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#CinemaeBirra

Brooklyn: dolce e amaro come una Sweet Stout

Cinema e Birra: connubio strano? Non quanto potrebbe sembrare. 

Cinema e Birra: connubio strano? Non quanto potrebbe sembrare.  

 

''[…] it's so much more than just a love story. It's a coming of age tale woven into America's coming of age.'' 

Katie Walsh (TNS)

 

Sinossi

Guardiamo l'etichetta: un breve riassunto del film (per chi soffrisse gli spoiler salti gli ultimi paragrafi).

 

Siamo negli anni ‘50 ed Eilis Lacey, una giovane ragazza di Enniscorthy nel sud-est dell’Irlanda, decide di emigrare negli Stati Uniti per costruirsi un futuro, poiché la sua terra natia offre solo noia e nessuna possibilità.

 

Il porto è pieno di navi stracolme di uomini e donne in cerca di fortuna lontano dalla terra di San Patrizio appena auto-dichiaratasi Repubblica e con tutti i postumi della guerra appena conclusa.

 

Attraverso un prete contattato da sua sorella Rose trova un pensionato a New York, nel quartiere di Brooklyn, e abbandona tutto: il suo lavoro da commessa nel negozio di alimentari di Miss Kelly, la sua migliore amica Nancy e la sua famiglia (Rose, la sorella, e Mary, la madre, già orfane del padre morto anni prima) per partire alla volta del nuovo continente.

 

Dopo un viaggio “travagliato” in cui viene aiutata da un’altra ragazza già emigrata e tornata a far visita alla sua famiglia, la giovane irlandese arriva a New York.

 

Qui trova subito un lavoro nel grande magazzino Bartocci’s e a casa di Miss Kehoe conosce Sheila, Patty e Diana, tre ragazze che sono nella sua stessa situazione e vivono lì già da tempo.

 

Dapprima l’ambientamento è quanto di più difficile ma, grazie all’aiuto di padre Flood, Eilis inizia a studiare ragioneria e poco dopo incontra Antonio (Tony) Fiorello, un giovane italo-americano di cui si innamora subito.

 

I due fidanzati iniziano a progettare un futuro assieme e tutto sembra essersi messo nei giusti per binari per la giovane irlandese, ma...

 

 

 

 

Arriva una telefonata dall’Irlanda.

 

Rose, la sorella con cui si sentiva spesso via posta, è morta e la madre è rimasta sola: Eilis decide così di tornare in patria qualche giorno per aiutare la madre ma Tony, impaurito dalla sua partenza e vedendo tutte le promesse e i progetti infrangersi, le chiede di sposarlo prima della partenza.

Lei accetta, i due si sposano in comune e consumano la loro prima volta.

 

Il fascino per la terra natìa è fortissimo sulla ragazza che viene “ingabbiata” dalla madre a presenziare al matrimonio di Nancy, ben oltre le sue previsioni di permanenza, e a prendere temporaneamente il lavoro da ragioniera lasciato vacante da Rose.

 

Incoraggiata dalla madre e da Nancy, ignare del suo matrimonio, conosce Jim Farrell, un giovane canottiere scapolo, e tra i due nasce qualcosa.

Eilis riscopre l’Irlanda, i suoi paesaggi mozzafiato e la sua pace e tanto più ritrova la sua (vecchia) casa, tanto si invaghisce di Jim che alla fine le chiede di sposarlo.

 

La giovane, che fino ad allora aveva ignorato le lettere di Tony, si trova a dover scegliere e svelare la verità fino ad allora rimasta celata, ma proprio arrivati a questo punto la scontrosa signora Kelly la manda a chiamare per metterla a conoscenza che sapeva del suo matrimonio e per “minacciarla” di rivelarlo.

 

Eilis ritrova tutta in un momento la sensazione di arretratezza che l’aveva spinta oltreoceano e, dopo aver liquidato la donna con forza, racconta la verità a Jim ed a sua madre e torna a casa in America, dove ritrova Tony e tutto si chiude in un loro lungo abbraccio.

 

 

 

 

 

Commento

Stappiamo e versiamo: un'analisi del film, indipendentemente dalla birra, ma che ci porti nel mood del film.

 

Al 99%, se avete letto la trama che ho brevemente riassunto e non avete mai visto il film, non avrete alcuna voglia di guardarlo: un altro insulso dramma romantico a cavallo tra patria e terra adottiva, un altro classicissimo triangolo amoroso melenso e scontato, tutto meno che un film imperdibile e interessante.

