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Drinking Buddies: amici di bevute nell'era delle IPA

Esempio perfetto del Mumblecore, Drinking Buddies è una fusione tra il mondo dei microbirrifici e il classico gioco tra amore e amicizia.

''I wanted to do something about Craft Beer [independent breweries] and set in the Craft Beer world but also I was inspired by Bob & Carol & Ted & Alice, a Paul Mazursky movie.

Just to tell a complicated adult [story] that was funny, that managed to remain funny even though it was getting into serious, interesting things.'' 

Joe Swanberg

 

Sinossi

Guardiamo l'etichetta: un breve riassunto del film (chi soffrisse gli spoiler salti gli ultimi paragrafi).

 

Kate (Olivia Wilde) e Luke (Jake Johnson) sono colleghi in un birrificio artigianale di Chicago e tra loro l’alchimia è lampante, ma sono entrambi fidanzati: la prima con Chris (Ron Livingston), con cui sta da otto mesi, il secondo con Jill (Anna Kendrick) con cui già pianifica, o almeno si impegna nel farlo, il matrimonio.

 

A un evento organizzato per il birrificio in cui lavorano, le due coppie si conoscono e i quattro organizzano un week-end nella casa in montagna di Chris.

 

Durante la breve vacanza restano divisi per quasi tutto il tempo: Jill e Chris, le metà intraprendenti e intellettuali delle rispettive coppie, si ritrovano a fare un’escursione da soli mentre Kate e Luke restano a casa a bere, mangiare e giocare a Blackjack. 

 

 

 


I primi, tanto in sintonia quanto le loro metà, presi da un momento di debolezza si baciano.

 

Tornati a casa entrambi fingono che nulla sia avvenuto e il breve soggiorno si conclude con i due colleghi davanti ad un falò in piena notte.

 

Al ritorno, Chris decide di rompere con Kate, che sembra non interessata ad una relazione seria tanto quanto lui.

Lei, rimasta sola, accusa il colpo e, dopo aver trascorso una notte con Dave, prende la decisione di cambiar casa.

 

Chiama Luke per farsi aiutare nel trasloco e lui, rimasto da solo a casa poiché Jill è andata in Costa Rica per alcuni giorni, accetta. 

 

Tutto sembra andare bene, la consueta sintonia sembra pronta a sfociare in qualcosa di più da un momento all’altro, ma l’idillio si spezza in un breve istante: Luke si ferisce con un chiodo.

Kate chiama Dave perchè li aiuti e tutti e tre finiscono il trasloco. 

 

 

 


Rimasti da soli nella nuova casa, Kate e Luke prima si addormentano teneramente insieme, poi litigano animatamente: lui si è sentito messo da parte e non abbastanza "accudito" in un momento di difficoltà.

 

Rincasando il ragazzo trova Jill che, tornata in anticipo dal viaggio, gli racconta in lacrime dell’accaduto tra lei e Chris.

Lui decide di perdonarla.

L’indomani tra Luke e Kate c’è tensione, ma tutto si risolve a tavola dove i due ritornano a scherzare come all’inizio del film.

 

Commento

Stappiamo e versiamo: un'analisi del film, indipendentemente dalla birra, ma che ci porti nel mood del film.

 

“They will soon learn that playtime is over that couplehood is a vast but unstable edifice that can be shaken and even shattered - or, for that matter, defended valiantly by a single action. […]

“Drinking Buddies” is a movie of sublime paradox” 

R. Brody, The New Yorker

 

 

 

 

 

Per chi avesse letto tutta la trama - ma anche per chi non lo avesse fatto - potrebbe sembrare un film sul nulla, su un'occasione mancata che non sembra nemmeno troppo accattivante, su un intreccio amoroso tra trentenni con lavori strani.

Normale amministrazione.

 

Drinking Buddies, invece, è molto di più: parla di destino, fotografa una generazione intera e analizza con una lucidità tagliente le distanze ed i problemi di una giovane coppia, una storia molto personale e semplice, ma che proprio nella sua semplicità trova la sua forza.

 

Joe Swanberg, autore tra gli altri di LOL (2006)Un Tranquillo Weekend di Mistero (2015), è uno dei registi più emblematici del movimento cinematografico indipendente chiamato Mumblecore.

 

Assieme a lui troviamo, per fare qualche esempio: Noah Baumbach (Frances Ha, While We’re Young, Il calamaro e la balena, Lo Stravagante Mondo di Greenberg, Mistress America e non a caso sceneggiatore di due film di Wes Anderson), Craig Johnson (The Skeleton Twins), i fratelli Duplass (Cyrus), Lynn Shelton (Humpday ed alcune puntate di New Girl), Greta Gerwig (co-sceneggiatrice di alcuni film del compagno Baumbach ed autrice del recente Lady Bird) e Jesse Zwick (About Alex). 

