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#Hey,Doc!

I 5 corti documentari candidati agli Oscar 2021 - Recensioni

Le recensioni dei cinque film candidati al premio Oscar per il Miglior Corto Documentario 2021

Cari heydocchiani divoratori di documentari, bentornati all'appuntamento annuale con cui Hey, Doc! accompagna i suoi affezionati lettori lungo il red carpet più fotografato al mondo!

 

La cosiddetta Award Season sta per raggiungere il suo punto più alto (non tanto per importanza quanto per visibilità) con la celebre consegna delle statuette dorate che quest'anno verranno consegnate durante la 93ª edizione dei Premi Oscar, un'edizione particolare con i film in gara che non sono stati scelti utilizzando i soliti criteri ma che, a causa della pandemia da COVID-19, sono stati ammessi in concorso seguendo regole un po' diverse riguardo l'uscita in sala, l'area di distribuzione e i tempi di distribuzione.

 

Per le tanto dibattute regole che spingeranno verso una maggiore inclusione delle minoranze tra le maestranze che rendono possibile la realizzazione di un film, bisognerà invece aspettare il 2024.

 

Ma nell'attesa di conoscere i risultati dell'Academy, cosa c'è di meglio se non andare a curiosare tra i candidati in lizza, sguazzando curiosi nel nostro genere preferito?

 

 

[Anche lui vuole curiosare...]

 


Bravi, i veri heydocchiani come voi non si chiedendo mica a quale genere ci stiamo riferendo!

 

È ovvio che parliamo del Documentario

Come ogni anno - e come accade anche per il genere dei film d'animazione - l'Academy assegnerà una statuetta al Miglior Cortometraggio Documentario e una al Miglior Documentario: questo sottolinea come ai cortometraggi venga riconosciuto tanto valore quanto ai lungometraggi.

 

Siete scettici riguardo la parità di genere...cinematografico?

 

Hey, Doc! vi dà un primo spunto per riflettere e ricredervi, consigliandovi i 5 cortometraggi documentari che si sono contesi il Premio Oscar nel 2020, anno in cui la statuetta è stata assegnata a Learning to skateabord in a warzone (if you're a girl) di Carol Dysinger, una piccola perla da non perdere. 

 

 

 


Guardando i candidati agli Oscar 2021 in questa categoria
 si nota come a legare i diversi cortometraggi ci sia un filo conduttore comune: denunciare la violazione dei diritti dell'Uomo.

 

Storie di razzismo passate e attuali, rivendicazione della libertà di espressione, condanna della guerra e dei suoi nefasti effetti che ledono e, nei casi peggiori, negano prepotentemente i diritti alla sicurezza e alla vita.

Sono cortometraggi, ma ciò che non hanno in minutaggio lo recuperano con l'intensità delle immagini.

 

Mettetevi comodi sul divano e, in base al vostro stato di residenza, rilassatevi come potete... prima di impazzire dalla rabbia per ciò che vedrete.

 

Buona visione!

 

 

 

Colette

di Anthony Giacchino

 

Di film e documentari che trattano il tema della Shoah, mostrando gli atti disumani di cui si macchiarono i nazisti a metà del XX secolo, ne è piena la cinematografia ma, come dimostra il cortometraggio Colette, è ancora possibile raccontare storie coinvolgenti che mettono in luce gli effetti di alcune tra le pagine più tristi della Storia.

 

E non solo è possibile ma, come diceva qualcuno che quella brutalità la vide con i suoi occhi e, tormentato da essa, decise di lasciare questo mondo, è necessario continuare a raccontare quelle storie "stando in casa e andando per via", fare da testimoni, per poi non ritrovarsi un giorno intrappolati nella stessa melma.

 

Colette Marin-Catherine è un'anziana signora francese che vive attualmente a Caen, in Normandia, e che entrò a far parte della resistenza da giovanissima insieme a sua madre, suo padre e suo fratello maggiore Jean-Pierre.

 

Nel 1940 la Seconda Guerra Mondiale imperversava e intanto Colette e la sua famiglia lavoravano di nascosto per raccogliere informazioni utili al movimento della resistenza, procurando documenti falsi a chi, tra i perseguitati dai nazisti, ne avesse bisogno.

 

 

[Le protagoniste del documentario, Colette e Lucie, mentre guardano una foto di Jean-Pierre]



Ma l'arresto del primogenito della famiglia di Colette, risoltosi drammaticamente nell'omicidio di questo da parte dei nazisti, segnò la vita della sorella che, anche a guerra finita, si rifiutò sempre di mettere piede non solo nel campo di concentramento in cui era morto il fratello, ma in qualunque luogo della Germania.