 

In realtà Brooklyn è molto di più della classica storia d’amore che gli fornisce l’ossatura: è un film che parla della storia dell’America e allo stesso tempo scandaglia con una lucidità incredibile il processo di crescita rispetto alla casa in cui si è nati e cresciuti.

Soprattutto, Brooklyn è un delicatissimo gioiello visivo.

 

Presentato in alcuni dei festival più importanti del mondo (Sundance, Toronto, New York, Londra e non ultimo al 33° Torino Film Festival) Brooklyn è un film che ha, a parer mio giustamente, riscosso presso la critica un successo impensabile per tutti coloro che lo hanno etichettato come il solito dramma storico-romantico.

 

Tre nomination agli Oscar - tra cui quella come Miglior Film - sei nomination ai BAFTA - dove è stato eletto Miglior Film Britannico davanti a The Lobster, Ex Machina e The Danish Girl - una standing ovation al Sundance, 35 premi su 105 candidature, il 48° posto nella classifica stilata dalla BBC dei migliori film del XXI secolo - davanti, per fare un nome a caso che renda l’importanza di tale posizione, ad Inception - un punteggio di 87/100 su Metascore ed un 97% (100% tra i top critics) di recensioni positive su Rotten Tomatoes con una media voto di 8.4 (9.1 tra i top critics).

  

I premi, la critica, gli Oscar, gli aggregatori e le classifiche lasciano il tempo che trovano e mai mi sognerei di prenderli come valore assoluto e insindacabile, ma forse Brooklyn alla luce di tutto ciò merita almeno una chance e non una qualsiasi, ma quella che daremmo a un intrigante film d’autore con l’attenzione e la concentrazione che spesso i film romantici, ingiustamente, non ricevono.

 

Perso questo paragrafo per cercare di convincervi a guardarlo non solo perché vi fidate della mia parola ora passo a illustrare cos'abbia Brooklyn di tanto speciale.

 

Tratto da un racconto di Colm Toibin, premiato con il premio Costa nel 2009, sceneggiato da Nick Hornby, sceneggiatore, scrittore e regista che sicuramente avrete già sentito nominare (Alta Fedeltà, Wild, An Education e Febbre a 90°), diretto da John Crowley e fotografato da Yves Belanger (Gerry, Lawrence Anyways, Dallas Buyer Club, Wild) questo è un film che, secondo me, riassume perfettamente cosa deve essere l'arte cinematografica. 

 

Fermi! Prima di chiudere la scheda del vostro browser non sto dicendo che è un capolavoro, datemi ancora un pochino corda. 

 

Ovvero: la perfetta alchimia tra diversi comparti tecnici e narrativi.

 

Un film che parla per immagini e che con queste dice ben più di quanto viene detto e fatto e un film in cui nulla è mai "buttato per caso", ma scelto e ponderato in relazione a tutte le tantissime altre componenti che entrano in gioco in ogni singolo frame, dialogo, scena o spezzone musicale.

 

Scusatemi per questo panegirico, ma è un film che ho molto a cuore, se ancora non si fosse capito, e che molto spesso ho visto frainteso e scansato e per questo, probabilmente, ho preferito perdere due parole in più in esaltazioni e complimenti rispetto a quello che farò per L'Inquilino del terzo piano o Hiroshima Mon Amour, entrambi film certamente superiori.

 

Brooklyn è un film circolare, Crowley lo mostra chiaramente nel momento in cui Eilis si trova ad essere ciò che per lei era stata Georgina, la giovane donna che l’aiuta a “superare la notte”, nel viaggio d’andata.

 

Come già detto nulla è casuale ed è chiaro l’intento del trio Toibin-Hornby-Crowley di sottendere che la storia di Eilis non sia quella particolare della giovane donna, ma di un popolo intero che prima, per parafrasare padre Flood, “ha costruito l’America” e ora cerca un futuro che in patria non ha, e forse non è così azzardato allargare il discorso a un paese che ha vissuto una crisi durissima, il secondo paese sotto stretta osservazione della Troika dopo la Grecia, e che solo oggi (dopo l’uscita del racconto di Toibin del 2009) si sta riprendendo con i dati incoraggianti delle annate successive al 2013.

 

In tutto questo però non c’è solo una dimensione socio-economica e storica, ma una storia di crescita e di emancipazione che è facile riportare in qualsiasi contesto e a qualsiasi livello.

 

Eilis parte ragazzina e torna donna, questo è chiaro e i tre viaggi scandiscono il tempo ed i cambiamenti di Eilis in maniera abbastanza netta, così come la loro differenza estetica è lampante: Crowley ha voluto fortemente che la prima parte in Irlanda avesse un look molto anni ‘50 (in questo senso anche l’uso della camera a mano e di una color correction molto leggera) mentre l’America e la seconda Irlanda sono chiaramente più ispirate alla cultura pop che proprio tra i ‘50 ed i ‘60 fu in pieno vigore. 

