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Il ritmo della Storia - Conversazione con Gianluca Minucci

Una chiacchierata a partire da Europa centrale, andando spesso a ritroso

Ho incontrato Gianluca Minucci dopo aver visto Europa centrale, il suo esordio al lungometraggio, presentato al Torino Film Festival 2024.

 

Ultimata la trascrizione di quella che più che un'intervista è stata una lunga conversazione, io e Gianluca Minucci abbiamo definito a quattro mani una versione conclusiva, dotata di lievi correzioni e di aggiunte rilevanti: per segnalare la composizione in due tempi, le postille più incisive sono segnalate graficamente in corsivo. 

 

[Il trailer di Europa centrale]

 

 

Mattia Gritti

Dai tuoi primi cortometraggi a questo lungometraggio sono passati circa dieci anni, inframezzati - tra le altre cose - da esperienze di livello nell'ambito del videoclip: cos'è successo in questo lasso di tempo?

 

Gianluca Minucci

È stato un periodo molto lungo e travagliato emotivamente. 

Nel 2018 volevo mollare tutto perché gli ambienti del videoclip e della pubblicità sono parecchio complicati: ti devi relazionare con la committenza, con etichette discografiche che non hanno le idee chiare, e spesso - ancor più che nel Cinema - è un gioco al massacro, ma è stata un'esperienza che mi ha temprato; mi ha insegnato a gestire budget più bassi e a rapportarmi con persone mosse da altri interessi. 

Ho imparato a tenermi un po' a bada: non sono uno yes-man, ma in fin dei conti è stata un'educazione sentimentale.

Ho potuto capire anche le necessità dell'altro, che spesso non sono artistiche, ma che sono ugualmente valide.

Nel 2018 però ho mollato tutto e mi sono dedicato all'insegnamento.

 

Europa centrale è nato dal nulla, come sfogo di scrittura e, come tutte le cose che nascono per caso, è quella che è andata a buon fine con il ministero.

Non me lo sarei mai aspettato: inizialmente ho risposto al bando ministeriale "from the cameretta" [ride, ndr].

Sono bandi complessi e abitualmente sono dei team a rispondere, mentre io ero in soggiorno a scervellarmi sui cavilli burocratici, ma alla fine sono grato al Ministero, che ha permesso di realizzare questo film così peculiare e diverso.

 

MG

Nell'arco dei dieci anni quella di Europa centrale non è stata quindi una gestazione così lunga?

 

Gianluca Minucci

In questi anni purtroppo ho vissuto negli Stati Uniti.

Per cinque anni sono stato a Los Angeles, una specie di inferno dantesco, e mi sono dedicato a sviluppare un film insieme a dei produttori e all'agenzia che mi rappresentava, ma dopo una quarantina di riscritture mi sono reso conto che forse stavo buttando via la mia vita. 

Lavoravo alla versione in lungometraggio di Chimeras [cortometraggio uscito nel 2014, ndr], che aveva avuto un buon successo ed era stato notato da alcune agenzie.

Un'agenzia di Los Angeles ha iniziato a rappresentarmi e per cinque anni mi sono dannato la vita. 

 

Avevo voglia di dirigere il mio primo lungometraggio e quindi ho seguito i consigli che mi venivano dati; più che consigli, però, erano un ottundimento dei sensi.

Il lungometraggio doveva essere un dramma, come Chimeras, ma stava diventando una black comedy in stile Fratelli Coen. 

Amo i Coen ma non volevo fare un prodotto così derivativo. 

Dopo cinque anni è arrivato un momento di lucidità: mi sono svegliato e, rileggendo la sceneggiatura, mi sono reso conto che non ero più io, che non c'era più nulla di quello che sentivo. Allora ho deciso di fermare tutto, anche perché non c'era una grande concretezza. 

 

Non ho grande simpatia verso quelle dinamiche tipicamente statunitensi: ti riempiono di promesse e se uno è giovane magari ci casca, così dopo cinque anni mi sono ritrovato con un pugno di mosche in mano e sono rientrato in Italia. 

Prima di scrivere Europa centrale, peraltro, ho anche riadattato la sceneggiatura del lungometraggio tratto da Chimeras per il mercato europeo, ambientandola durante le guerre jugoslave.

Io sono triestino, perciò quelle dinamiche le ho vissute, le sento molto anche se non se ne parla più.