 

Fino a quando, recentemente, non ha incontrato Lucie Fouble.

 

Ricercatrice storica al museo della Seconda Guerra Mondiale La Coupole, Lucie si è messa in contatto con Colette mentre era al lavoro su un dizionario biografico che avrebbe raccolto informazioni sui 9000 francesi deportati nel campo di concentramento Mittelbau-Dora, a Nordhausen, al fine di avere informazioni sul fratello e sperando di convincerla a aiutarla.

 

 

[Colette e Lucie visitano il campo di concentramento Mittelbau-Dora, a Nordhausen]

 

Ha così avuto inizio la frequentazione tra Lucie e Colette, due generazioni anagraficamente lontane ma che si sono infine scoperte legate dall'obiettivo comune di conoscere meglio il passato: c'è chi come Lucie ha sempre voluto approfondire e chi come Colette ha invece evitato di farlo per decenni, perché la verità non le provocasse più dolore di quanto non avesse già fatto tutto il resto che aveva dovuto sopportare.

 

Ma non è mai troppo tardi per capire quanto sia fondamentale essere testimoni di eventi la cui riproposizione sarebbe l'ultima cosa auspicabile per l'umanità.

 

Il cortometraggio di Anthony Giacchino racconta come la protagonista Colette abbia coraggiosamente affrontato le sue paure in un faccia a faccia che, oltre a liberarla da un carico emotivo che l'ha inconsciamente appesantita per tutta la vita, le ha insegnato - nonostante l'età - a non avere pregiudizi proprio nei confronti di chi, per degli insensati pregiudizi dai crudeli risvolti, le aveva distrutto la famiglia.

 

Disponibile su YouTube.

 

 

 

A concerto is a conversation

di Kris Bowers e Ben Proudfoot

 

Se pensate di aver già sentito il nome di  Kris Bowers, uno dei due registi di A concerto is a conversation insieme a Ben Proudfoot, vuol dire che siete dei veri cinefili, attenti anche alle colonne sonore dei film.

 

Pianista e compositore, Bowers è colui che ha dato vita alle colonne sonore di film come il famoso Green Book e che ora ritoviamo tra i protagonisti di questo corto documentario mentre conversa con suo nonno Horace

Come un direttore d'orchestra decide quali saranno i modi e i tempi con cui musicisti dialogheranno tra loro e con se stesso, così il nonno di Kris Bowers dà il via alle danze e apre la conversazione con il nipote chiedendogli cos'è un concerto.

 

È così che, parlando di musica, emerge l'insicurezza del giovane compositore di cui dice di essere stato e di essere, talora, ancora vittima.

 

 

[Kris Bowers al pianoforte]

 

Dalle sue parole capiamo il timore di Bowers di non essere degno del posto da direttore d'orchestra.

 

Questa sindrome dell'impostore, però, non è guidata dalla concorrenza dei validi colleghi che lo circondano, bensì dal fatto di avere la pelle nera in un mondo di compositori prevalentemente bianchi. 

È questo che dà il La al nonno novantunenne per iniziare a raccontare la storia della sua famiglia, una storia che va a pescare nella sua infanzia di bambino cresciuto in una Florida razzista, in quegli anni '30 in cui l'idea comune dell'afroamericano coincideva ancora con quella dell'uomo inferiore su cui avere la precedenza in tutto, un essere da sfruttare, praticamente uno schiavo.

 

Ma Bowers senior racconta come non si sia mai dato per vinto e come, negli anni '40, si sia messo in viaggio con pochi dollari in tasca e tanta voglia di riscatto sociale.

 

 

[Horace Bowers, uno dei due protagonisti di A concerto is a conversation]

 

Tante ore di autostop ma soprattutto intraprendenza, caparbietà e mai un passo indietro per sopravvivere, prima, e vivere degnamente, poi, in un mondo che puntava solo a buttarlo giù.

 

In A concerto is a conversation la musica apre e chiude un concerto pedagogico tra un nonno suo nipote, quasi come fosse una conversasione tra un vecchio ottone ossidato, un po' malconcio ma ancora funzionante, e il nuovo, esplosivo rullante che farà faville nell'orchestra ma a cui serve, però, ancora una stretta alla cordiera.

 

Un confortante abbraccio, tipico dei nonni.

 

Disponibile su YouTube.

 

 

 

Do not split

di Anders Hammer

 

L'instabilità del rapporto socio-politico tra la Cina continentale e Hong Kong non è storia nuova: questo clima di tensione, infatti, ha radici profondamente aggrappate all'epoca in cui la regione dall'omonima capitale era ancora una colonia del Regno Unito.