 

 

 

 

Eilis parte come giovane figlia dell’Irlanda, inesperta nella vita, e si ritrova catapultata nella frenesia dell’America con il solo monito:

"Sembra sicura di quello che stai facendo”.

 

Non deve esserlo, basta sembrarlo ed aspettare che la nostalgia passi.

 

L’immagine è molto forte: la giovane irlandese vive l’abbandono del nido quasi come una crisi d’astinenza ed un percorso di riabilitazione con prima un forte shock fisico (il viaggio traumatico) e successivamente un lunghissimo periodo di sofferenza emotiva/spirituale fino alla definitiva svolta (la nostalgia a Brooklyn).

 

Poi il percorso è inverso, ma il viaggio è quanto di più lontano poiché Eilis torna moglie ed emancipata a fare i conti con il passato abbandonato e mai definitivamente chiuso, come una ricaduta in un tunnel.

Il modo in cui tutto sembra coalizzarsi contro di lei per farla restare quando in realtà è ancora tutto nelle sue mani ricorda tantissimo le miliioni di scene di ex-alcolizzati che dopo mille sofferenze si ritrovano al bar con il bicchiere pieno davanti e la cui mano trema: quel bicchiere sembra molto più bello di quanto uno non lo ricordasse.

 

Così non è, e in un attimo questo torna ad essere chiaro: un’illuminazione, un intervento del fato o forse una scintilla interna che, così come prima era assopita, ora sfrutta un pretesto per ribaltare tutto, in tipico stile irlandese, con un moto d’orgoglio, una reazione ad un sopruso.

 

Quindi la rivalsa, l’indipendenza, la rottura con il passato e con coloro che han tentato fino ad allora di ingabbiarla, qualche perdita è inevitabile e sofferta, qualche caduto impossibile da risparmiare: la storia irlandese, ma anche di ogni popolo ed individuo, nell’involucro di una giovane (e bella) ragazza partita verso il nuovo mondo.

 

Crowley sceglie di costruire un film con un ritmo abbastanza sostenuto, cosa rara per film con questo tipo di qualità visiva, ma intervalla questo susseguirsi di avvenimenti, dialoghi e personaggi con delle pause, come se in alcuni momenti il film decidesse di fermarsi, di comporre un quadro e di lasciartelo ammirare, in questi momenti tutto diventa funzionale: la musica entra di prepotenza, ogni dettaglio diventa simbolo di altro e noi spettatori abbiamo il privilegio di viaggiare all’interno di una descrizione precisa di tutto ciò che è avvenuto e avverrà nei minuti successivi e precedenti.

 

Mi spiego meglio con un esempio. 

Quando Eilis torna in Irlanda c’è un momento in cui va al cimitero a trovare la sorella: in quella scena c’è tutto il riassunto del film in quel momento e di ciò che seguirà.

 

Eilis si rimette la fede, simbolo per nulla velato del matrimonio che sta nascondendo ai parenti, indosso un vestito giallo sgargiante che la stacca tanto dallo sfondo quanto dalle altre ragazze irlandesi, simbolo del suo essere ormai “una forestiera” una ragazza alla moda che arriva dall’America (lo stesso vestito che metterà a casa dei genitori di Jim e nella giornata al mare, tutto meno che un caso) lei risulta l’unico elemento chiaro racchiuso tra un cielo azzurro scarico che si sta riempiendo prepotentemente di nuvole nerissime (ciò che sta per succedere sul suolo di Enniscorthy) e le mille croci celtiche rovinate ed abbandonate nel cimitero: simboli degli addii alla patria, delle tante tombe su cui nessuno piange - il cimitero è vuoto nonostante sia domenica - perché nessuno torna.

 

Inoltre è impossibile non notare come dietro alla sua spalla destra (quella da cui arrivano le nuvole) spicchi la croce più in evidenza del quadro, un simbolo chiaro dell’Irlanda e di come questa sarà per lei una prova quanto mai ardua, se non quasi una maledizione, che incombe alle sue spalle.

 

(qui sotto l'inquadratura più stretta, nella copertina dell'articolo quella più larga)

 

 

 

 

Come questa, mille altre: come il matrimonio dell’amica Nancy in cui con un mirabile gioco di fuochi e di incastri Jim, Eilis e Nancy si incastrano e i due innamorati si guardano proprio come l’amica d’infanzia e l’aspirante marito George o un bar in cui Eilis nel riflesso di uno specchio si ritrova confinata oltre il terzo dell’inquadratura in mezzo a lanterne che dovrebbero essere sgargianti, ma risultano spente, o la luce del mattino sull’ultimo incontro tra la protagonista e Tony.