Dopo la riscrittura, però, per due anni non ho trovato nessuno sbocco produttivo; di conseguenza ho deciso di tagliare la testa al toro: ho cercato di ridurre l'impianto logistico, scrivendo un dramma da camera da poter girare in una sola location, per abbassare i costi.

In questo modo ho potuto realizzare Europa centrale, che in Italia è considerato un film a basso budget.  

 

MG

La predominanza degli interni, a mo' di Kammerspiel, è un tratto che però caratterizza già Il taglio e, in misura minore, Chimeras: la motivazione è quindi principalmente produttiva oppure scaturisce anche da altre esigenze?

 

Gianluca Minucci

È proprio un'altra esigenza.

Credo fosse Paul Thomas Anderson che diceva che se non sai come iniziare un film, basta far sedere due persone in un diner e farle parlare del caffè.

David Mamet sosteneva qualcosa di simile. Il contesto dà tantissimo: metti due persone in un diner di confine e ti si apre un mondo. 

Metti due persone in un treno con delle carrozze piene di velluto rosso e ti si apre un mondo: quando ho visto [al Museo ferroviario, ndr] il rosso delle carrozze di Budapest ho pensato fosse un bordello e infatti lì è ambientata la scena dedicata ai fascisti. 

Nel caso de Il taglio, che è un coming of age, la barberia concretizza il tramandarsi dell'artigianato di padre in figlio. 

 

Quando inizio a scrivere parto proprio dalle location, come fossero una bolla amniotica, una placenta che contiene il microcosmo dei personaggi.  

 

 

[Un frame da Europa centrale]

 

 

MG

Hai parlato di conversazioni da diner ma Il taglio è completamente sprovvisto di parola.

Semmai prevale un dialogo corporeo, ritmico. 

 

Il ritmo è un elemento fondamentale dei tuoi lavori: oltre che non-verbale, il ritmo de Il taglio è dato anche dalla dilatazione dei tempi, in un gioco tutto cinematografico di compressioni ed espansioni.

In Chimeras emerge invece una dimensione più verbale, e forse Europa centrale, in fin dei conti, cerca di sintetizzare questa doppia ricerca del ritmo.

È sicuramente un film ricco di parole ma - al contempo - è anche un'opera che, soprattutto nelle incursioni più anti-realistiche, oniriche, anche trascendenti, rincorre un'altra musicalità, come suggerisce il commento di Zbigniew Preisner.

Non che la sintesi debba passare per la giustapposizione: anche le parole di Europa centrale, con il loro carico patico e situazionale, vanno al di là della significazione puramente razionale.

Ecco: in questo senso, vorrei sentire cos'hai da dire sul tempo inteso in termini filmici.

 

Gianluca Minucci

Europa centrale è proprio una sintesi, anche dei videoclip che ho diretto.

L'idea è quella di cogliere il tempo come sentimento dell'animo, un po' come ci insegna Bergson, dilatarlo quando il personaggio lo richiede, strizzarlo, schiacciarlo, spremerlo come nei momenti paranoici del film.

Voglio stravolgerlo evitando il chronos, il tempo lineare, e lavorando invece su un tempo quasi circolare, che i Greci avrebbero definito l'aion.

Così il tempo può diventare a sua volta un personaggio, sulla base dello stato d'animo del momento, secondo un processo che può emergere già in fase di sceneggiatura.

Si può creare una dilatazione attraverso delle banali reiterazioni, come insegna straordinariamente Mamet. 

Un suo personaggio può dire otto volte "allora" e da lì sorge un via vai di dirsi nulla…  

 

MG

Che però è ritmico…

 

Gianluca Minucci

È ritmico e dice tutto - come appunto tu mi dici - al di là della significazione puramente razionale.

Anche Cassavetes, autore che amo, aveva questa drammaturgia dell'eccesso, in termini di dilatazione del mondano (barzellette, "chiacchiere inutili", canti, ecc), che trovo meravigliosamente musicali, e significativi.

Da piccolo ho studiato pianoforte per tanti anni: non ricordo nulla dal punto di vista pratico, ma sento profondamente questa dimensione musicale. Curiosamente ai miei music video veniva spesso imputata una mancanza di ritmo: ormai ci si aspetta un taglio ogni due-tre secondi, ma il ritmo è una ripetizione all'interno di un fraseggio, di una battuta, in cui emergono dei picchi, delle dominanti. 

Di conseguenza, l'idea è di fare un lavoro di implosione, lavorando all'interno dell'immagine, facendola implodere.

