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#top8

Gli 8 migliori film del 2019 secondo la redazione di CineFacts.it

Come ogni anno è periodo di bilanci: quali sono gli 8 migliori film di questo 2019?  

Come ogni anno è periodo di bilanci, e guardando ai film che abbiamo visto in sala in questo 2019, bisogna ammettere che è stato davvero un anno di Grande Cinema: ma quali sono gli 8 migliori film di questo 2019? 

 

Ce lo siamo chiesti in redazione e ci siamo accorti votando che gli esclusi eccellenti sono tanti, troppi: fuori da questa classifica vanno citati obbligatoriamente film hollywoodiani come Noi di Jordan Peele e i premiati Vice  - L'uomo nell'ombra di Adam McKay e Green Book di Peter Farrelly; film italiani come Il Traditore di Marco Bellocchio e Il Primo Re di Matteo Rovere - due ottime rappresentazioni del Cinema Italiano contemporaneo, uno quasi agli antipodi dello spettro delle possibilità rispetto all'altro. 

 

E poi fuori di poco sono rimasti Mademoiselle di Park Chan-wook, L'ufficiale e la spia di Roman Polanski, Vox Lux di Brady Corbet e Climax di Gaspar Noé. 

 

E ancora film di assoluto valore come Dolor y Gloria di Pedro Almodóvar, Cafarnao di Nadine Labaki, Burning di Lee Chang-dong o ancora The Lighthouse, il secondo film di Robert Eggers dopo The VVitch, che purtroppo ancora non è stato distribuito in Italia ma che il nostro Direttore Editoriale Teo Youssoufian ha visto e recensito dal Festival del Cinema di Cannes e che sicuramente avrebbe ricevuto parecchi voti.

 

Ma se Top 8 deve essere, che Top 8 sia. 

 

Prima di iniziare con la classifica, che in quanto tale sappiamo perfettamente sia passibile di critica e di disaccordo, ecco come ci si è arrivati: ogni redattore che ha voluto partecipare alla stesura ha scelto i propri 10 titoli dell'anno e li ha classificati. 

 

Le discriminanti erano queste: 

- Il film doveva essere stato distribuito in Italia tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2019 

- Il film doveva essere stato distribuito in sala, quindi: niente festival, niente anteprime stampa, niente esclusive Netflix o Amazon Prime Video 

 

Ne è uscito un totale di 41 film e si è scelto di assegnare un punteggio da 10 a 1, dalla prima posizione all'ultima, per poi giungere agli 8 di questa classifica.  

 

Per correttezza e trasparenza, e per la vostra eventuale curiosità, ecco le classifiche dei singoli redattori: 

 

Francesco Amodeo

Parasite

The Irishman

Se la strada potesse parlare

Vice - L'uomo nell'ombra

Cafarnao

Storia di un matrimonio

La casa di Jack

Suspiria

Joker

Dolor y Gloria

 

Simone Braca 

La casa di Jack 

Parasite

Burning

The Irishman

Storia di un matrimonio

C'era una volta a... Hollywood 

Il Mostro di St. Pauli 

Green Book 

Joker 

La favorita

 

Fabrizio Cassandro 

Storia di un matrimonio

Vox Lux

C'era una volta a... Hollywood 

Parasite

Che fine ha fatto Bernadette?

Mademoiselle

The Irishman

L'età giovane

Burning

La casa di Jack

 

Simone Colistra

La casa di Jack

Parasite 

C'era una volta a... Hollywood 

The Irishman 

Storia di un matrimonio

Suspiria 

Joker 

Vice - L'uomo nell'ombra

Il primo re  

Psicomagia  

 

Morena Falcone 

The Irishman 

Parasite 

La casa di Jack

La favorita

Joker

Van Gogh

Dolor y Gloria

C'era una volta a... Hollywood

Green Book 

Le Mans '66 - La grande sfida 

 

Fabrizio Fois 

La casa di Jack

La favorita

C'era una volta a... Hollywood

Parasite

The Irishman 

Green Book 

Suspiria

Noi 

Il traditore

Midsommar

 

Jacopo Gramegna 

The Irishman 

Mademoiselle

Parasite

C'era una volta a... Hollywood

La favorita

Burning 

Joker 

Il traditore

La casa di Jack 

L'ufficiale e la spia

 

Lorenza Guerra  

Parasite

La casa di Jack 

Mademoiselle 

C'era una volta a... Hollywood 

Suspiria

La favorita

Storia di un matrimonio

Joker 

Martin Eden

Burning 

 

Kevin Hysa

Joker

Suspiria

Ad Astra

Storia di un matrimonio

La favorita

Vice - L'uomo nell'ombra

Noi

Green Book

L'ufficiale e la spia

C'era una volta a... Hollywood

 

Lens Kuba 

Vox Lux

L'ufficiale e la spia

La favorita 

Midsommar

C'era una volta a... Hollywood 

Peterloo

Parasite

Suspiria 

Dilili a Parigi 

I figli del fiume giallo

 

Adriano Meis 

Parasite

The Irishman 

La favorita

Joker 

La casa di Jack

Noi 

Green Book 

Mademoiselle 

Storia di un matrimonio 

C'era una volta a... Hollywood 

 

Sebastiano Miotti

Parasite

La casa di Jack

Climax 

Joker 

Green Book

Psicomagia

Storia di un matrimonio

C'era una volta a... Hollywood 

La favorita

Border - Creature di confine

 

Natasha Nussenblatt

The Irishman 

Joker

C'era una volta a... Hollywood 

Nell'erba alta

Noi 

Yesterday 

Ma 

Suspiria

La casa di Jack

Burning

 

Pierluca Parise 

The Irishman

Parasite 

La favorita

Vice - L'uomo nell'ombra

C'era una volta a... Hollywood

Noi 

Storia di un matrimonio

Joker 

L'ufficiale e la spia 

I fratelli Sisters 

 

Daniele Sedda

Parasite

The Irishman

Joker

Che fine ha fatto Bernadette?

Green Book

C'era una volta a... Hollywood

Il traditore

John Wick 3 - Parabellum

Burning

Dolor y Gloria

 

Jacopo Troise 

Parasite

The Irishman 

Cafarnao 

Dolor y Gloria

Il traditore

Vice - L'uomo nell'ombra

La favorita

C'era una volta a... Hollywood 

Joker 

Cena con delitto - Knives out

 

Enrico Tribuzio 

Parasite

La favorita

C'era una volta a... Hollywood

The Irishman

L'ufficiale e la spia

Joker

Il traditore

Il primo re

I morti non muoiono 

Midsommar

 

Teo Youssoufian 

The Irishman 

Parasite 

Cafarnao [se fosse uscito The Lighthouse in Italia... sarebbe qui]

Climax

La favorita

Dolor y Gloria

La casa di Jack 

Midsommar

Joker 

C'era una volta a... Hollywood

 



Posizione 8



Suspiria

di Luca Guadagnino

 

Seppur oggi sia difficile ragionare sull'impatto di questo film per i posteri, ciò che è certo è che questo è un'opera fortemente autoriale e questo, nell'era dei remake shot for shot e degli impacchettamenti di film già di successo per il pubblico americano, non può che rappresentare una nota di merito.

 

Questo Suspiria trasuda Luca Guadagnino da ogni poro.

 

Siamo a Berlino, e non a Friburgo, piovosa metropoli ancora profondamente lacerata dallo spettro del nazismo, divisa dal muro, e nella quale si affaccia un altra minaccia dai riscontri oscuri: il terrorismo.

È il 1977, l'anno di uscita del film di Dario Argento.

 

Patricia è l'esempio di quanto sia importante per Guadagnino il filo sottile, ma non troppo, che lega la storia di magia con il contesto storico; la ragazza infatti desidera utilizzare i suoi poteri a scopi politici, ma la pericolosità e l'impatto dell'ignoto è troppo grande per una semplice ballerina con degli ideali.

 

La prestigiosa compagnia di ballo Markos Tanz Company non si occupa più di danza classica ma contemporanea, l'edificio è austero nel bel mezzo della città, il Male non è il pericolo nei boschi o nei luoghi remoti in cui ci è sconsigliato di recarci soli fin da bambini.

 

Il Male è, come si suol dire, l'elefante nella stanza.

 

Suspiria è un film sul sonno della ragione che genera mostri.

 

Susie diventa la strega che la sua comunità amish l'ha sempre accusata di essere, così come le sacrosante rivendicazioni proletarie sfociano nella violenza, la danza come forma di riappropiazione del proprio corpo diventa l'esposizione viscerale di istinti arcani che non hanno nulla a che vedere con l'armonia, la proporzione e l'etica nell'arte.

