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Per qualche dollaro in più - Un commento emozionale

Il secondo capitolo della Trilogia del Dollaro di Sergio Leone raccontato seguendo un flusso di coscienza e un punto di vista personale. Aneddoti, racconti e sensazioni su Per qualche dollaro in più.

“In un luogo dove la vita non aveva prezzo, la morte, qualche volta, lo aveva. Per questo comparvero i cacciatori di taglie.”

 

Quando hai appena finito di stropicciarti gli occhi e darti pizzicotti di fronte al successo incredibile e inaspettato di un esordio che non prometteva nulla, arriva il momento più difficile.

 

Perché, in tutte le forme d’arte in tutte le epoche, ci si trova sempre davanti a questo dilemma: tentare una strada nuova, sperimentare, rivolgersi verso la fetta di pubblico che ancora non è stata conquistata, oppure impegnarsi a rendere fedele chi ti ha apprezzato, percorrendo il sentiero sicuro e ripetendo ciò che è stato già fatto in un’altra veste.

In una domanda: un seguito a Per un pugno di dollari o qualcosa di nuovo?

 

 

 

 

Sergio Leone, ovviamente, ci ha pensato molto bene. La sua idea iniziale, una volta avuta la consapevolezza che i finanziamenti questa volta ci sarebbero stati, era di spostarsi completamente verso nuovi generi. Il thriller e l’autobiografico furono presi in seria considerazione, anche considerando il fatto che replicare il successo del lavoro precedente sarebbe stato davvero difficile.

 

Nonostante questo, la pressione della Jolly Film, a cui doveva ancora un altro film, fu tale che le due idee vennero abbandonate subito.

L’atteggiamento da parte dei due produttori Papi e Colombo mise a dura prova la pazienza del regista, che decise di rescindere ogni legame con loro. Si rivolse così ad Alberto Grimaldi, che riuscì a ottenere un finanziamento di tutto rispetto da parte della United Artists.

 

Il successo in America del primo film fu tale che, una volta che lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni andò a parlare con i produttori americani per raccontare il soggetto del seguito, venne subito fatta la proposta per un terzo film, una cosa molto insolita. Fu lì che Vincenzoni, secondo la sua testimonianza, inventò di sana pianta il titolo Il buono, il brutto, il cattivo, mettendo insieme le prime tre parole che gli vennero in mente nel suo debole inglese.

 

Nel frattempo, il soggetto era stato già deciso: due cacciatori di taglie, uno più giovane e uno più anziano, che si contendono un terribile bandito messicano. Due ruoli su tre erano già coperti: Clint Eastwood aveva rifiutato qualsiasi proposta oltreoceano pur di girare ancora un film con Leone. Per il bandito, invece, Gian Maria Volonté era una garanzia, dopo la prova superlativa di Ramon Rojo. Così occorreva stabilire chi avrebbe recitato la parte del secondo cacciatore di taglie.

 

Leone tentò, come per Per un pugno di dollari, la trafila delle solite star americane: Henry Fonda, Charles Bronson, Lee Marvin.

Nessuno accettò la parte.

Non era bastato un capolavoro per rendere un regista italiano attrattivo per l’élite hollywoodiana. Sergio Leone partì dunque per Los Angeles con una vecchia foto della rivista Academy Players. L’attore della fotografia in questione era Lee Van Cleef.

 

Noto ai più per il piccolo ruolo nel cult Mezzogiorno di Fuoco, Van Cleef era un personaggio ormai dimenticato da molti anni: alcolizzato e in totale miseria, aveva abbandonato la carriera di attore per un periodo considerevole. Per sopravvivere praticava la professione di pittore, da vero bohémien ottocentesco.

Si dice che Leone, dopo moltissima fatica, riuscì a contattarlo quando stava ultimando un quadro e acconsentì a partire per l’Italia solo un volta terminato. Insomma, ancora una volta, Sergio Leone ebbe modo di rilancare in modo decisivo la carriera di un attore.

 

 

 

 

 

Lee Van Cleef, con il suo sguardo tagliente, il naso affilato, i baffetti impeccabili e l’eleganza di un nobile decaduto, è diventato un’icona.

Rileggendo la sceneggiatura di The Hateful Eight, quando compare il personaggio del Maggiore Warren (interpretato da Samuel L. Jackson), nella sua descrizione si legge “a Lee Van Cleef type”. Giusto per farvi rendere conto di quanto la sua figura è stata influente nell’immaginario collettivo del prototipo western a partire da questo film.

 

La sua freddezza e l'impeccabilità nei movimenti sono incredibili.

Insieme a una grande dose di ironia, sono gli ingredienti perfetti per un personaggio indimenticabile. Meravigliosa una delle scene iniziali, quando uccide il bandito Guy con un colpo dritto in fronte. Lì si vede tutta la potenza e la classe che riesce a sprigionare il Colonnello Douglas Mortimer: un bounty killer senza scrupoli, con in testa solo il denaro.

 

 

O almeno così sembra.

 

Dall’altra parte, il suo alter ego giovanile: il Monco. Chiamato così perché usa solo la mano sinistra, tenendo sempre libera la destra per sparare.

Pochissime parole, molti fatti.

È lo stesso personaggio del primo film? Sì e no.

 

L’aspetto, il carattere, l’abilità di pistolero, i (dis)valori e persino il poncho sono gli stessi. Ma ha qualcosa di diverso.

Come se avesse conosciuto una crescita, un’evoluzione interiore. In qualche modo, sembra ancora più furbo, assetato di denaro, terribilmente veloce e pericoloso: un vero cacciatore di anime.

Il suo rapporto con il Colonnello è controverso. Inizia, ovviamente, in conflitto: due contendenti per la stessa testa. Finirà con una sorta di legame, iniziato per l’interesse di catturare insieme l’Indio, ma sempre sul punto del tradimento. Nessuno si fida ciecamente dell’altro, e i tentativi di rompere la società ci sono.

Alla fine, però, nasce qualcosa di più.

 

Ed ecco l’evoluzione rispetto a Per un pugno di dollari, film che non aveva questo passo ulteriore. Non è amicizia, ma ci si avvicina. Quasi come un rapporto padre-figlio. “Vecchio” e “ragazzo” sono i modi con cui si chiamano reciprocamente i due. E, alla fine, è proprio questo rapporto a permettergli di salvarsi.

 

Gian Maria Volonté è l’Indio. Se Ramon Rojo è stato un personaggio incredibile, l’Indio supera qualsiasi aspettativa.

Mi sento di dirlo, è il più grande “cattivo” dei film di Sergio Leone. Ancora più di Sentenza, ancora più di Frank.

L’Indio nasconde un’immensa fragilità interiore dietro la sua crudeltà, un passato pieno di debolezze dietro alla scorza dura del presente, una serie di vizi e di incertezze dietro l’apparente sicurezza dell’omicida. È essenzialmente un uomo solo che arriva a tradire i suoi fidatissimi seguaci pur di non dividere il bottino della banca di El Paso. È lui il vero destinatario del significato del titolo Per qualche dollaro in più.

 

Il reale sguardo dell’Indio è quello degli occhi semichiusi e annebbiati dalla marijuana. Non lo sguardo glaciale di Sentenza o gli occhi azzurrissimi di Frank. Ed è proprio il suo passato a condannarlo.

 

 

 

 

 

E così, