcuni similmente iconici, dal Technirama al Super35, passando per VistaVision e Super8.

Ho ritenuto, con questa selezione di undici formati, individuare quelli che a mio modo di vedere hanno contribuito a trasformare il modo di pensare alla lavorazione, alla post-produzione e alla proiezione delle pellicole cinematografiche.

 

Appropriandomi di un’importante concetto di un filosofo della scienza americano, Thomas Kuhn, ho cercato di identificare i paradigm shifts (cambiamenti di paradigma) nella storia dei formati, ovvero i nodi chiave attorno a cui il modo di intendere un’idea - quella della resa audiovisiva del film – ha subìto dei mutamenti fondamentali e duraturi per molteplici, disparate ragioni.

 

Così potremmo pensare ad esempio all’evoluzione dalla fruizione mono-spettatore del Kinetoscopio a quella collettiva del Cinematografo, o alla rivoluzione del sonoro, o ancora allo sviluppo del formato panoramico.

Passaggi che hanno segnato un ripensamento radicale, quintessenziale, che a volte sono stati accompagnati da popolarità immediata e universale e a volte da una tenace ritrosia dello status quo, e che in maniera sovversiva o reazionaria hanno inoculato nella sensibilità del tempo la necessità del divenire.    

 

Mi sembra dunque giusto concludere con… un capriccio.

Non è chiaramente mia intenzione sminuire in alcun modo l’ultimo formato che vorrei presentare, né tantomeno svalutarne i meriti artistici, ma credo sia pacifico ammettere che Univisium, introdotto nel 1998 dal nostro Vittorio Storaro, non abbia (per il momento) incarnato alcun cambiamento di paradigma o particolare sovvertimento del modo di concepire un film.

 

Tuttavia… a me piace molto, e con esso chiuderò questa carrellata.

 

 

IV. Univisium

 

In un articolo comparso su American Cinematographer nel giugno del 1998, Vittorio Storaro propose un modello di formato che sperava potesse costituire un nuovo standard di lavorazione e fruizione dei prodotti cinematografici.

 

Il direttore della fotografia italiano - anche se lui preferisce essere chiamato "autore della fotografia" - parte da un assunto fondamentale e su esso elabora:

 

"Recentemente, qualsiasi film – non importa quanto lungo o corto, di successo o meno – dopo una parentesi molto breve sul grande schermo, godrà di una vita molto più lunga su uno schermo elettronico.

Oggi la prima copia [ndr: prima stampa del film] è prodotta per ambedue questi supporti… e avendo due medium, con due differenti rapporti d’aspetto, tutti noi (registi, DOP, operatori, etc.) condividiamo l’incubo di dover scendere a compromessi nella composizione dell’immagine.

Guardando attraverso un mirino, una macchina o un monitor, siamo costantemente alle prese con almeno due immagini dello stesso soggetto."

 

È su questa intuizione che Storaro muove la sua proposta: un formato unico con rapporto 2:1, a tre perforazioni. 

 

Pur non essendo la prima volta che tale aspect ratio veniva avanzata nel panorama moderno (sia Universal che RKO avevano già prodotto pellicole di queste dimensioni), Storaro giunge a questa proporzione facendo una semplice media aritmetica tra i rapporti esistenti di 65mm e HDV (televisivo), rispettivamente 2,21:1 e 1,78:1.

 

 

[Esempio di positivo Univisium. Ai lati si scorgono le due soundtracks SDDS. Cortesia di Adakin Productions]

 

 

Inoltre nota che, in confronto con i più diffusi sistemi panoramici, Univisium presenta svariati vantaggi: garantisce significativi risparmi in pellicola e in attrezzatura, dato che non necessita neanche di lenti anamorfiche dialcun tipo, assicura una maggiore profondità di campo a causa delle peculiarità ottiche delle lenti sferiche e consente di girare in contesti meno luminosi, incrementando il passthrough di luce sul negativo.

 

Infine, non presentando spazio per le strips ottiche, Storaro prevede che il sonoro venga registrato e aggiunto separatamente in digitale. 