 

Suspiria è anche un film sulla colpa: la colpa degli uomini nei confronti delle donne, del mascolino razionale che ha sempre mirato a zittire il femminino "magico", da sempre considerata una forza ancestrale tanto incomprensibile in un mondo in cui le regole vengono scritte da maschi.

 

Femmina è la terra che feconda e che distrugge, il principio entropico per cui nascita e morte sono inarrestabili, in contrapposizione alle divinità dogmatiche, che rappresentano una visione maschile di ordine e sicurezza.

 

Nella psicologia di Jung la Grande Madre è un archetipo creatore e distruttore.

 

Il film di Luca Guadagnino potrebbe essere tacciato di pretenziositá, di intellettualismo forzato, di una durata inutilmente eccessiva, ma vale la pena recuperarlo: non solo per il coraggio nel paragonarsi a un mostro sacro dell'horror nostrano e mondiale, ma anche per vedere interpretazioni davvero ottime da parte di attrici di cui ritenevamo impossibile averne una, come Dakota Johnson e Chloe Grace Moretz.

 

La Moretz, come Josef, ha avuto la sua redenzione dopo aver interpretato Carrie in uno dei remake più brutti della Storia del Cinema. 

 

E anche questo non è poco. 

 

[a cura di Lorenza Guerra]

Posizione 7

 

 

Storia di un Matrimonio

di Noah Baumbach

 

Da Kramer contro Kramer a La Guerra dei Roses fino all'attuale Storia di un Matrimonio il Cinema è pieno, quasi saturo, di pellicole dedicate al tema del divorzio.

 

Un problema da Primo Mondo che da un certo punto in poi nella Storia contemporanea ha preso ad ossessionare la società, prendendo nel mezzo vari sotto-argomenti come le battaglie per la custodia dei figli o le nevrotiche - e per chi parla, più interessanti - esagerazioni dell'amore che diventa odio e della passione che passa dal piacere carnale al gusto per il sangue.

 

Quello che contraddistingue il Cinema di Noah Baumbach non è solo la sensibilità narrativa che mette in sceneggiatura, ma anche la capacità di dare dei tagli molto personali a storie ordinarie o altrimenti riviste. 

 

Se ne Il Calamaro e la Balena il divorzio veniva visto attraverso lo sguardo di un bambino, quello che conosceva in quanto figlio di divorziati, in Storia di un Matrimonio il regista di Brooklyn si concentra sulla coppia, forse anche grazie al recente divorzio da Jennifer Jason Leigh - anche se Baumbach ha negato possibili influenze, affermando di aver speso molto tempo a parlare con amici e conoscenti andati incontro all'esperienza.

 

Quello che colpisce del modo in cui Baumbach racconta il suo Storia di un Matrimonio è il livello umano, la comicità frenetica, le idiosincrasie, il dinamismo delle battute, anche nelle litigate, evitando di enfatizzare il dramma e comunicando anche attraverso i sentimenti contrastanti.

 

La regia diventa importante e la scrittura, di per sé brillante, si fa ancora più preziosa grazie alla comunicazione per immagini che vuole trasmettere come dentro ai due protagonisti vi sia una potente guerra ideologica.

 

I personaggi di Adam Driver e Scarlett Johansson - entrambi qui in una prova straordinaria di recitazione - sono chiaramente innamorati delle rispettive personalità, si sono amati e in una certa misura continuano ad amarsi, soffrendo per la situazione nella quale si sono cacciati, continuando a credere nell'amore e rimanendo quasi increduli ogni qual volta il divorzio si fa più reale.

 

Storia di un Matrimonio è un film che crede nell'amore, che ha tenerezza, che vive di una componente comica molto presente e la utilizza come valvola di sfogo grazie alle idiosincrasie dei due avvocati e alle discussioni, accese o semplicemente esilaranti, tra i personaggi, seguendole con una regia fluida e attenta. 

 

[a cura di Alessandro Dioguardi]

Posizione 6



Joker

di Todd Phillips  

 

Joker è stato uno dei film più sorprendenti di questa annata cinematografica.

 

Il regista Todd Phillips, assieme alla grande interpretazione di Joaquin Phoenix, realizza forse il più autoriale tra i film tratti dai fumetti visti fino ad ora sul grande schermo.