 

Personalmente trovo che la grande forza di Brooklyn sia la sua attenzione ai dettagli e il modo in cui tutte le componenti siano perfettamente amalgamate e non si sovrastino tra di loro, ogni tessera del puzzle è curata e tirata a lucido come se dovesse essere la protagonista, ma in realtà è solo una delle tante.

 

Proprio in questo senso basti vedere la cura di tutto il comparto scenografico che ha portato a ricostruire una “seconda Brooklyn” a Montreal (solo Coney Island è stata girata in loco) poiché più semplice da sfruttare per rendere lo stile del quartiere negli anni ‘50, lo stesso lavoro di post-produzione in questo senso è stato certosino: il film girato in otto settimane ne ha richieste ben quindici dopo le riprese.

 

La stessa gestazione è durata anni tanto che Crowley, che già avrebbe voluto Saoirse Ronan nel ruolo di Eilis dovette scartarla in quanto troppo giovane, ma arrivati alle riprese era ormai dell’età giusta e la seconda scelta (Rooney Mara) ormai troppo grande per impersonare la giovane irlandese.

 

Anche il guardaroba è stato oggetto di ricerca maniacale, basti pensare che il vestito giallo, il preferito del costumista Odile Dicks-Mireaux di cui si parlava sopra, è stato trovato dopo lunghissime ricerche nei robivecchi delle vie di Montreal da parte sua e del suo staff. In ogni scena la scelta di abbigliamento di Eilis e dei personaggi intorno è tanto importante quanto un movimento di camera o una riga di dialogo.

 

Il modo in cui Eilis viene inserita o “tirata fuori” dal contesto e di conseguenza dagli sfondi intorno a lei è mirabile ed è impossibile non notare un’unità d’intenti totale tra il reparto fotografico e quello costumistico anche nella scelta di avere o meno profondità di campo in relazione al modo in cui l’attrice con il suo abbigliamento può e deve uscire dal quadro o meno.

 

Vero punto di forza tra tutti i “dettagli” e le alchimie che costruiscono Brooklyn è l’amalgama tra il reparto di fotografia e la regia che sfrutta ogni mezzo a sua disposizione in maniera puntuale e centrata.

 

Le scelte cambiano via via che il film si evolve ed ognuna di queste ha una sua evoluzione ed un suo significato: la vicinanza ai volti che ingabbia i personaggi della prima sequenza irlandese viene sostituita da leggerissimi movimenti di avvicinamento su figure più larghe negli USA ed ancora da campi più lunghi nella “nuova Irlanda” quando ormai la scelta di liberarsi è solo nelle mani di Eilis; le scelte cromatiche si evolvono da un “look” molto anni ‘50 della prima metà ad una colorazione più pop e sgargiante della seconda (gli anni ‘50-’60 segnano proprio questo passaggio), e poi ancora l’utilizzo perfetto di movimenti empatici di allontanamento ed avvicinamento o le scelte di composizione che spostano Eilis in relazione al momento dal bordo dell’inquadratura al centro e viceversa.

 

Ogni inquadratura sfrutta il fuoco con un’importanza e un’attenzione incredibile, alcuni dialoghi si svolgono solo su quest’ultimo: basti pensare al matrimonio di Nancy già citato, o alle scene al bar prima di conoscere Tony o alla notte di Natale e le lucine natalizie che lasciate sfocare diventano una vera e propria costellazione colorata alle spalle dei volti stanchi, una commistione tra la durezza di queste facce scolpite dal tempo con le gote rosse per l’alcool e le loro mani rovinate e la dimensione della favola e della sospensione magica del tempo.

 

Tutto è reso ancor più incredibile dal fatto che gran parte di tutto questo, stando alle parole di Belanger, non è stato storyboardato, ma creato sul set da lui e Crowley.

 

 

 

 

Anche l’aspetto visivo oscilla tra le due grandi metà del film: il sottotesto più realistico e sociale e la favola romantica di Eilis.

 

In questa direzione va la scelta di Belanger di usare principalmente luce naturale o comunque luci che simulassero quelle diegetiche (finestre, lampioni, ecc.), come lo stesso sole della scena finale che in realtà è una luce montata su un crane; allo stesso tempo però l’attenzione fotografica su Saoirse Ronan è qualcosa di unico e ben lontano dalla semplice realisticità, quasi da star degli anni ’50, una lanterna cinese la seguiva in ogni inquadratura per dare un luccichio ai suoi occhi. 