 

Il movimento Mumblecore non è una rivoluzione in opposizione al cinema contemporaneo, ma una radicalizzazione e sistematicizzazione di alcune tendenze comuni a tutta una generazione di registi e a una parte di quella precedente: come Jason Reitman, probabilmente il più vicino, ma anche in minor parte Alexander Payne, Derek Cianfrance, Wes Anderson (soprattutto la sua componente narrativa scissa ovviamente dalla sua estetica così personale) e Sofia Coppola.

 

Dopo che ne avremo parlato un po' sarà facile comunque riconoscere questi tratti in molto "cinema piccolo" americano al di fuori degli esempi che ho fatto. 

 

 

 


I registi Mumblecore vengono anche chiamati Slackvetes, dall’unione di Slacker, film di Richard Linklater di cui parleremo tra poco, e John Cassavetes, regista di grandissimi capolavori come Una Moglie e Volti.

 

Tale appellativo rende chiaro il solco in cui questo movimento si pone, spingendoci un po' più in là nel tempo, quello che va da Éric Rohmer (pensate a La Collectionneuse o Le Notti di Luna Piena) a Cassavetes per poi passare al cinema indipendente degli anni '90 di Linklater, Jim Jarmusch e Kevin Smith - senza chiaramente paragonando la statura di questi movimenti, sarebbe folle.

 

Il Mumblecore, oltre all'attenzione per la parola e per le storie personali, ha molti tratti in comune con "i suoi padri" anche a livello produttivo. I budget sono quasi sempre ridotti all'osso, come nel cinema indipendente degli anni '90, e i mezzi scelti sono spesso a causa della comodità e della praticità.

In questo senso spopola il digitale e le location ridotte al minimo indispensabile: Drinking Buddies, che ebbe comunque un costo maggiore di Humpday, è costato meno di un milione di dollari.

 

C'è un nucleo rodato di registi-attori che ritornano in vesti diverse in varie opere, come nella Nouvelle Vague ritrovavamo François Truffaut ora sceneggiatore, ora attore, ora regista qui vediamo Greta Gerwig, Lynn Shelton e Mark Duplass ritornare nelle vesti di sceneggiatori, registi e attori.

 

In questo senso quasi tutti hanno una formazione attoriale, che ci riconduce a Cassavetes, Linklater e Jarmusch.

Il primo, in particolare,  è un grandissimo attore, famoso per lo spazio centrale dato all'improvvisazione, mentre gli altri due sono noti per il grande lavoro "alla pari" fatto con i loro protagonisti.

 

Altro elemento essenziale è l'attenzione ai volti, con la crezione di uno "star-system collaterale" a quello mainstream, fatto di giovani attori in rampa di lancio (Greta Gerwig, Saoirse Ronan, Anna Kendrick, Adam Driver, Brie Larson) e attori di "seconda fascia" o molto legati a generi e prodotti differenti re-inventati in ruoli drammatici (Jake Johnson di New Girl, Olivia Wilde di Dr. House, Jeff Daniels di Scemo e più Scemo, Jane Levy di Suburgatory, Ben Stiller, Adam Sandler).

 

 

 


Purtroppo il movimento ha avuto pochissimo seguito in Italia, un po’ per la distribuzione ridotta e un po’ perché figlio di tematiche prettamente americane arrivate in Italia solo con notevole ritardo, oltre che per i mezzi e le idee produttive totalmente indipendenti che da noi - a causa di un sistema produttivo e scolastico molto diverso - mancano completamente.

 

A livello tematico il Mumblecore, e tutto l’universo che gli gravita attorno, è un cinema che parla di persone che non riescono a trovare il loro posto nel mondo: spesso giovani intorno alla trentina, ma non sono così rari i coming-of-age con protagonisti più giovani (Lady Bird, il Calamaro e la Balena, Mistress America) o storie di adulti in crisi.

 

Spesso, queste storie vanno a braccetto con topoi molto graditi come famiglie disfunzionali o con storie problematiche alle spalle (The Skeleton Twins, Lo Stravagante Mondo di Greenberg, New Girl - sì: è una serie, ma è un prodotto Mumblecore a tutti gli effetti - Cyrus, The Meyerowitz Stories), il conflitto generazionale e il superamento dei traumi.