 

Fin dalle prime inquadrature il film si presenta come una pellicola di natura Art House, e mantiene questa identità fino all’ultimo fotogramma.

Il contrasto tra questo tipo di Cinema e la figura pop di un personaggio come Joker lo rende un film davvero unico nel suo genere. 

 

Sono chiari anche i riferimenti al cinema di Martin Scorsese e di John Carpenter, due tra i registi che più hanno posto al centro delle proprie opere una forte critica sociale al sistema reaganiano degli anni ’80. 

 

Joker è infatti ambientato nel 1981, all'inizio del mandato presidenziale dell'ex attore, in una Gotham ormai allo sfacelo economico-sociale che richiama la New York dell'epoca colpita da una forte disparità economica. 

 

Arthur Fleck è una delle vittime di quel disagio sociale: una volta arrivato al limite a causa delle vessazioni da parte delle prossimi, che sia esso la popolazione di Gotham o l’establishment, decide di prendere in mano la propria vita sentendosi così finalmente libero. 

 

Il film scava a fondo nella psicologia del protagonista, come i motivi che hanno portato al suo disturbo che gli causa risate incontrollate nei momenti di stress e a ciò che lo ha fatto diventare Joker, specchio della società, che alimenta la sua follia in un rapporto simbiotico. 

 

Gli aggettivi per descrivere la bravura di Phoenix si sprecano.

Un attore dalla carriera strabiliante, che anche in questo film si conferma come uno dei migliori attori del cinema contemporaneo. 

 

Il film ha vinto il Leone D’oro alla Mostra di arte cinematografica di Venezia, mettendo d’accordo critica e pubblico di tutto il mondo, divenendo così sia opera d’arte che fenomeno popolare.

 

[a cura di Kevin Hysa]

Posizione 5

 

 

La Casa di Jack

di Lars von Trier  

 

La Casa di Jack, attraverso una sorta di narrazione in prima persona, prende lo spettatore per mano, fredda e ruvida come la corteccia di un albero, e lo guida nei reconditi della mente di un serial killer, facendo dei suoi pensieri, le sue elucubrazioni, le sue allucinazioni e i suoi deliri fonte costante di invenzioni visive e di messa in scena, tramutando un mostro e un sociopatico in un personaggio che per il pubblico è fonte di divertimento e di disgusto.     

 

Il serial killer come forma di divismo, soluzione ultima e disumana della ricerca di quella fama, egocentrismo supremo e malato dell’umano peggiore, il cui mantra sincopato e ipnotico è Fame di David Bowie, rimbombando l'idea che Jack voglia soltanto essere qualcosa oltre se stesso e l'uomo, esternando l'esplosione di un io completamente assente e che deflagra in un alterego più grande di ogni cosa possa gestire.  

 

“Fame, (fame) what you like is in the limo  

Fame, (fame) what you get is no tomorrow   

Fame, (fame) what you need you have to borrow   

Fame Fame, (fame) it's mine, it's mine, it's just his line   

To bind your time, it drives you to crime (fame)”    

 

Eppure Jack non viene mai mitizzato in modo eroico e Lars von Trier non cerca mai soluzioni che vogliano, come capita nei film peggiori, umanizzare un personaggio che di umano non ha più nulla ed è solo astrazione del male in quanto perdita di ogni empatia.    

 

La Casa di Jack, che si muove tra gli anni '70 e gli '80, ha la potenza di un autore che costruisce un horror psicologico racchiudendo, in un unico uomo, tutte le malattie e gli oscuri segreti dei peggiori serial killer della storia.  

 

Un film fastidioso nell’accendere la pelle d’oca dell’istinto, delle strizzate di budella, della consapevolezza logica che quanto vediamo a schermo, per quanto estremizzato, è effettivamente frutto di qualcosa che potrebbe succedere ed è successo e non è la parabolica e divertente messa in scena di concetti soprannaturali, conditi da archetipi e cliché orrorifici.

 

Quello raccontato da von Trier, in un qual senso, è un disturbante sunto romanzato di cronaca.

 

Il regista disegna l’evoluzione di questo assassino con mano ferma, utilizzando le immagini con una messa in scena graffiata, pop e provocatoria come la musica dei migliori artisti cresciuti in quella decade, pungolando lo spettatore senza nessuna remora, mostrando anche esplosioni di violenza - una in particolare è quella che ha portato molta gente a lasciare la sala di Cannes - oltremodo crude, forti, quasi borderline nella loro assoluta insensibilità. 