 

Lentamente, il rapporto è andato deteriorandosi a causa della volontà da parte della Cina continentale di avere un controllo sempre maggiore su Hong Kong, nonostante il rapporto tra le due parti in causa sarebbe dovuto e dovrebbe tuttora essere, almeno ufficialmente, il cosiddetto "un paese, due sistemi": un'unica entità formata dalle due parti, unita, ma che allo stesso tempo lascia a entrambe libertà in campo politico, economico, giuridico e legislativo.

 

Sulla carta è sempre tutto molto bello ma, come spesso accade, i fatti sono diversi.

 

In questi caso tanto diversi da aver scatenato, a partire dall'estate del 2019, episodi paricolarmente violenti in quello che è ormai considerato uno dei movimenti di protesta più imponenti che ci siano mai stati a Hong Kong e che trovano spazio nel corto documentario Do not split.

 

 

 

 

Proteste ce n'erano state tante già in passato e il risolversi di queste in eventi violenti, come quelli mostrati nel documentario di Anders Hammer, era già nell'aria.

 

Basti pensare alla cosiddetta "rivoluzione degli ombrelli" del 2014, durante la quale cortei inizialmente pacifici di hongkongers (sostenitori dell'indipendenza di Hong Kong dalle scelte della Cina continentale) si trasformarono in una sorta di testuggine romana grazie agli ombrelli dei manifestanti, usati per proteggersi dai lacrimogeni lanciati dalla polizia che voleva disperdere gli oppositori al governo.

 

La goccia che ha fatto traboccare il vaso nel 2019 è stata la proposta del governo cinese di approvare la legge sull'estradizione di sospetti criminali, senza tenere conto del parere di Hong Kong che, insieme a numerosi gruppi che difendono i diritti umani, hanno iniziato a temere che la Cina potesse abusare di questa legge per difendere se stessa dagli oppositori al governo.

 

 

[Uno dei tanti hongkongers che indossa maschera antigas e occhiali e altri manifestanti che si difendono dai fumogeni con gli ombrelli]


Do not split rende lo spettatore manifestante tra i manifestanti, dandogli la possibilità di guardare da vicino - e soprattutto dall'interno - cosa avvenga nei cortei di hongkongers che chiedono a gran voce libertà e autonomia.

 

Non mancano scene di raduni di filocinesi a Hong Kong durante cui gli anti-hongkongers riempiono di insulti gli oppositori al governo cinese centrale: è a tutti gli effetti una guerra civile non dichiarata. 

Quella che vediamo è la nuova generazione di manifestanti, quella fatta da persone che si organizzano su Telegram e su Facebook per poi ritrovarsi per strada con i cellulari a filmare le azioni disoneste perpetrate per strada dalla polizia, la violenza gratuita, gli arresti ingiustificati.

 

Notevole è anche l'impegno degli studenti universitari di Hong Kong che, proprio a fronte del loro grande impegno sociale, sono stati vittime di soprusi da parte di quelle che dovrebbero essere le forze dell'ordine. 

Come viene detto da uno dei manifestanti intervistati, la pandemia da COVID-19 ha rallentato tutto il movimento delle proteste a causa delle restrizioni inerenti al distanziamento sociale, ma il movimento degli hongkongers non si è fermato del tutto.

 

Società sussidiaria della testata giornalistica First Look Media - tra i cui fondatori ci sono state persone del calibro di Laura Poitras (Citizenfour, Risk) - Field of Vision ha distribuito Do not split tenendo fede al suo leitmotiv: dare voce al giornalismo indipendente.

 

Disponibile su Vimeo e YouTube.

 

 

 

Hunger ward 

di Skye Fitzgerald

 

È assurdo come il binomio Yemen-guerra non desti quasi più stupore.

 

Da tempo ci siamo ormai abituati a notizie riguardanti bombardamenti e attentati in “quei paesi”, nazioni culturalmente diverse da quelle europee, politicamente e economicamente più forti, in cui la povertà, il disagio e l’instabilità sociale sono problemi serissimi e rappresentano solo alcuni degli effetti nefasti della guerra.

 

Seguendo il filone di documentari come First to fall (Rachel Beth Anderson e Timothy Grucza, 2014),  Alla mia piccola Sama (Waad Al-Kateab, 2019) o The cave (Feras Fayyad, 2019), Hunger ward si pone come obiettivo quello di dare voce al dolore, di gridare la sofferenza di un popolo che purtroppo, come tanti altri, sembra invisibile all’occidentale medio.

 

Hunger ward mostra senza filtri uno dei peggiori cancri che la guerra in Yemen - iniziata come guerra civile nel 2014 e proseguita come vera e propria guerra tra Yemen e Arabia Saudita - ha portato con sé: la malnutrizione infantile.