 

Una messa in piega più che una messa in scena, citando il Deleuze de L'immagine-tempo.

È un trucchetto che mi diverto molto a fare, quando preparo ogni singola inquadratura: prendo un foglio bianco, e mi domando cosa può accadere sia da un punto di vista filmico che di profilmico.

A ogni "dominante" (un movimento di macchina da presa? un dinamico di luce? un movimento degli attori?) piego il foglio a metà.

Altra dominante, altra piega. E via dicendo. 

L'obiettivo è far diventare un foglio A4 un bigliettino tutto piegato, di quelli che alle scuole medie lasciavamo un po' intimoriti alle ragazze.

Ecco il tempo, che è appunto sempre interno – l'immagine che viene spremuta, come un arancio. 

 

Paul Schrader ha scritto un saggio illuminante [intitolato Il trascendente nel Cinema, ndr] sulla componente trascendente che hai menzionato. 

Un altro grande regista [Andreij Tarkovskij, ndr] direbbe che si tratta di scolpire il tempo, di trascenderlo per poi dilatarlo.

Succede anche in letteratura: in James Joyce hai un monologo di due pagine in stream of consciousness di Molly Bloom e poi invece il capitolo nella redazione giornalistica che mima, foneticamente e simbolicamente, una guerra in trincea, dove le parole sono usate come delle bombe, attraverso una scrittura che di primo acchito sembra non sense, ma che in realtà ci dice tutto, raccontando un mondo.

Si passa da un adagio a un allegro con fuoco.

Credo che ci siamo dimenticati della funzione del tempo nel Cinema: è un'implosione, ma è anche un'esplosione dello stato emotivo dei personaggi.

 

Realizzando Europa centrale ho ricevuto alcuni feedback negativi: per esempio, guardando l'inquadratura di oltre due minuti dedicata alla lettera di Gerda, molti lamentavano la mancanza di un primo piano, ma quella scena l'abbiamo girata così perché doveva essere girata così, perché doveva esserci un'implosione. 

È un lavoro continuo di stasi e rilascio, tra gli sguardi e i microvimenti degli occhi di Matilde Vigna, che interpreta Gerda, la voce di Tommaso Ragno, appositamente impallato dal primo piano di Matilde, il sound design di Thomas Giorgi che riprende la Passacaglia di Penderecki solo con i suoni del treno, ecc. 

 

È come il movimento sistolico e diastolico del cuore o come, per i cinesi, il movimento del bruco: quando si muove, il bruco si allarga e si chiude, si allarga e si chiude.

È un ottimo esempio per la vita, che è un perenne bilanciare tra un dare e un avere. 

Credo sia così anche per il Cinema: dovrebbe essere un allargarsi e un chiudersi in termini di ritmo, di tempo interno all'immagine, e non solo di linea dritta del chronos, della trama, per poter creare un'esperienza che non vada solo nel quotidiano ma che riesca a impelagarsi anche nel ginepraio dell'inconscio.

 

MG

Il riferimento a Joyce mi sembra allora fondamentale in più modi, anzitutto per il suo carattere mitteleuropeo, su cui torneremo, ma anche per la relazione che connette la dimensione musicale al regno dell'inconscio e il primo Joyce, quello delle epifanie, mette forse in gioco, più che l'aion, il kairos.

Mi pare che, parlando di trascendente, Europa centrale sia un film costellato di tante piccole epifanie, prendendo questo termine non tanto in maniera intellettualistica ma puntando semmai al mondo emotivo, al mondo come emozione. 

 

Il mondo emotivo travalica gli individui, li sconfessa in quanto nuclei autonomi ed Europa centrale incontra i suoi personaggi in trame sentimentali che li coinvolgono costantemente, facendoli esplodere e implodere.

Quello cairologico è un orizzonte che ritrovi nel tuo lavoro?

 

Gianluca Minucci

Assolutamente sì, soprattutto per quanto riguarda le ideologie totalitarie: c'era un godimento perverso nei confronti di un accadere che non portava a nulla e che però dava un senso alla vita delle persone (l'umano è in fondo così, lo è sempre stato e sempre lo sarà)

In Europa centrale non ci sono personaggi tratteggiati a 360 gradi, come vorrebbe ogni story editor.

Non potevano esserlo: in quel mondo, quelle persone godevano dell'accadere stesso, e della sua ripetizione, del kairos, dell'Erlebnis.