 

La Casa di Jack gode di un Matt Dillon in forma stupenda, di una regia interessante e ispirata e di una sceneggiatura intelligente che, molto probabilmente, vi perseguiterà per molto tempo, scavando nelle figure più oscure e disturbanti che abbiano mai calcato questo mondo.  

 

[a cura di Alessandro Dioguardi]

Posizione 4



La Favorita

di Yorgos Lanthimos

 

Gran Bretagna, 1708.

Lo sfarzo, l’ostentazione, l’eccesso.

 

Già dal titolo, si ha subito l’idea che in ci troveremo davanti a una realtà gerarchia, una distribuzione di importanza che si svilupperà in verticale, come un movimento ascensionale.

Favorire qualcuno, dargli qualcosa in più, dare a uno e non all’altro.

 

Il troppo ci viene sbattuto in faccia fin dall’inizio con il sontuoso mantello della regina Anna (Olivia Colman) che viene svestita nella sua stanza, una stanza in cui abbiamo difficoltà ad individuare le pareti, a distinguerle dagli arredi.

 

È tutto un mare di tende, drappi, carta da parati, decorazioni, oro, quadri, frange, mobili, mobili ovunque, mobili con vasi, mobili con gioielli, mobili con sopra piatti e coppe d’argento che a loro volta contengono torte tra le più farcite, dolci di ogni tipo, cibo, cibo, sempre cibo, pronto perché la regina possa ingozzarsi fino a vomitare facendo per un attimo sentire svuotato anche lo spettatore.

 

Solo per un attimo.

 

È troppo il trucco sui volti degli uomini, tutto quel cerone, il rossetto, i finti nei, ingombranti le loro parrucche ricce.

 

È eccesivo il modo di mostrare il mondo che viene addirittura distorto dalle lenti supergrandangolari della macchina da presa. 

 

Il regista Yorgos Lanthimos ci tiene quasi sempre al chiuso del Palazzo, mostrandoci da vicino le vite dei personaggi e facendoci percepire in maniera ovattata la guerra che si combatte all’esterno, contro la Francia.

 

La regina Anna è sempre troppo insofferente o distratta per prendere decisioni e riflettere sul da farsi in maniera adeguata, dunque alla guerra non viene data attenzione neanche quando il consiglio si riunisce nella stanza di Sua Maestà.

 

Vediamo anche che esistono dispute interne tra gli esponenti dei Whig e dei Tory che orbitano attorno alla Regina ma, che il potere venga preso da una fazione o dall’altra del consiglio, nessuno cadrà davvero in rovina: potranno cambiare le sorti dei soldati, fisicamente sul campo di battaglia, quelle della gente delle campagne, ma all’interno del Palazzo si tradurrà tutto in una questione di solo prestigio.

 

Significherà poter guardare dall’alto verso il basso chi ha perso (ancora movimenti verticali), ricordando costantemente agli sconfitti chi sono ora i favoriti.

 

Questa solo la cornice tutt’intorno alla vera lotta per essere La Favorita: due pretendenti e la voglia di prevalere l’una sull’altra che finisce per condizionare qualunque loro azione.

 

Sarah (Rachel Weisz), fidata consigliera di Queen Anne, né Abigail (Emma Stone), cugina di Sarah caduta in disgrazia e trasferitasi a palazzo, potranno mai arrivare all’altezza di Sua Altezza.

 

Lo sanno bene entrambe ma si daranno la morte (?) per provare ad occupare il gradino subito inferiore a quello della regnante.

 

Abigail capisce che, per mettersi al sicuro da un nuovo scivolone in fondo scala sociale, deve agire con freddezza, senza scrupoli, unico modo per sopravvivere a quell’ambiente ostile di arrivisti.

 

Anche i cuori più puri e gli animi più nobili, se circondati da falsità, invidia, gelosia, in balia dei vorticosi giochi di potere, possono smarrirsi, più o meno consciamente, cedere alla corruzione e prendere la strada del non ritorno.

 

È pura sopravvivenza.

È istinto animale contro la sopraffazione dei propri simili.

 

In un branco il capo è unico, non esistono due leader e se ci sono due contendenti l’equilibrio verrà raggiunto quando ne rimarrà soltanto uno.

 

Seppur bestie, i diciassette conigli della regina Anna convivono pacificamente insieme come fossero una famiglia: hanno qualcuno che bada a loro.