 

Spesso queste tematiche derivano o portano alla difficoltà di impegnarsi e di crescere - qualsiasi sia l'età di partenza - e sono spesso inserite nel contesto di un rapporto di coppia o di un mondo del lavoro completamente trasformato in cui emergono nuove figure professionali che vivono un'instabilità perenne (Drinking Buddies, While We're Young, About Alex, Humpday).  


Riassumendo: un cinema stilisticamente digitale, a basso costo, verboso, con un’estetica a tratti quasi instagrammistica (questa parola esiste, giuro), non invadente, ma sempre molto curata, narrativamente molto romantico, malinconico e talvolta nichilista. 

 

In quanto vi ho appena riassunto Drinking Buddies si colloca come un esempio perfetto: dei quattro protagonisti due lavorano in un microbirrificio americano (nella realtà è il birrificio Revolution di Chicago), uno è un discografico e l'ultima è un’insegnante sin da quando ancora frequentava l’università.

 

È difficile immaginarsi un film con questa ambientazione anche solo negli anni ‘90.

 

Swanberg non calca la mano sul contesto lavorativo come fatto da Baumbach in While We’re Young e Frances Ha, ma è impossibile non ritrovare questa instabilità lavorativa nei rapporti delle due coppie legata a doppio filo all'immaginario dell'artista.


Come degli artisti vivono alla giornata, aspettando di costruirsi un futuro.

 

 

 

 

Così come è impossibile non notare che la caratterizzazione hipster. 

 

E non lo dico in senso negativo, ma solo perché non riesco a trovare termine più rappresentativo di un film in cui si perdono a un certo punto almeno venti secondi a parlare della barba di Luke manco fosse Tommaso Paradiso - sì, mi vergogno molto di saper citare questa cosa.

 

Tutta la condizione lavorativa influenza fortemente il loro modo di vivere: libero, a cavallo tra la gioventù delle nottate davanti ad un falò e le proposte di matrimonio, tra l’hobby di bere craft e farsi la birra in casa e la necessità di trovare un’occupazione, in cui si vive insieme, ma tutto sembra pronto a crollare da un momento all’altro per essere - ancora una volta - completamente rimescolato a causa di una decisione presa a bruciapelo.

 

Non hanno più ventun’anni, quando la propria vita è in fase di costruzione e tutto cambia continuamente, come viene detto durante il film, ma è centrale il pensiero “I’m still Young” come dice Kate dopo la rottura con Chris.

 

Quasi tutte le iniziative (il trasloco, la rottura, il viaggio in Costa Rica, la gita a casa di Chris, il falò, l’escursione) sono prese d’istinto, come se fossero i ventenni di Dazed and Confused di Linklater, ma non lo sono più e lo dicono chiaramente, parafrasando in parte il fantastico titolo di Baumbach

While they’re young, they’re unconsciously and fastly becoming old. 

 

 

 

 

 

Swanberg torna sul topos della possibilità di un’amicizia tra uomo e donna in questo nuovo ambito lavorativo tutt’altro che canonico: sia Kate sia Luke, che si trovano a lavorare a strettissimo contatto, vivono per il proprio mestiere. 

 

Uno indossa costantemente gadget e indumenti di microbirrifici americani che ogni appassionato di birra nota immediatamente, l’altra passa gran parte della sua interpretazione - forse una delle migliori della sua carriera - con in mano una pinta o una bottiglia della "nostra migliore amica" (quasi sempre vera, tra l'altro).

 

Qui si colloca l’ibrido tipico del nuovo cinema americano: da un lato il classicismo di una narrazione che qualcuno potrebbe definire “trita e ritrita”, dall’altro un contesto sociale e una caratterizzazione tutt’altro che canonici.

 

Nel finale - su cui torneremo in seguito - è perfetta immagine di questo film che coglie a piene mani, ma in egual misura, dalle storie d’amore del cinema classico, fatte di dolcezza e fraintendimenti e dall’interesse sociale del cinema anni ‘70 e '90 made in USA, tutto velato da una leggera e scanzonata appannatura, tipica di qualche birra di troppo, figlia degli anni ’90 e 2000 americani. 

 

Proprio come in una sbronza da pub, Swanberg sceglie di essere sempre meno chiaro in ciò che ci mostra, dapprima ogni aspetto delle due coppie ci è chiaro, ma via via che andiamo avanti tutto si complica e si appanna - fino al finale che non parla, non spiega e forse non chiarisce nemmeno del tutto - ma di sicuro chiude degnamente un’opera che ha già detto ciò che voleva. Noi stiamo scoprendo solo un pezzetto di vita dei due colleghi, non c'è un punto di fine netto o un momento conclusivo e risolutivo, ma solo il nostro allontanarci da loro e lasciarli alla scoperta del loro futuro.