 

“For me, the human face is the best landscape in the world”, dice Belanger.

 

Brooklyn quindi passa da avere una resa quasi da cinema classico, da buon cinefilo quale Belanger si definisce, o da favola nelle sequenze notturne o nei primi piani sia della giovane attrice sia degli altri personaggi ad avere una componente più cruda, fredda e storica nella visione del mondo attorno a lei.

 

L’attenzione di Belanger alla resa del contesto lo ha persino portato a scegliere tre diversi utilizzi della ARRI Alexa XT con cui è stato girato: vecchie lenti Zeiss e nessuna diffusione nella prima parte per essere leggermente più freddo, una maggior diffusione nella parte americana

 

“To make it magical: she’s living the American dream” ha detto ancora Belanger, 

e delle Leica con la stessa luce diffusa della parte americana nella nuova parte in Irlanda, il cambio cromatico è lampante: Eilis è cambiata e l’Irlanda ai suoi occhi deve essere completamente diversa.

 

 

 

 

Le prove recitative sono semplicemente perfette, ma il cast non poteva che lasciarlo già intuire.

 

I tre giovani sono ormai lanciatissimi, basti pensare che quell’anno Domhnall Gleeson aveva partecipato a tre film in gara degli Oscar (Revenant, Ex Machina e Brooklyn) e Saoirse Ronan, che abbiamo visto totalmente diversa nell’acclamatissimo Lady Bird di Greta Gerwig, ha trovato il ruolo della consacrazione della sua carriera dopo un inizio “da ragazzina” (Amabili Resti, Hanna, Espiazione, Grand Budapest Hotel, Byzanthium, Lost River) e che sembra altrettanto in rampa di lancio, dopo la terza candidatura agli Oscar ad appena ventitre anni, con la quantità di grosse produzioni in cui sta venendo inclusa (Mary Queen of Scots e Loving Vincent).

 

Il film gira molto attorno a Eilis e questo è chiaro, lo abbiamo sottolineato a più riprese, ha un’attenzione fotografica e costumistica unica, uno strumento dedicato al suo personaggio (il violino) ed ai suoi ingressi in scena, un personaggio cucitole addosso, ma non solo.

 

Tony e Jim sono fondamentali sono simboli fortissimi di due mondi ed allo stesso modo la carrellata di donne e uomini che vediamo negli stati uniti è fondamentale, è una fotografia nitidissima di un periodo storico e culturale di un popolo.

 

Non mi perderò sulle differenze con il libro, se non per la sequenza di sogno presente in Toibin e nella prima idea di Crowley, ma tagliata da Hornby poiché risultava già vista e troppo didascalica poiché questo aneddoto rende bene come il film in questione non sia solo di Toibin, di Hornby, di Belanger o di Crowley, ma di come tutti abbiano compartecipato al risultato finale rendendolo il film che alla fine è; gli stessi attori, la Ronan e la Walters in particolare, hanno messo molto dei loro ricordi e delle loro esperienze al servizio del film ed è impossibile non notare quanto di personale ci sia per tutti in Brooklyn.

 

C’è tanto di Toibin e della cultura irlandese, ma almeno altrettanto di Hornby e della sua classica scrittura dei personaggi giovani (Slam, Bucky Larson, About a Boy) e delle storie di solitudine (Febbre a 90°, Alta Fedeltà) e di formazione (An Education, Wild). 

 

 

 

 

La birra

 

Annusiamo ed assaggiamo: una scena in cui la birra è protagonista

 

Da buon irlandese Crowley non dimentica mai di sottolineare quanto la birra sia un simbolo, al pari dello Shamrock o di San Patrizio della sua amata patria, perciò le scene in cui è presente non sono poche e nemmeno quelle in cui è centrale, ma chiunque abbia visto il film converrà con me che una più di tutte resta indelebilmente attaccata allo spettatore: la cena di Natale.

 

Come in altri punti del film per un momento il mondo si ferma e tutto inizia a girare attorno ad un centro che quasi sempre è Eilis, il tempo è come messo in pausa così come l’interazione con l’esterno, resta solo un quadro animato e musicato in cui ogni dettaglio è veicolo curatissimo ed ogni particolare è sottolineato e voluto fortemente e come tale interagisce con lo spettatore.

 

Qui però il centro non è Eilis, ma Frankie Doran, uno dei barboni invitati alla cena con trascorsi da cantante, interpretato da Iarla O’Lionaird cantante irlandese richiesto esplicitamente a Crowley da Toibin.