Seppur esseri umani, Sarah e Abigail si comportano da bestie nonostante loro siano davvero parte della stessa famiglia: c’è chi teoricamente dovrebbe badare al popolo inglese tutto, dunque in un certo senso anche a loro, ma in realtà non è neanche capace di badare a sé.

 

Un interessante parallelismo che fa riflettere sulle dinamiche sociali.

 

Dieci nomination agli Oscar tra cui Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attrice non Protagonista sia per Emma Stone che per Rachel Weisz, Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Fotografia, Miglior Montaggio, Migliori costumi, Miglior Scenografia e, ciliegina sulla torta, quello per la Migliore Attrice Protagonista vinto dall’immensa Olivia Colman che si presentava all’Academy avendo già nel suo palmarès le vittorie del Golden Globe per Migliore Attrice in un film Commedia o Musicale e della Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Femminile.

 

[a cura di Morena Falcone]

Posizione 3

 


C'era una volta a... Hollywood

di Quentin Tarantino

 

Il Cinema, Los Angeles e il 1969.

Un trittico inscindibile nella mente di Quentin Tarantino.

 

Un trittico che, infatti, non solo non si scinde mai ma è alla base e nell'essenza narrativa di C'era una volta a... Hollywood, ultima fatica del regista nativo di Knoxville. 

 

Il Cinema nel bel mezzo della sua transizione verso la New HollywoodLos Angeles come specchio deformante di un'America attraversata da contrasti e divisioni; il 1969 come scenario in cui ciascuna delle nuove istanze artistiche e sociali affiorava, portando con sè la freschezza della nuovo e la forza bruta con cui l'emergente annichiliva il vecchio.


Il 1969, dunque, a cavallo tra novità e nostalgia.


Uno scenario in cui i personaggi che devono ritrovare il proprio posto nel mondo sono tanti e si muovono confusamente al ritmo della musica passata dalle radio: non importa se sei una star emergente, un grande nome di Hollywood, una giovane hippie o uno vecchio stuntman, il 1969 è una terra di confine.

 

Tutto ciò è presente nella nona pellicola di Quentin Tarantino, interamente attraversata dalla necessità di restituirci la patina di quella Los Angeles nell'ultimo anno dei sweet sixties

Quell'atmosfera al contempo così tangibile e così lontana che risulta fondamentale per conferire all'opera un senso di sospensione essenziale per la riuscita del film.

 

La vita quotidiana e i chiaroscuri di tre personaggi tutt'altro che ordinari sono il mezzo attraverso cui il regista ha scelto di raccontarci la Hollywood del 1969 ma anche molto di sè stesso: la sua passione per le storie che gravitano attorno ai set, per gli aspetti più nascosti e artigianali della Settima Arte, per il cinema di genere nostrano.


Ma anche la sua voglia di sfatare dei miti per crearne degli altri, la sua necessità di manipolare la Storia.

 

Il tutto è perseguito inaspettatamente senza eccessi, attraverso una messa in scena che trasuda una cura maniacale per i particolari e, soprattutto, grazie a una scrittura sobria e matura che permette alla narrazione e alla caratterizzazione dei personaggi di procedere di pari passo prendendosi i propri tempi.

 

In C'era una volta a... Hollywood tutte le storyline sono decostruite senza mai essere sfilacciate, seguendo da vicino e tratteggiando -con la dovizia di particolari tipica del cinema di Tarantino - ciascun personaggio, prima di ricomporsi per il climax finale che lascia tutti a bocca aperta.


Un climax che, probabilmente, condensa al meglio la quarta colonna portante di questa pellicola secondo il regista: l'amore più puro.

Quell'amore che porta Tarantino a mettere in scena quello che probabilmente verrà ricordato come il suo finale più poetico nel suo film, forse, più personale.

 

[a cura di Jacopo Gramegna]

Posizione 2

 

 

The Irishman

di Martin Scorsese

 

Parlare assennatamente di The Irishman non è affatto facile. 

 

L'ultima opera di Martin Scorsese è qualcosa di gigantesco, non solo nella durata ma nel significato, nella messa in scena e in tutto ciò che rappresenta. 

 

Vado oltre l'ovvio e non mi soffermerò sul romanzo da cui è tratto né sulla trama in senso stretto, perché mi auguro che tutti coloro che stanno leggendo queste righe abbiano già visto il film. 