Lo stalinista erotizzava la paranoia, quindi godeva nel ripetere atteggiamenti paranoici, senza alcun motivo. Il fascista sansepolcrista, movimentista, godeva nell'attuare quella brutale violenza fisica. 

In quegli anni ogni singolo individuo considerava una prospettiva futura solo attraverso l'hic et nunc dato dall'ideologia, che dava un senso e pienezza alle loro vite.

È un tratto comune ai due lati della barricata: Europa centrale voleva definire un contenitore, che non è un contenitore vuoto ma una "valle", di pantomime continue sul sospetto, di domande e contro-domande. Erano questi codici oscuri il senso primario di tutte le fedi politiche.

La domanda ambigua dava un senso all'esistenza di chi la poneva; era - e talvolta è ancora - come nella messinscena dell'Assassinio di Gonzago all'interno dell'Amleto, la messinscena della messinscena, la trappola per il topo con il formaggio.

 

La letteratura della nevrosi, a partire da Svevo, lavora sui medesimi motivi esistenziali. 

Anche lo stesso Joyce nell'Ulisse descrive queste passeggiate che, per esempio, acquisiscono un senso solo attraverso il rilascio intestinale: non si vede l'ora di andare in bagno o di mangiare del fegato e bere del vino, per poi andare in bagno o di entrare in un bordello, per svuotarsi. 

In Svevo, Zeno non vede l'ora di fumarsi l'ultima sigaretta, godendo nel ripromettersi che sarà l'ultima, anche se poi non lo sarà mai.

Vale lo stesso anche oggi: siamo tutti ossessionati dall'uso nichilista dei social media: quanto tempo perdiamo sul nulla?

Ma quell'atto ci dà un godimento. 

Se qualcuno dovesse fare un film sull'oggi nella stessa chiave di Europa centrale, farebbe vedere mezz'ora di ragazzi presi a fare cose inutili (come ha fatto Michael Haneke all'inizio di Happy End).  

 

Questi eventi senza senso sono una necessità dell'uomo, e proprio perché mancano di senso fungono da riempitivi per una vita che evidentemente li richiede e che, nonostante tutto, ne trae un poco di senso.

 

 

[Un frame da Europa centrale]

 

 

MG

Hai citato la messinscena della messinscena nell'Amleto

 

Il tuo videoclip per Funeral Pyre dei Phantogram può essere visto come il controcampo di Europa centrale, dato che le due opere si posizionano diversamente sulla soglia del filmare.

Da una parte il mondo che scorre di fronte al cine-occhio; dall'altra, all'interno del treno, il reame della psicosi: come messinscena della messinscena, il treno può essere una figura metacinematografica? Del resto, il treno di Europa centrale è quasi una successione di frame, con la luce che penetra da ogni finestrino per fendere le tenebre. 

 

Sempre in questo senso, la divisione in scompartimenti ha anche dei risvolti temporali, come quando Clerici intravede il suo passato in un altro vagone; in effetti, la posizione occupata all'interno del treno può essere la posizione occupata all'interno della Storia. 

È in questo modo che il treno è qualcosa di più di un contenitore vuoto?

 

Gianluca Minucci

È proprio così, dal punto di vista storico e anche da quello metacinematografico. 

La prima inquadratura di Europa centrale sono i fratelli Lumière.

 

MG

Sotto al treno...

 

Gianluca Minucci

Veniamo letteralmente investiti dal peso mostruoso della Storia.

Tutto il Cinema è un grande viaggio su un treno, per le immagini che scorrono all'esterno, come accade abitualmente o - come in questo caso - all'interno. 

In Funeral Pyre vedevamo il mondo, le nevrosi delle subculture di Los Angeles. 

In Europa centrale, invece, fuori c'è solo il buio della notte e quello sfumato pittorico realizzato da Raffaele Nappi, il nostro VFX supervisor, che ricorda molto i quadri del Tiziano, quasi un ricordo mentale, fosco e opaco...  

 

MG

E il ricordo del passato, del primo bacio...

 

Gianluca Minucci

Quello è l'unico momento in cui scendiamo dal treno.

Di più: è l'unico momento in cui il protagonista va nella direzione opposta rispetto al treno; correndo dall'amata, nel suo unico barlume di umanità, va contro la marcia del treno, sfida la Storia. 

Ma il resto del film è uno scorrere nella notte, direttamente verso lo schianto finale. 