 

"it's hard for me, knowing how uncertain the world is, to put a certain, definite ending on a movie.

I feel like I'm hopefully hinting that there's a resolution without it being cemented down, or hammering you over the head with it."

Joe Swanberg

 

Nel primo atto tutto è lampante sotto i nostri occhi, dall’alchimia tra Luke e Kate alla differenza tra le due coppie: non è un caso che la prima volta che compare la birra nei discorsi tra Jill ed il suo fidanzato sia per ordinare una pinta di Pale Bell (Bell è il nome di uno dei birrifici fondamentali per i fondatori del Revolution in cui è stato girato Drinking Buddies), mentre tra Chris e Kate sia perché il primo non ha bevuto nessuna delle birre portategli dalla fidanzata. 

 

 

 


I primi hanno spesso sfondi chiari, caldi e colorati mentre per i secondi è tutto l’opposto. 

 

Luke e Kate sono ripresi spesso di lato, o comunque inseriti nella stessa inquadratura anche frontalmente, mentre Kate e Chris lo sono raramente e, quasi sempre, uno di loro è di spalle.

Per fare un esempio significativo: la prima inquadratura in cui sono presenti entrambi è nel momento in cui Chris la “sgrida” perché dimentica il sottobicchiere per la birra. 

 

Ancor più emblematici, e forse un pelo didascalici, come tutta la prima parte, sono due momenti iniziali in cui Chris e le crepe del suo rapporto con Kate sono delineati con una precisione chirurgica: lui le regala un libro - di quando gli uomini scrivevano di Dio, di figa e di se stessi - dicendole che gli ricorda il narcisismo di lei, e poi, alla festa al birrificio prende in giro la degustazione brassicola inventando sentori come “ginocchia sbucciate” e “pane e marmellata”.

 

La prima coppia è completamente inserita nella vita di Luke, tanto che la prima comparsa di Jill è al pub con gli amici del fidanzato, mentre la seconda è totalmente avulsa e l’incontro a casa di Chris sfocia quasi subito nel sesso, come a sottolineare la mancanza di interessi comuni e di alchimia tra i due. 

 

La distanza incolmabile tra le due coppie è esplicitata, come tutto nel primo atto, dai due alberi distanti e con in mezzo il mare che ci vengono mostrati all’arrivo nella casa al lago - potrebbero anche essere Kate e Chris, ma secondo me calza meglio la prima opzione.

 

 

 

 

Questa dicotomia tra le coppie continua fino alla fine del secondo atto quando Luke e Kate provano a mettersi alle spalle degli sfondi “caldi”.

 

In quel turbinio di tentativi e indecisioni - che è l’atto finale del film - si risolverà tutto con il ritorno a casa, le lacrime di Jill e il bacio amorevole sulla sua fronte del futuro marito: la pace e l'accoglienza delle location sono tornate, nonostante tutto.

 

Il secondo atto si concentra maggiormente sui singoli: dopo un primo atto dedicato alle coppie, Swanberg si concentra su Kate e Luke come a voler seminare quello che si raccoglierà nel successivo terzo atto.

Kate, da addetta alla comunicazione responsabile e precisa, inizia a mostrare la sua immaturità, la sua impulsività ed in parte il suo egoismo

Luke, allo stesso modo, palesa la sue difficoltà nell’affrontare le situazioni.

 

L’ingresso di Dave, il ritorno da Chris, i “non detti” di Jill sono tutti piccoli batteri che Swanberg butta nel fermentatore e che poco a poco cresceranno per esplodere nel momento in cui stapperemo due birre e le verseremo nelle due pinte del tavolo finale.

 

Prendendo come centro dell'azione Luke, il simbolo dell'indecisione, Swanberg riesce benissimo, con l'andare avanti della vicenda, a non farci mai parteggiare per l’una o l’altra via, ogni momento con Jill trasuda tenerezza e preoccupazione reciproca tipica della “coppia adulta” così come ogni momento con Kate è fatto di alchimia e di quella frizzantezza delle coppie di adolescenti: i falò in spiaggia, i sandwich esagerati e le bevute. 

 

Non mancano mai i batteri, i "ganci", di cui abbiamo già parlato:

“You’re crazy”, dice Luke non seguendo Kate in acqua nel pieno della notte. 