Doran non è un attore, ma un musicista e cantante poliedrico che ha partecipato alle colonne sonore di vari film (Calvary, Hotel Rwanda) e mai scelta fu più felice.

 

 

 

Le bottiglie di Guinness abbondano sui tavoli quando padre Flood gli chiede di alzarsi e cantare per tutti i presenti, inizia una sequenza di pura immersività sulle note di Casadh an Tsugain: vediamo i volti e i dettagli degli uomini che hanno costruito l’America e che oggi ne popolano le strade e i ponti anche nella notte di Natale.

 

Crowley e Belanger sfruttano come in tutto il film ogni dettaglio, le nuvole di fumo, le unghie rovinate, gli occhi lucidi e i volti disillusi, ma anche le luci sullo sfondo entrano in maniera preponderante ricreando quel tipo di “pausa” di cui abbiamo già parlato: una sospensione delle sofferenze per loro, una sospensione dalle vicende di Eilis per noi, un momento di catarsi completa in cui tutto l’intento storico si esplica ed in cui il parallelo predetto da padre Flood poco prima tra Eilis e questi uomini è chiarissimo.

 

La processione verso il cibo apre questo momento di servizio, in chiara chiave cattolico-irlandese, ed il modo in cui Crowley passa, per una delle pochissime volte nel film, a grosse scene d'insieme sottolinea come questa "massa informe" debba essere il nostro centro, le loro facce scavate, la tristezza dei loro volti soli, rischiarati dalla compagnia, dall'alcool, dalla comunità, da quel momento in cui sembra di essere ancora in Irlanda.

 

Il paragone con le comunità attuali è possibile e voluto.

 

Poche parole, molta empatia in cui ricercare storia, forza di volonta e denuncia sociale: una delle più belle scene del film.

 

 

 

 

Accompagnamento

Il momento migliore, la bevuta: cosa accompagniamo al film? Ecco un consiglio su cosa bersi mentre si guarda o riguarda ciò di cui abbiamo parlato.un'analisi del film, indipendentemente dalla birra, ma che ci porti nel mood del film

 

Tutti conoscono la Guinness, qualcuno si spinge pure nel sapere che quelle birre nere (non tutte!) hanno un nome e si chiamano Stout, ma forse non tutti sanno che dietro a quelle cinque lettere esiste una storia di secoli ed una marea di variazioni sul tema.

 

Partiamo dalla prima: il termine Stout risale a uno scritto del 1677 e serviva solo per indicare le “birre forti” indipendentemente dal colore, dalla fermentazione o dalle mille altre variabili.

 

Negli anni successivi attraverso la dicitura Stout Porter divenne sinonimo di “Porter più forti” - la Porter è uno stile nato negli anni ‘20 del 700 che è il diretto antecedente delle Stout - e intorno al 1750 iniziò a riempire il suolo di San Patrizio.

 

Nel 1776 Arthur Guinness sposta la produzione del suo birrificio, che fino ad allora aveva prodotto solo classiche Ale (dal 1759), sulle Porter, che diverranno Stout nel 1820.

L’Irlanda si è innamorata del nero di queste birre ed anche negli anni in cui passeranno di moda nel Regno Unito continueranno instancabilmente a produrle.

 

Questa genesi quasi per emanazione delle Stout rispetto alle Porter, fa sì che le differenze non siano sempre così marcate, ma il BJCP - l’organo di riferimento per la categorizzazione birraria - segna nella sua edizione del 2008 Stout e Porter come due capitoli differenti (13 e 12), mentre nella sua versione del 2015 sparge le Stout tra le Irish Beer (15), le Dark British Beer (16) e le American Porter and Stout (20) e le Porter in differenti categorie eccetto l’ultima.

 

Possiamo quindi prendere come assunto che siamo davanti a stili differenti, ma non ci perdiamo tra le loro differenze, anche perché se si spulcia un po’ le linee guida o si fa un po’ di statistica si rischia di perdersi completamente senza trovare una soluzione (più voci continuano gridare che oggi non si possa più differenziarle).

 

 

 


Detto tutto questo le Stout possono tra loro avere un’infinità di differenze che ora riassumeremo velocemente (seguiremo in questo percorso il BJCP del 2015). Intanto esistono le classiche Irish Stout (Guinness Draught) ed Irish Extra Stout (Guinness Extra Stout) che sono le più classiche e diffuse varianti di questo nettare nero, queste sono le più tendenti al caffè come sentori olfattivi e sono certamente le più beverine - tanto che spesso la loro diffusione è quasi esclusivamente alla spina - le prime sono poco alcoliche, le seconde leggermente di più.