 

In Europa centrale si parla di fascismo e stalinismo e spesso mi è stato detto che in Italia non conosciamo bene il secondo: può anche essere vero, ma ci sono delle dinamiche esistenziali che credo siano universali, tanto più visto che la fine della storia non è mai avvenuta: tutt'oggi le ideologie vivono come non mai.

Poco tempo fa il popolo democratico di Belgrado si è riunito per protestare contro il presidente Vučić e le forze dell'ordine hanno sparato con dei cannoni sonori che provocano sanguinamenti interni. 

 

I rumori cacofonici di Europa centrale, lo sferragliare del treno, denunciano esattamente questa componente del potere infernale della Storia, il potere disciplinante nei confronti dei corpi e degli individui.

 

MG 

Parlando di ideologie e panorama contemporaneo non ho potuto fare a meno di notare le risonanze tra il finale di Europa centrale e quello di Chimeras. 

Si assomigliano moltissimo, ma in Chimeras a sopravvivere è il bambino innocente, che sorride e aspetta di essere salvato dall'auto in arrivo, mentre in Europa centrale non rimane che Olga, la bambina che incarna l'ortodossia stalinista.

È un passo verso la disillusione?

 

Gianluca Minucci

Tra i due finali ci sono i dieci anni di differenza d'età [ride, ndr].

Dieci anni fa avevo ancora qualche speranza; oggi ben poca. 

 

Era giusto inquadrare il 1940 in questo modo: Olga rappresenta l'ideale ideologico e un comunismo stagnante che continuò a perdurare durante la guerra fredda, sotto Bréžnev; rappresenta il peso schiacciante dell'URSS durante le insurrezioni a Budapest e le rivoluzioni di velluto.

In Italia Berlinguer ha preso le distanze dal comunismo sovietico, ma a Budapest - dove sono tutti, chi più chi meno, destrorsi - si celebra l'anniversario dell'insurrezione anti-sovietica: nel nostro 25 aprile noi festeggiamo tutti insieme (forse un po' meno insieme negli ultimi anni, ahinoi); a Budapest invece vedi queste parate nazionaliste contro il comunismo. 

 

È proprio un rovesciamento di termini: la nostra Storia con il Partito Comunista non è stata affatto quella dell'Europa centro-orientale. 

Non concordo nel modo più assoluto con l'etnocrazia che deriva da questo risentimento, però gli ungheresi hanno un'acrimonia fortissima, davanti a cui puoi solo stare zitto, nel rispetto delle loro tragedie.

 

MG

Il passato in effetti ha scavato più di una via, e sia Il taglio che Chimeras che Europa centrale ti hanno condotto indietro: perché guardarsi alle spalle e tornare a contesti storici così precisi?

 

Gianluca Minucci

Il passato ci modula per quello che siamo oggi.

Meglio: siamo noi, oggi, nel presente, a rimodulare il passato. 

 

Chi come me è in analisi, durante le sedute dà vita a un passato che acquisisce nuovo senso solo nel momento in cui riaffiora nel presente.

Il discorso è interessante anche in relazione alla poesia, e quindi al tempo. 

Giacomo Leopardi parlava delle "opere di genio" e di ingegno, di tutto ciò che riguarda la poiesis

Genio viene dal latino gignere, che vuol dire sia presentare (in quanto persona, nel suo presente), produrre (quindi un atto del presente proiettato al futuro), sia partorire.

Nelle opere di genio si dà un partorire che è stato fatto nel passato, che viene riproposto nel presente e che viene proiettato verso il futuro. 

 

Anzitutto, lavorare su contesti storici è stimolante per quello che il contesto raccoglie di per sé: tornare al 1940 significa collocarsi nella tragedia della scelta - come direbbe Vasilij Grossman - tra "vita e destino", tra il partito e l'amore.

Oggi queste scelte si danno in forme meno tragiche, perlomeno per chi è nato nella parte fortunata del mondo.

Pensiamo ai conflitti attuali, per esempio a quanto può distruggersi una famiglia un po' ucraina e un po' russa: il contesto storico offre la dimensione del tragico e anche la possibilità di ragionare sul nostro presente, perché è più facile declinare al passato delle dinamiche presenti.

Sono molto contento quando chi vede Europa centrale mi dice che non l'ha capito, ma gli è arrivato di pancia. Non occorre avere contezza dello stalinismo. 