 

Tutto è messo in campo, ma esplicitato solo nel culmine di questo gioco del “potebbe essere”, il terzo atto: il trasloco o meglio la deflagrazione di un rapporto mai nato e che mai avrebbe potuto funzionare. 

 

 

 


La passione iniziale c’è, l’alchimia è chiara dal primo secondo, ma poi arriva la convivenza, i due corpi che, nel momento potenzialmente più romantico della loro storia, a differenza del bacio di My Blueberry Night non si incastrano mai.

 

La mano ferita nel tentativo di iniziare qualcosa di nuovo (il trasloco) che non viene curata, la chiamata dell’amico non appena Luke non è più disponibile e poi il litigio finale:

“Noi adulti facciamo piani e poi li rispettiamo, il riferimento non è solo alla cena insieme, ma al bar che sognavano di aprire a Cuba e a tutta la loro storia, che lì si sta chiudendo pur non essendo mai iniziata.

 

 

Una frase lapidaria e devastante come un feto nato morto. 

 

Il ritorno a casa di Luke è un gioco di specchi magistrale: l’errore perdonato, la mano curata, nessuna euforia in partenza, ma due teste che combaciano alla perfezione e la certezza che la scelta giusta è stata fatta.

 

La scelta tipica del Mumblecore di lasciare ai quattro attori già più che affermati - ma non di primissimo profilo - molto spazio per limprovvisazione rende le interazioni quanto mai reali e scorrevoli: il limite tra la recitazione e la realtà sembra non esserci.

 

Tant'è che ogni birra bevuta era vera e i due protagonisti hanno svolto davvero dei lavori all'interno del birrificio in cui, in un cortocircuito come quello di Boris, c'era davvero una Kate addetta alla comunicazione che è stata la base del personaggio di Swanberg. 

Kate è la bellissima e forever-young Olivia Wilde, Luke è Jake Johnson (la Kate di New Girl). 

 

Non serve il background per caratterizzarli, bastano piccoli gesti, poche pennellate e in questo gioco di incastri in cui tutto è ben delineato con semplicità assoluta. 

 

 

 


La fragilità sociale dei personaggi in campo è acuita dalla scelta di “metterli a nudo” facendoli improvvisare, come il regista stesso sottolinea: 

 

“Even when you’re a professional actor who has been doing it for forever, it’s still a really vulnerable position to be in.

It’s a hard job.

It’s often an embarrassing job - you’re performing in front of people who may or may not appreciate that.

You’re sort of putting yourself out there.

 

It sounds simple, but it goes a long way to remind someone - even someone who is a famous movie star - that they’re good at what they do.”

 

Tolto tutto quello che può essere l’aspetto contenutistico e narrativo di Drinking Buddies, c'è da dire che Swanberg e Richardson (Direttore della Fotografia anche di Digging for Fire e di Happy Christmas sempre di Swanberg, oltre che del bellissimo Wind River di Taylor Sheridan) riescono a confezionare un prodotto molto curato e piacevole dal punto di vista visivo e registico.

 

L’alternanza tra molto movimento e staticità riesce a donare quel ritmo frastagliato perfetto per una commedia romantica e, ancor più appropriato in questo tentativo di portar ordine nella caoticità delle loro vite, l’uso dei movimenti dietro ai personaggi per passare da un campo all’altro del dialogo - nei momenti di maggior tensione - è un dettaglio tanto semplice quanto efficace nel capovolgere situazioni e sentimenti. 

 

 

 

 

La fotografia non è mai invadente, ma racconta molto.

 

Non abbiamo neon sparati e volti tagliati da colori saturi e preponderanti, ma l’uso di luci soffuse, delle lampade di queste case moderne e disordinate, delle lucine di natale sempre presenti sui poetici sfondi sfocati è perfetto.


Luci calde e fredde si alternano senza farsi notare, ma raccontandoci moltissimo sui momenti e sulle situazioni, così come le angolazioni di queste abat-jour bastano per rivoluzionare una scena, e ogni movimento, come ogni decisione improvvisa di Kate, ribalta punti luce e prospettive.


Scelte visive più invadenti o più deboli avrebbero fatto crollare completamente questo film che vive della sua coerenza e della certezza di ciò che si vuole fare.

 

 

 

 

La birra

 

Annusiamo ed assaggiamo: una scena in cui la birra è protagonista.

 

Fin qui Drinking Buddies potrebbe sembrare un film fin troppo didascalico, seppur perfettamente messo in scena su un canovaccio già visto.