 

 

[Un raro sorriso sul volto di una piccola paziente del Sadaqa Hospital, luogo in cui è ambientato Hunger ward]

 

La guerra e le motivazioni per cui è iniziata, le fazioni, chi è da quale parte: tutto passa in secondo piano e nessuna ragione spacciata per tale ha più senso se a andarci di mezzo sono dei piccoli esseri umani, senza colpa, solo sfortunati a essere nati in quel disgraziato angolo di mondo.

 

Il regista Skye Fitzgerald - documentarista non nuovo alle vicende che affrontano le efferatezze della guerra - gira il suo cortometraggio al Sadaqa Hospital di Aden, all’interno del reparto di malnutrizione pediatrica, mettendo subito in chiaro che quelle che andremo a vedere saranno immagini tanto vere e dirette quanto forti, per niente addolcite.

 

Non è fondamentale vedere un corpo morto per restare turbati o per realizzare quanto la morte sia cosa ordinaria: essa è tragicamente vivida anche negli occhi di quei bambini denutriti, stanchi di vivere dopo solo pochi anni di permanenza su questa Terra, che non trovano un motivo per accennare un sorriso.

 

 

 

 

Corpicini scheletrici, volti emaciati, sguardi persi spesso non più capaci di ricambiare quello straziato dei loro genitori che vanno disperatamente in cerca di qualcuno o qualcosa a cui dare la colpa per tanta ingiustizia.

 

Il titolo Hunger ward, letteralmente “reparto della fame”, giocando con l’assonanza della parola “ward” con “war”, guerra, sottolinea come tutta la situazione del conflitto in Yemen si sia trasformato in una vera e propria lotta alla carestia che, purtroppo, vince quotidianamente numerosi duelli con la medicina, lasciando impotente il personale medico.

 

Disponibile su Pluto TV.

 

 

 

A love song for Latasha

di Sophia Nahli Allison

 

La voce di una donna che inizia a scavare nel suo passato fa da voce narrante per le scene di apertura di A love song for Latasha, scene in rewind che palesano da subito l'intenzione della regista Sophia Nahli Allison di portarci indietro nel tempo, insieme alla narratrice, nei suoi ricordi di adolescente.

 

È Tybie O'Bard a parlare, la migliore amica della protagonista del corto, che negli anni '90 viveva a Los Angeles in un quartiere dove non mancavano le quotidiane esternazioni di intolleranza nei confronti della comunità afroamericana.

 

Queste manifestazioni di disprezzo e pretesa di superiorità da parte dei bianchi della zona potevano andare da atteggiamenti intimidatori verbali fino a atti fisici più o meno violenti.

 

 

[Da sinistra verso destra: Latasha Harlins, protagonista di A love song for Latasha, e Shinese Harlins, cugina di Latasha presente nel documentario]

 

Furono proprio questi ultimi la causa dei tristi eventi di cronaca che coinvolsero Latasha Harlins, studentessa modello, amante dello sport e con brillanti progetti per il futuro: una vita difficile la sua, ma ricca di affetti e ambiziosi progetti.

 

Una vita al prezzo di un succo d'arancia. 

Il viaggio nel passato di Tybie è una sorta di doloroso pellegrinaggio per ricordare ciò che la sua cara amica quindicenne dovette subire nel 1991, nel minimarket vicino casa, il più tragico episodio tra quelli a cui, però, era purtroppo solita assistere ogni giorno.

Azioni volte a danneggiare, a umiliare e ferire chi viene ritenuto inferiore, bassezze a cui addirittura ci si abitua e che, anche se non siamo vittime, accettiamo come spettatori.

 

Perché le cose sono sempre andate così, quindi la accettiamo come normalità.

 

 

 


Ma è proprio l'accettazione di certi marci comportamenti che ci rende complici.

 

In A love song for Latasha, l'uso dell'animazione per le scene più drammatiche arricchisce il cortometraggio trasmettendo allo spettatore un ventaglio di emozioni che sarebbe stato difficile trasmettere in altro modo.

La violenza non viene mai mostrata esplicitamente ma lasciata percepire e immaginare.

 

Oggetti chiave disegnati in maniera stilizzata, linee bianche, essenziali, su sfondo nero e macchie di colori freddi: emozioni grafiche.

 

Disponibile su Netflix.

 

 

Speriamo di avervi dato un po' di buoni spunti per recuperare alcuni tra i candidati ai Premi Oscar 2021 e, per rimanere in tema, vi ricordiamo anche del nostro ConcorsOscar 2021.

 

Per il momento Hey, Doc! vi saluta e vi dà appuntamento al prossimo articolo sui candidati all'Oscar per il Miglior Documentario 2021!

 

Stay doc!

 

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