 

Ti faccio un esempio: una mia amica ha iniziato una relazione con l'ex compagno della migliore amica, che non ne sa nulla. La nuova coppia vive nella paranoia: vanno a mangiare la pizza in periferia perché sanno che lì nessuno potrebbe riconoscerli. 

Quando ho fatto vedere Europa centrale a questa mia amica, lei non è stata colpita tanto dal fatto che il film parlasse del marchio che la politica imprime sul corpo delle donne; è rimasta colpita soprattutto dal personaggio di Cassola, perché si è rivista nella sua paranoia. 

 

Lei non è una cinefila e sa poco di Storia del Novecento, quindi per me è stato un ottimo modo per testare l'universalità del film.

 

 

[Un frame da Europa centrale]

 

 

MG

Visto che hai menzionato direttamente l'esperienza dell'analisi, mi ricollego ancora a quel carattere mitteleuropeo che abbiamo toccato in precedenza: a livello biografico ma anche concettuale, che legame senti di avere con quella che, fossilizzandola in maniera indebita, potremmo chiamare cultura mitteleuropea?

 

Gianluca Minucci

È un legame indelebile.

Poi - come dici - la cultura mitteleuropea è anzitutto un mito: si basa tutto sul racconto di quanto si stava bene a Vienna alla fine dell'Ottocento.

Sono tutte stronzate, ma proprio la nostalgia di un mondo immaginario ha costruito la grande letteratura mitteleuropea, come ha mostrato, per esempio, Il mito asburgico di Claudio Magris.

In secondo luogo Mitteleuropa vuol dire frammentazione, una costellazione di frammenti in cui sentirsi apolidi.

Come altro ti potevi sentire nella Trieste del primo Novecento, tra la minoranza slovena, gli irredentisti e la comunità ebraica? 

Non è una cosa così percepibile oggi: se vai a Praga in piazza San Venceslao, davanti al palazzo da cui Dubček e Havel festeggiarono la caduta del regime comunista [il riferimento è alla rivoluzione di velluto del 1989, ndr], trovi un McDonald's. 

E alla sera, solo orde di inglesi ubriachi

È un segno dei tempi: è tutto omologato e anestetizzato.

 

Franco Cardini ha scritto un bel libro [intitolato Praga. Capitale segreta d'Europa, ndr] su Praga in cui afferma che l'unico luogo in cui si può trovare ancora la Mitteleuropa è, appunto, il cimitero di Praga.

Il vero multiculturalismo (che non è quello individualista, consumista e capitalista statunitense) è tutto lì, ormai.

Questa riflessione mi ha segnato e infatti il treno di Europa centrale è un treno di morti, una danse macabre.

In generale l'essere triestino, viste le frammentazioni che Trieste ha vissuto e che hanno prodotto le grandi menti della nevrosi, ha giocato una grossa parte in Europa centrale e infatti è un peccato vedere come Trieste sia diventata una città del consumo, senza alcuna contezza di quanto può dare il solo stare lì, il vivere la Bora. 

 

Che senso ha drogarsi e ubriacarsi quando c'è la Bora?

La Bora fa già tutto, ti dà un'euforia incredibile.

 

MG

Vorrei chiudere andando in un'altra direzione. 

Europa centrale vanta la presenza di attori del calibro di Paolo Pierobon e Tommaso Ragno: com'è stato il rapporto con loro e con attori e attrici in generale?

 

Gianluca Minucci

È stato meraviglioso.

Sarà anche che - come mi dice sempre Pierobon - sono un po' un boomer, pur avendo 38 anni.

Sento quasi una "corrispondenza d'amorosi sensi" con Paolo, con Tommaso e con tutto il resto del cast. Non saprei come spiegarlo, è quasi misterico: ci capiamo senza parlare troppo, abbiamo gli stessi nobili intenti. 

 

Molti hanno detto che Europa centrale è un lavoro d'impianto teatrale: di giorno giravamo nel treno per dodici ore e alla fine ero distrutto, ma Paolo e Tommaso avevano un tale entusiasmo per il progetto che subito iniziavano a fare delle prove per il giorno dopo, come fossero stati a teatro, con la coesione di una compagnia.

Mi prendo il merito di aver contagiato tutti con il mio bizzarro entusiasmo: credo di essere riuscito a dare loro un mondo sul quale immaginare, e infatti si sono divertiti nel creare questi archetipi pieni di sfaccettature.

