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Aragoste a Manhattan è il nuovo film di Alonso Ruizpalacios, distribuito in Italia da Teodora Film.
Nelle vie anonime ai margini della brulicante Times Square di New York c’è l’entrata di servizio del The Grill, un noto ristorante per turisti di Manhattan, e della sua opprimente cucina dove lo chef messicano Pedro (Raùl Briones Carmona) e una folta banda di disgraziati immigrati irregolari si guadagna da vivere nel sottosuolo della Grande Mela.
Alla follia della cucina si aggiunge quella personale di Pedro, sospettato di furto, minacciato di licenziamento per i suoi comportamenti intemperanti, innamorato della cameriera Julia (Rooney Mara) dalla quale aspetta un bambino.
[Il trailer di Aragoste a Manhattan]
Quella del The Grill è solo l’ennesima cucina da incubo sul grande schermo con il suo corredo di personaggi e comportamenti deliranti, ma Aragoste a Manhattan è una storia di immigrazione negli USA in bianco e nero, ristretta nel confine angusto del formato in 4:3, più simile a un girone infernale che a un luogo di lavoro.
Il sotto è una Torre di Babele di lingue e nazionalità, allegramente abituate al caos dei fornelli e a quella vita a metà tra lo spagnolo e l’inglese, un po’ persa nella traduzione; il sopra, perfettamente lindo e tranquillo, è riservato ai nativi e a coloro che si sono impadroniti dell’idioma locale.
Alonso Ruizpalacios ripulisce la narrazione dal colore e da ogni possibile deriva da food porn mettendo a nudo la metafora della cucina come un non-luogo di segregazione, claustrofobico e opprimente, in cui l’immigrato è schiacciato tanto dalla discriminazione della provenienza quanto da quella più perfida del capitale, che non risparmia nessuno; in Aragoste a Manhattan il manager bilingue Luis cerca il ladro che ha sottratto alla cassa 800 dollari, Julia cerca una via d’uscita dalla gravidanza indesiderata, Pedro cerca nel sogno immaginato e sofferto della fuga la salvezza dalla follia di una vita sospesa a metà.
Tra il sotto e il sopra, tra l’inglese e lo spagnolo.
[Il regista di Aragoste a Manhattan intervistato da Marco Lovisato per CineFacts]
La disumanizzazione dei rapporti umani completamente asserviti alla funzione produttiva diventa il cuore di Aragoste a Manhattan, impresso in quel bip bip incessante della stampante che resiste anche alla disgregazione e all’arresto forzato della produzione in quell'isolato e flebile sprazzo di colore verde.
Il bianco e nero di una vita imprigionata nel limbo tra l'essenza e la semplice esistenza trova un'eccezione cromatica in sole due scene, simbolicamente associate alle uniche due esperienze umane in grado di sopravvivere al caos e alla disperazione imponendosi con urgenza imperiosa: l'amore e il capitalismo, rispettivamente associate ai colori blu e verde.
Nonostante le buone intenzioni e l’interpretazione furiosa di Carmona Aragoste a Manhattan dimostra più sofisticazione sotto il profilo estetico e di sperimentazione del linguaggio cinematografico, trascurando di usare la stessa attenzione sotto il profilo narrativo.
La metafora della cucina purtroppo a mio avviso tende a scaricarsi prima del tempo in rivoli narrativi un po’ troppo prevedibili e non sempre controllabili.
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