Ma poi... Ecco il colpo di coda, che dopo tutti i dialoghi messi in scena non poteva che essere muto: due persone ad un tavolo con davanti due birre diverse, l'imbarazzo iniziale e un pacchetto di patatine offerto, una banana data in pegno, ma poi restituita, nessuna scusa raffazzonata, solo un gioco di sguardi e un’amicizia. 

 

La dimensione giusta di un’alchimia tra due persone in momenti diversi della loro crescita e probabilmente incompatibili, sicuramente in quel momento. 

L’amicizia tra uomo e donna in questo nuovo mondo esiste e, come della buona birra, non se ne può fare a meno nemmeno se fa male come un chiodo stretto in una mano.

 

La birra è centrale per tutto il film e di momenti e situazioni ad essa legati ne troverete a bizzeffe, ma in questo finale saltano subito agli occhi i due colori delle birre in tavolo che da soli dicono tutto sul perché e per come le cose sono andate così.

 

Gli occhi sono catturati da quelle due tinte e dal bicchiere in più rispetto all'analoga  situazione di inizio film.

Dagli abiti di Luke alle mani sempre piene di Kate, tutto in questo film è un inno alla birra e, in questo senso, è difficile non scorgere dei paralleli, tra il processo brassicolo e il film che, nella sua tripartizione, sembra proprio riprodurre tutto il processo produttivo della birra attraverso i tre passaggi fondamentali. 

 

Ammostamento (primo atto), fermentazione (secondo atto) e degustazione (terzo atto). 

 

 

 

 

Accompagnamento

 

Il momento migliore, la bevuta: cosa accompagniamo al film?

Ecco un consiglio su cosa bersi mentre si guarda o riguarda ciò di cui abbiamo parlato.un'analisi del film, indipendentemente dalla birra, ma che ci porti nel mood del film 


L’America è stata dalla fine degli anni ‘70 il principale motore della rinascita del movimento brassicolo artigianale imponendo stili e tendenze nel corso degli anni e innovando in maniera totale la concezione e la percezione del mondo della birra. 

 

Senza la rinascita americana il mondo della birra non sarebbe mai arrivato a Drinking Buddies: alla nascita di numerosissimi microbirrifici e brewfirm, alla scoperta del marketing aggressivo, all'attenzione alla grafica, al mondo hipster, alla riscoperta della sperimentaizione.

 

Tra tutte le mode arrivate da oltreoceano, una delle più importanti è stata quella delle IPA, tanto che dai primi del 2000 in poi, ogni birrificio aveva la sua India Pale Ale e tutti i pub - e bevitori - a fianco degli italici (e sbagliatissimi) “bionda, rossa e bianca” ci mettevano IPA

 

Come ogni moda la situazione è degenerata con birre in fotocopia con amari (uno dei tratti dell’IPA è un amaro molto seccoastringente) insostenibili, ma in questo delirio di amarezza si è codificato uno stile che viene definito American IPA.

 

 

 


Le IPA nascono in Inghilterra e di solito vengono raccontate come birre da esportare nelle colonie, in particolare in India (che come tutti i paesi del Commonwelth era obbligata a comprare i prodotti dalla regina piuttosto che produrseli).

 

Al fine di poterle mantenere meglio venivano “infarcite” di luppolo - ottimo conservante che però i palati di Sua Maestà non amavano - che per i poveri indiani poteva andar bene.

 

Ma questa "leggenda" raccontata spessissimo tra chi studia e si interessa al mondo delle birre è leggermente inesatta.

Le IPA, o meglio, le October Ale, esistevano già prima ed erano state una risposta al boicottaggio dei vini francesi durante i lunghi anni di guerra.

 

Erano birre per ricchi che sfruttavano il luppolo per resistere durante l'anno di invecchiamento in botte che la contraddistingueva.

Successivamente, il birrificio londinese Bow di George Hogdson sfruttò il fatto di essere molto vicino ai magazzini di prodotti per le Indie e iniziò ad importarle assieme ai suoi altri prodotti.

 

La buona resistenza al viaggio fece sì che queste birre furono subito amate nelle colonie, e da questo deriva la leggenda di cui vi ho parlato. 

 

Finita la necessità se ne è fatta virtù, e le IPA sono state uno degli stili della rinascita brassicola.

In particolare, le American IPA si differenziano molto dal modello inglese, in cui l’India Pale Ale è rimasta sempre ai margini della produzione: scompare o si attenua tutto quanto è di derivazione del malto (caramello, crosta di pane tostato) per lasciar spazio ai sentori tipici del luppolo (citrico, agrumato, floreale fino a salire al frutto giallo) e a una gradazione leggermente più spinta e a un corpo decisamente più beverino ed esile.