 

Il lavoro di Tommaso su Clerici, che vive tra il sadismo crudele e dei momenti di profondissima umanità e fragilità, è difficilissimo.

Lo stesso vale per Paolo: ogni parte del volto che muove racconta un mondo. 

 

Gli abbiamo messo degli occhiali come quelli che Burt Lancaster indossa in Piombo rovente, occhiali che tendono a coprire l'occhio: all'inizio ero preoccupato, ma Paolo era il primo a essere felice perché poteva lavorare con le rughe attorno agli occhi, creare questi spasmi facciali.

Paolo mi ricorda molto l'Eduardo attore: è un misto tra Eduardo, Dustin Hoffman e Gene Hackman... tutti attori che lavorano, credo, non tanto sull'immedesimazione, quanto su una "minorazione", su una componente di disagio, uno scarto tra mente e corpo, una discrasia. Vanno contro se stessi. 

 

Per spiegarmi meglio: i personaggi burberi e ruvidi di Hackman sono vitali perché Hackman faceva trapelare questo disagio, come a dire "ma perché mi tocca fare sempre il duro?" – a Napoli si direbbe "n'ata vota mo!?"; e proprio perché si poneva questa domanda, il suo non era un machismo immedesimato e stereotipato, ma appunto minorato, e quindi vero nella sua evocazione (la stessa cosa, al contrario, quando fa un po' il personaggio bonaccione: mi viene in mente Un'altra donna di Woody Allen con Gena Rowlands). 

Lo schlemiel, il credulone/inetto in yiddish, tipico dei personaggi di Hoffman (Un uomo da marciapiede, Cane di paglia, ecc) ha in realtà un disagio nell'essere sfigato, pronto ad esplodere in qualsiasi momento in atti di estrema violenza e meschinità. 

 

Sono le cose che un grande attore o attrice porta con sé, un misto tra esperienza, bagaglio culturale e intuito sentimentale.

Con Paolo ho avuto la stessa impressione, anche se non gli ho mai domandato nulla (perché è bello che su alcune cose resti il mistero) su come abbia lavorato il personaggio di Cassola.

Forse mi piacerebbe chiedergli su Pio IX in Rapito, una delle interpretazioni più fenomenali degli ultimi anni... 

 

Comunque, nel lavoro con gli attori, la sceneggiatura gioca un ruolo importantissimo.

In generale ne andrebbero scritte due versioni: una per i produttori e i distributori, piena di descrizioni didascaliche; l'altra - che è quella da cui sono partito - senza avverbi o parentetici che spieghino come dire la battuta. 

In questo modo il processo è del tutto aperto: gli attori amano quando mancano le spiegazioni degli intenti e dei sentimenti, quando non si cerca di pilotare le loro emozioni. 

 

MG

Considerata la genesi del progetto "from the cameretta", come sei entrato concretamente in contatto con Pierobon e Ragno? 

 

Gianluca Minucci

Per fortuna le loro agenzie rispettano enormemente le opere prime, leggono tutto.

Tommaso firmò addirittura una lettera d'intenti nel 2022: è anche grazie a lettere come quella che abbiamo ottenuto i contributi selettivi del MIC.

Per quanto riguarda Paolo, mandammo la sceneggiatura e dopo un paio di giorni mi chiamò la sua agente per dirmi che Paolo era a Roma per incontrarmi.

L'ho visto e dopo dieci minuti eravamo già sintonizzati: ha capito subito le potenzialità del personaggio di Cassola, in particolare la matrice shakespeariana della sua paranoia, anche perché stava facendo il Riccardo III a teatro.

Per fare questo film c'era bisogno di una sensibilità attoriale che ha solo l'attore che viene dal teatro.

Non a caso le nostre giovani attrici - come Catherine Bertoni de Laet e Matilde Vigna - sono attrici teatrali sopraffine. 

 

A tal proposito colgo la palla al balzo per ringraziare Eleonora Barbiero, la nostra meravigliosa casting director: questo progetto vive del fuoco amoroso che anima coloro che ci hanno lavorato. 

La stessa Eleonora segue il progetto da fine 2021. Non è facile trovare collaboratori che rimangono con te per quattro anni: parecchia gente è stata poco, è uscita, e pochissimi ci credevano. 

 

Una delle persone che inizialmente era coinvolta e che poi ha preferito fare altro, a fine film ha scritto a uno di noi.

Il messaggio diceva: "Maledetti, ce l'avete fatta".

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