 

Un film che personalmente faccio un'enorme fatica ad affrontare perché vedendolo al cinema mi ha fatto sentire piccino, insignificante, inutile. 

E sono ancora oggi convinto che non sia in grado di parlarne, tanta è l'importanza che a mio avviso ha questo film all'interno dell'intera Storia del Cinema. 

 

Fin dall'inizio The Irishman svela di essere un film che vuole parlare del tempo che passa e degli effetti che il Tempo ha su di noi, sulla società, sulle persone e sui rapporti che intercorrono tra loro. 

 

Scorsese sceglie di muoversi nell'ambiente a lui più congeniale, quello del gangster movie, spostando però l'attenzione dalle azioni dei personaggi alle conseguenze che esse hanno o non hanno: i due importanti fatti storici raccontati, l'omicidio di John Fitzgerald Kennedy e la scomparsa di Jimmy Hoffa, trovano qui una risposta e una soluzione che però non rubano la scena. 

 

Il personaggio di Robert De Niro è il meno carismatico e il più semplice di tutto il cast, ma lo è per una precisa scelta: è una sorta di vascello che attraversa le storie e la Storia e che le - e la - cambia senza che ciò lo scalfisca, preoccupato com'è di fare sempre la cosa giusta che possa soddisfare colui per il quale sta lavorando. 

È una barchetta di carta lasciata su un fiume, una foglia che vola nel vento. 

 

Il Tempo che passa è un tema fondamentale del film anche metacinematograficamente parlando: Scorsese, De Niro, Pacino, Pesci messi assieme arrivano a 300 anni di vita e a 200 anni di carriera, ed è inevitabile guardando The Irishman pensare che questo potrebbe essere l'ultimo grande film di tutti loro. 

 

E come si confà a chi raggiunge una certa età anche il film è costruito soprattutto sui silenzi e sui non detti: uno dei pregi a mio avviso della sceneggiatura del già premiato Steven Zaillian sta nel fatto di far parlare i protagonisti senza però che dicano tutto ciò che ci sarebbe da dire, perché leggono tra le righe, comprendono, ci arrivano prima della parola pronunciata. 

 

In questo, il personaggio della figlia di Sheeran che comprende e giudica in silenzio è sintomatico ed esempio di una grandissima sceneggiatura e un'altrettanto grandissima regia. 

 

Al tempo stesso anche il montaggio del film è costruito in questo modo, con delle ellissi temporali piccole e grandi e dei salti avanti e indietro nei decenni, che lasciano che sia lo spettatore a colmare i vuoti di ciò che non viene mostrato. 

 

Perché non c'è sempre bisogno di dire e mostrare tutto, ci si arriva da soli. 

Perché l'affanno di dire tutto ciò che ci passa per la testa è cosa da giovani, da irrequieti, non da attempati signori che cercano pace e tranquillità anche se per lavoro truffano, uccidono e comandano. 

 

Sono gli sguardi a decidere tutto, quelli tra Bufalino e Sheeran, tra Hoffa e i suoi lavoratori rappresentati, gli sguardi che il Cinema di Scorsese ci continua a lanciare addosso in un'epoca che sembra aver perduto la voglia di farsi raccontare una storia, e fa niente se questa storia ci occupa un pomeriggio intero. 

 

La diatriba tra Marvel Movies e Martin Scorsese ha tenuto banco negli ultimi mesi ma The Irishman dimostra alla perfezione cosa il cineasta newyorkese intendesse dire: non c'è bisogno necessariamente di supereroi e di mondi da salvare per emozionarsi, basta una storia di uomini che hanno a che fare con altri uomini. 

Dove le donne sono poste in un misogino secondo piano perché la storia è quella che ci viene raccontata dallo stesso Frank Sheeran, ed è con i suoi occhi che vediamo la Storia degli Stati Uniti, di Hoffa, di Kennedy, della criminalità organizzata, di "Tony Pro". 

 

E chissà quanto di vero c'è, in questa storia. 

 

Ma ha davvero importanza all'interno del grandissimo disegno del Cinema e del Tempo? 
Io credo di no. 

Penso che la cosa importante sia che The Irishman sia una bellissima storia di un uomo che si guarda indietro sapendo di non avere più molto tempo davanti. 

 

Una storia come potrebbe raccontarcela un nonno, che magari inventa e abbellisce alcune situazioni e ne omette delle altre. 