 

 

[Etichetta della First Frontier, il birrificio danese è molto attento all'estetica delle proprie birre]

 

 

In particolare, ho selezionato per voi la First Frontier di To Ol, birrificio danese “figlio” del più noto Mikkeller.

 

Questa birra è parte di un trittico che comprende anche la Final Frontier (Double IPA) e la Sans Frontiere (Saison).

 

 

Oltre ad essere uno dei pochi prodotti che ho gradito particolarmente di uno stile che non è proprio nelle mie corde (ma le eccezioni ci sono, e non sono neppure poche) è una birra che è chiara espressione di un movimento, un po’ come lo è il film Drinking Buddies per il moviemento Mumblecore: non è né il manifesto del genere né l’opera che ne segnerà la storia o l’evoluzione, ma un ottimo esempio con delle sfaccettature mirabili.

 

First Frontier è una birra beverina e rinfrescante di 7,1% - non pochi, ma li porta bene - che chiama la successiva sorsata come il film di Swanberg: pur avendo una tripartizione abbastanza netta, risulta molto legato nei suoi atti e nel suo incedere.

 

Al naso è molto delicata con note facilmente riconoscibili: agrumi di vario tipo e una tendenza verso il frutto giallo, così come l’aspetto visivo del nostro film, pulito, preciso, con qualche tocco riconoscibile e ottimo che non prende mai il centro della scena, lasciando agli attori e all'intreccio il loro meritato spazio.

 

Leggerissima astringenza in chiusura, come il finale dolceamaro del film che lascia il desiderio di averne ancora, un ultimo sorso, nonostante sia ormai terminato.

 

Se bevuta con calma guadagna qualche punto facendo uscire in maniera più forte le note del - già citato - frutto giallo, proprio come Drinking Buddies guadagna punti a una seconda visione, durante la quale, la consapevolezza di ciò che ci attende lascia abbastanza spazio per notare i piccoli colpi e dettagli - come la pesca matura - che danno quel tocco di dolcezza utile a bilanciare il tutto. 

 

 

 


Non ti stupisce mai, ma ti accompagna piacevolmente.

 

Non siamo davanti ai sentori forti e particolari della Thomas Hardy's Ale, restiamo sempre nei paletti di uno stile che sa essere abbastanza vario, ma che ha dei tratti molto ben definiti. 

 

Ottimo per accompagnare piacevolmente senza pretendere troppa attenzione dalla nostra lingua. 

 

Buona visione e... buona bevuta!

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13 commenti

Tati23

3 anni fa

L'estetica di Baumbach mi sta piacendo.  Concordo è più intima e delicata, ma devo ancora recuperare un paio di film per comprenderla totalmente ed acquisirne le varie sfaccettature.

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Fabrizio Cassandro

3 anni fa

Nulla di  cui scusarsi, siamo qui per parlare di cinema.

Io lo ammetto: preferisco "l'universo estetico" di Baumbach e di tutto il mondo indipendente a quello di Anderson. Lo trovo più coinvolgente, ma qui siamo nel mondo dei gusti e su questo c'è poco da dire. 
Va detto però che in entrambi i casi, ma come in tutto il cinema di grande di grande scrittura e grande regia, l'aspetto fondamentale è, secondo me, la capacità di tenere insieme tutte le scelte e i dettagli: che lo si faccia in modo più "esagerato" e visibile come Wes Anderson o in modo più delicato e nascosto come spesso nel cinema più indipendente. 


"Ho notato che Baumbach utilizza gli ambienti ... la protagonista." La sua capacità di sfruttare gli ambienti e - aggiungerei - il loro cambiamento/evoluzione credo sia uno degli aspetti che ha dimostrato di saper padroneggiare meglio. 
Il modo in cui gli appartamenti si evolvono sia in Frances Ha sia in Marriage Story con Greta Gerwig (grande simbolo del movimento mumblecore) e Adam Driver rispetto al loro sentire e al punto del loro viaggio interiore è incredibile. 
Sempre in modo diverso, ma è un'attenzione che ritrovo in entrambi i registi e che mostra come anche tematicamente siano molto più vicini di quello che sembra.

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Tati23

3 anni fa

Che poi è molto interessante, secondo me, vedere come il lavoro di Baumbach alla scrittura riesca a conciliarsi perfettamente con un'estetica diametralmente opposta a quella "indie" come succede in Wes Anderson: tematicamente vicinissimi, esteticamente agli antipodi.