 

Spostandoci al paragrafo 16 del BJCP troviamo invece birre con una maggior diffusione territoriale che oltre all’Irlanda abbracciano tutte le isole britanniche siano esse libere o ancora sotto la corona di Sua Maestà; qui troviamo le Sweet Stout, le Oatmeal Stout, le Tropical Stout e le Foreign Extra Stout.

 

 

 

 

Le prime sono birre dolci, tendenti al caffè con panna o quasi al cioccolato, si sente in maniera ridotta la torrefazione dei malti e di conseguenza le note amare risultano alquanto smorzate, il tutto accompagnato da un corpo ben più pieno delle Irish - abbastanza simile a quello delle Irish Extra che però tendono ad essere di gusto più secco e deciso - e senza grandi astringenze in chiusura, anzi spesso accompagnata da un residuo dolce.

 

Qui rientrano le Milk, le Cream e le Oyster Stout, in particolare queste ultime vanno ricordate perché in alcuni casi venivano fatte con ostriche nel mosto che donavano una leggerissima sapidità, oggi è una pratica abbastanza scomparsa, ma persiste il famosissimo abbinamento che vuole che nulla sia meglio di una buona Stout leggermente dolce con un piatto di ostriche.

 

Mentre Cream e Milk in cui viene utilizzato del lattosio come addensante per un certo periodo vennero vendute come tonici da allattamento per le madri.

 

Le Oatmeal Stout sono accomunabili alle Sweet, ma hanno in aggiunta dell’avena che fornisce una “maggior variabilità” sul tema già visto, note di cereale e qualche sentore leggermente più fruttato o luppolato possono essere presenti.

Nel complesso è decisamente più “secca” rispetto alla sorella Sweet, una sorta di misto tra questa e la Irish Extra.

 

Le Tropical invece sono delle Sweet con una maggiore componente fruttata e un tenore alcolico tendenzialmente superiore, diffusasi nelle “periferie dell’impero britannico” spesso ha aggiunte zuccherine legate al territorio nativo.

 

Le Export, come suggerisce il nome, sono birre nate nel periodo in cui, come per le IPA che vedremo in un'altra puntata, Sua Maestà mandava nelle province birre molto luppolate perché potessero sopravvivere a lunghi viaggi.

Con lo stesso meccanismo già visto per le IPA aumentano sia il tenore alcolico sia l’amarezza più astringente figlia dell’infiorescenza, non raggiunge le vette di amarezza da luppolo in dry-hopping delle sorelle americane né la gradazione di una Imperial, ma si pone subito dietro a queste ultime.

 

Spostandoci in America, un po’ come Eilis, troviamo, come di consueto, birre più “spinte”: le American Stout hanno una maggior torrefazione delle sorelle inglesi e spesso una maggior luppolatura che porta con sé sentori che la avvicinano quasi ad una Black IPA da cui si discosta principalmente per il corpo “più da Stout” mentre le Russian Imperial Stout che sono l’espressione più complessa delle Stout - nate nel Regno Unito, ma ormai quasi completamente ai produttori craft americani - con corpo e gradazione ampiamente superiori rispetto alle sorelle “più piccole”, più viene fatta invecchiare più perde corpo guadagnando acidità e bouquet olfattivo e gustativo avvicinandosi a tratti con lunghe maturazioni ad un Porto.

 

Tutto questo discorso, spero interessante, serve per ribadire che Eilis è a tutti gli effetti un simbolo così come la Stout dell’Irlanda, uno stile variegato, complicato, allo stesso tempo patriottico e storico, ma anche proiettato verso il futuro, tanto da essere uno degli stili trainanti della riscoperta americana, che nasce in un posto e quasi sempre finisce per diffondersi altrove.

Questi “sotto stili” hanno tutti storie simili: nascono in un luogo per essere poi portati altrove, dove avranno maggior fortuna. 

 

Come una pinta nera e opaca con leggerissime ramature sul granata ed una schiuma compatta ed imperscrutabile Brooklyn sta lì statico sul bancone di un pub un po’ rovinato e con un’infinità di scritte e incisioni: racconta storie di un popolo, una miriade di persone già passate di lì e che ci ripasseranno lasciando segni diversi, ma alla fine scritte o non scritte, incisioni o non incisioni tutto si risolve in una pinta e nella sua schiuma che qua e là ti resta attaccata al bicchiere come i quadri del film di Crowley. 