 

Una storia di uomini, di tempo e di silenzi, di verità e di lealtà, di onore e omicidi, di malavita e di amicizia, trent'anni di società statunitense racchiusi in una storia raccontata da un piccolo uomo che chiede al mondo solo un po' di attenzione, per farsi ascoltare. 

Un film che se oggi non è stato apprezzato dalla Generazione Netflix lo sarà più avanti, grazie anche al tempo che inevitabilmente passerà e cambierà le cose e le prospettive. 

 

Perché ce lo insegna anche il film: il tempo passa, e non c'è modo di fermarlo.

Se non per qualche ora, raccontando una storia. 

 

[a cura di Teo Youssoufian]

Posizione 1

 

 

Parasite

di Bong Joon-ho

 

Dopo essere stato il primo lungometraggio sudcoreano a vincere la Palma d’Oro al Festival del Cinema di Cannes ed essere acclamato internazionalmente da critica e pubblico, Parasite non poteva non trovarsi alla prima posizione anche di questa classifica dei migliori film del 2019. 

 

L’ultima opera di Bong Joon-ho viene già considerata una delle più significative degli ultimi anni per l’originalità con cui denuncia uno dei maggiori problemi della società contemporanea: si tratta, infatti, di una parabola sulle diseguaglianze raccontata in forma di satira sociale.

Un tono mantenuto leggero volutamente solo in apparenza per rendere ancora più incisivo il messaggio di fondo.

 

Una delle grandi forze del film risiede nella sua trasparenza, che permette di dipingere in modo chiaro e diretto il profondo divario tra le classi sociali e le gravi conseguenze che esse comportano.

 

Per essere ancora più descrittivo, il regista fa un sagace utilizzo degli spazi e dell’architettura in cui rispecchia la divisone degli ambienti della scala sociale: in basso i poveri, relegati in aree anguste e soffocanti, in alto i ricchi, dove vivono comodamente in spazi aerati o aperti. 

 

Parasite è, di conseguenza, anche una feroce critica al sistema capitalistico odierno, colpevole di avere formato una società in cui le diseguaglianze non solo hanno portato le classi sociali a distanze smisurate, ma anche all’incapacità di comprendersi a vicenda.

E quando manca la comprensione arriva l’intolleranza, e con essa il disprezzo.

 

Inutile dire, però, chi ne esce maggiormente sconfitto: la classe meno abbiente non viene solamente disdegnata in quanto tale, ma addirittura considerata come vero e proprio scarto o immondizia della comunità.

 

Il film, quindi, mostra come questo sistema abbia creato dei gruppi sociali subordinati che per sostenersi vivono tramite espedienti sulle spalle dei gruppi dominanti, senza i quali non troverebbero sopravvivenza.

 

Tuttavia, i padroni non sarebbero propriamente tali in assenza dei servi: chi è quindi più dipendente dall’altro?

Chi è il vero parassita?

 

Parasite, come se non bastasse, riesce a spingersi oltre e a mostrarci la vera natura della nostra società.

 

Ci espone il legame tra la disparità di opportunità che essa offre e un sistema economico che provoca una feroce concorrenza nei piani bassi, spingendo i più bisognosi a calpestare il concetto di solidarietà che dovrebbe accomunarli e a lottare fino all’ultimo sangue gli uni contro gli altri per sopravvivere.

 

Proprio come animali. 

 

La lotta di classe è ormai un concetto ampiamente superato: il sistema si è aggiornato ed esige una selezione naturale, ovvero un violento conflitto all’interno della stessa classe sociale (ovviamente sempre quella svantaggiata) in cui l’umanità è solo un lontano ricordo.

 

Ma la vera importanza di questo film sta soprattutto nel suo sconfortante realismo.

Come una forte doccia gelata, Bong Joon-ho vuole constatare che al giorno d’oggi non è possibile sviluppare un modello economico e sociale alternativo a quello delle diseguaglianze. 

 

Una consapevolezza amara, ma necessaria per riflettere sull’estrema ingiustizia che determina le condizioni di vita degli esseri umani che vivono nella medesima società.

 

Pochissimi film riescono in questo intento: anche per questo motivo Parasite è secondo noi il miglior film del 2019.

 

[a cura di  Jacopo Troise]



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1 commento

Morena Falcone

4 anni fa

Le Mans 💛

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