Concordo, un'estetica talmente opposta.
Uno degli elementi che mi piace più di Wes Anderson è proprio il lato estetico delle sue produzione, la costruzione quasi maniacale dei particolari , la scelta delle simmetrie in una determinata scene, lo spiccato uso del colore e come i vari personaggi vengano inseriti nel contesto esaltandoli o mettendoli in secondo piano.

Ho notato che Baumbach utilizza gli ambienti e ne costruisce l'estetica creando continue connessioni con i personaggi e con la storia che sta raccontando. Tipo nel film  Frances Ha dove sceglie di utilizzare il bianco e nero, suddividendo il film in parti con gli indirizzi degli appartamenti, proprio per riflettere la ricerca e il percorso che sta seguendo la protagonista. 

Scusa, mi sono lasciata trasportare dall'argomento 😅

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Fabrizio Cassandro

3 anni fa

Anche l'idea molto Blue Valentine dei differenti formati per i diversi momenti temporali era molto interessante oltre appunto al discorso molto "mumblecoriano" del vagare senza destinazione attraverso i discorsi (non è un caso che ci fosse coinvolto Jay Duplass).

Che poi è molto interessante, secondo me, vedere come il lavoro di Baumbach alla scrittura riesca a conciliarsi perfettamente con un'estetica diametralmente opposta a quella "indie" come succede in Wes Anderson: tematicamente vicinissimi, esteticamente agli antipodi.

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Tati23

3 anni fa

"P.s. nell'articolo non lo approfondisco, visto che presto sarà oggetto di uno dei prossimi capitoli della rubrica, ma Baumbach è un po' un unicum, pur nascendo vicino a questo calderone, la sua evoluzione lo ha portato a configurarsi come autore a se stante, un po' come Godard nella Nouvelle Vague."

Interessante lo leggerò sicuramente, Baumbach l'ho vissuto più come sceneggiatore che come regista, ora che lo sto recuperando anche come regista ho più chiaro il suo percorso per quanto riguarda le tematiche che gli interessa trattare.

Pink Wall lo avevo intravisto al TFF, però lo avevo recuperato in seguito, la cosa che mi aveva colpito molto erano stati i dialoghi e la scelta di alcuni dettagli.

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Fabrizio Cassandro

3 anni fa

Di nulla, 
anche a me piace tantissimo il cinema indipendente - in caso non si fosse capito - va anche detto che non tutto l'indie americano, "cinema hipster" è una perfetta definizione, è Mumblecore.
Ci sono molte sfumature che vanno dai registi che hanno gli stessi riferimenti di Swanberg & co. (come Reitman) a quelli che ormai si rifanno alla prima ondata di Mumblecore come riferimento (come mi è capitato di vedere al TFF con Pink Wall https://www.cinefacts.it/cinefacts-articolo-538/torino-37-concorso-principale-minirecensioni-parte-i-tff37.html ) con poi tantissime sfumature nel mezzo.

Però sì in Italia è completamente venuto a mancare tutto il blocco da Linklater ai suoi "seguaci" e credo che si sia sentito monlto nella nostra storia cinematografica.

P.s. nell'articolo non lo approfondisco, visto che presto sarà oggetto di uno dei prossimi capitoli della rubrica, ma Baumbach è un po' un unicum, pur nascendo vicino a questo calderone, la sua evoluzione lo ha portato a configurarsi come autore a se stante, un po' come Godard nella Nouvelle Vague.

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Fabrizio Cassandro

5 anni fa

Merci!
I veri amanti della birra non sono molti ed è sempre un piacere incontrarne!
Tutto il movimento è una grande fotografia di come una società cambiata rapidissimamente ha trasformato chi ne conosceva una precedente e chi si è trovato in un mondo in cui nessuno sapeva indicargli la via e tutte le conseguenze del caso nelle relazioni, nel lavoro, nel modo di approcciarsi agli impegni ed alle responsabilità.

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Assolutamente, hai un nuovo lettore!

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Fabrizio Cassandro

5 anni fa

Ottimo, con le IPA conquistiamo il pubblico e dai prossimi numeri possiamo osare con le "robe strane"

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Gianluca Florio

5 anni fa

Grazie a te assolutamente! Alcuni dei titoli che hai citato devo ancora vederli, quindi grazie per avermeli fatti scoprire e cercherò di approfondire ancor più questo argomento perché credo sia molto importante...
Spero tu faccia molti altri articoli, anche in altri ambiti, perché oltre che molto ben scritti fanno anche riflettere, e magari così intavoleremo altri discorsi del genere ahaha ci si vede in giro per #cinefacts e buona fortuna per tutto!😊

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