 

 

 


Le Stout sono tendenzialmente birre a bassa gradazione quindi, visto che non sapevo decidermi, nonostante non sia un film particolarmente lungo il mio consiglio sarà una “mini-playlist di birre”, magari da stappare in compagnia per non bersi un litro in solitudine (cosa mai sbagliata, chiariamoci), una piccola variazione sul tema che seguiremo nei prossimi episodi.

Di conseguenza per voi due Stout appartenenti a categorie differenti ma assolutamente complementari.

 

Partiamo con una Irish Stout, più secca, più fredda, in linea con l’ambientazione Irlandese e la prima parte dell’America: la Irish Stout di O’Hara, un must nel mondo delle Irish Stout direttamente da O’Hara vicino a Dublino.

Una birra beverina, ma schietta decisa, per nulla accomodante, riflette la difficoltà e la solitudine di Eilis con un finale non perfetto in cui l’amarezza del caffè si spinge leggermente oltre ed arriva ad esser quasi fastidiosa.

 

Proprio per questo copriamo il problema con una birra che ti accompagni dolcemente fino alla risoluzione: una Sweet Stout, in particolare il mio consiglio casca sulla riedizione di un classico della produzione Stout ovvero la Oyster Stout di Marston che era persino uno degli esempi di stile sul BJCP, il birrificio di Wolverhampton nel suo ammodernamento, ha sfornato la Pearl Jet, naturale evoluzione della Oyster.

 

 

 


Questa vi accompagnerà fino alla fine cullandovi e coccolandovi con una leggera dolcezza ed una pulizia unica che coprirà qualsiasi rimasuglio dell’Irish più carica.

 

Due ottime birre, non due capolavori, per farsi un’idea del mondo Stout al di fuori della Guinness.

 

Fad saol agat, gob fliuch, agus bás in Éirinn!

(Voi possiate vivere a lungo, avere la bocca bagnata e morire in Irlanda!)… o forse andarvene negli Stati Uniti!

 

Buona visione e... buona bevuta!

Chi lo ha scritto

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44 commenti

Fabrizio Cassandro

4 anni fa

Grazie! 
Dovrebbe uscire il nuovo numero a breve 👍

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Fabrizio Cassandro

5 anni fa

Amareggiato come dopo una stout xD
Alla fine come in ogni cosa si tende a dare tanti nomi, non sempre con differenze così abissali. Nel mondo della birra serve principalmente per le competizioni in cui l'essere o meno in stile conta moltissimo: meglio uno stile in più che uno in meno non abbastanza chiaro.

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Fabrizio Cassandro

5 anni fa

Tra l'altro una delle poche che sta riuscendo a gestir bene il passaggio da giovane attrice a professionista... (poi vabbè io sono di parte)

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Francesca Sica

5 anni fa

Grazie per il cinefacts ☺️ purtroppo devo recuperare Café Society 😔

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Fabrizio Cassandro

5 anni fa

Anch'io scherzavo, tranquillo!

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Fabrizio Cassandro

5 anni fa

Eh dici nulla, il gioco fatto con la luce in quella scena è fantastico (mini cinefacts: quello non era un sole ma una luce calda messa dalla troupe perchè l'effetto fosse più caldo e vicino). A me ricorda tantissimo il modo di giocare con la luce di Storaro ed Allen in Cafè Society nella metà losangelina.

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Mells324B21

5 anni fa

Ovviamente non intendevo alcolismo in senso letterale. Sono una grande fan della birra, soprattutto di quelle irlandesi(Il viaggio in Irlanda a 18 anni mi ha decisamente segnato).
In effetti, l'avevo letta da qualche parte questa cosa :)

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Francesca Sica

5 anni fa

Sarò scontata, ma adoro quando Eilis ritorna in America e aspetta appoggiata al muro Tony... La luce la incornicia, quell'incrocio di sguardi... Sembra una rinascita, una sorta di 'quadro botticelliano'

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Fabrizio Cassandro

5 anni fa

💔
Scherzo, ma prima o poi ci provo con un'analcolica così accontentiamo tutti ;)

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Fabrizio Cassandro

5 anni fa

Intanto sottoscrivo ogni parola sulle prove e sulla psicologia. 
Sulla Guinness ho pensato una cosa quando ho scelto le birre per questo film: è vero che è un simbolo, ma qui non siamo a Dublino o all'interno di una battaglia per l'indipendenza, qui siamo in un paesino, nella noia, anche in quel velo di astio verso l'arretratezza che si vede intorno per quello "come simbolo" ho preferito una birra meno "centrale" è più di periferia come l'O'Hara's (oltre che leggermente più interessante a livello gustativo), ma siamo ai dettagli xD

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