 

 

 

[Poster di Se la strada potesse parlare (2019), di Barry Jenkins]

 

 

Film rilevanti

 

Nello stesso 1998 il direttore della fotografia romano si occupò del dramma musicale Tango (1998) diretto da Carlos Saura, non ottenendo però troppa attenzione per il novello aspetto dell’immagine.

 

Curò inoltre le riedizioni DVD e Bluray di alcuni importanti film a cui aveva lavorato e per cui aveva vinto (per tutti) l’Oscar per la Miglior Fotografia: è il caso per Apocalypse Now (1979), L’ultimo imperatore (1987) e Reds (1981), giusto per nominarne qualcuno.  

 

Durante i primi anni 2000 il formato cadde nel dimenticatoio, fino a essere riscoperto una decina d’anni fa e da allora essere ritornato in voga in moltissime produzioni hollywoodiane e non.

 

Inoltre, e vale la pena rimarcarlo essendo di fatto la ragione di fondo per la sua introduzione, la sua diffusione recente ha visto interessate sia produzioni cinematografiche che televisive, con un’abbondanza di serie TV come House of Cards (2013), Altered Carbon (2018), il recentemente pluripremiato Chernobyl (2019) e molte altre.

 

 

[Vittorio Storaro e Woody Allen sul set di Cafè Society (2016)]

 

Lungometraggi degni di nota che adottano la soluzione di Storaro (o sue declinazioni digitali) sono Green Book (2018), Oscar al Miglior Film; Midsommar (2019), l’horror avant-garde dell’emergente Ari Aster alla sua seconda regia; Se la strada potesse parlare (2018), gioiello un po’ trascurato del fenomenale Barry Jenkins - incluso dal sottoscritto nella classifica dei migliori film del 2019 - e infine praticamente tutti i lavori di cui si è occupato direttamente Vittorio Storaro negli ultimi due decenni, incluse le sue ultime quattro collaborazioni con Woody Allen.

________________________________________      

 

 

Giunge al termine questa cavalcata in tre atti nella storia dei formati, le cornici visive e sonore attraverso le quali ci è concesso di godere della bellezza del Cinema, di esser soggetti alla sua potenza narrativa e a tutte le sue doti espressive.

 

In più di centoventi anni e a cavallo di tre secoli abbiamo avuto modo di vedere in che modo è mutato il formato e il ruolo che esso ha giocato nelle vicissitudini artistiche e industriali della Storia del Cinema, quali sono state le risposte del pubblico alle forme che ha assunto, e come esso abbia direttamente influenzato il modo di pensare all’esperienza cinematografica… persino arrivando a salvarla, in un certo momento.  

 

Mi auguro di essere riuscito in qualche modo a stimolare la curiosità o l’interesse del Lettore, che spero possa essere ispirato d’ora in poi a sbirciare nelle specifiche tecniche di qualche film di suo interesse, o a notarne il rapporto d’aspetto quando le luci si spengono e il proiettore aggiusta le dimensioni del quadro tra lievi sferragliamenti.

Ancora più importante spero d’aver dato un’idea, seppur in minima parte, del grande lavoro che c'è dietro la resa audiovisiva di ogni film, e di quanto esso vada in un’unica direzione: l’esperienza di sala.

 

Non importa quanto sofisticata la tecnologia home-theatre possa diventare: l’enorme capitale di conoscenze e abilità coinvolte nella produzione di un film, dal direttore della fotografia al primo operatore, dal video-assist fino all’ultimo macchinista, si rivolge alla riproduzione in sala come obiettivo ultimo del proprio operato, rendendone dunque irreplicabile l’esperienza.

 

Ciò assume un significato aggiuntivo quando si parla di proiezione di pellicola - l’unica trattata in questi tre articoli - di cui tra l’altro non esistono surrogati domestici.  

 

Dunque andate al cinema, e lasciatevi sedurre dalla sua magia, da quell’ingegneristica capacità di illudere e di sospendere l’incredulità… dopotutto, se siete arrivati a leggere fin qui, siete già sulla buona strada. 

 

 

Qui la prima parte: dal Kinetoscopio al Movietone.

 

Qui la seconda parte: Academy Format, Cinerama, Cinemascope e Todd-AO. 

 

 

                       

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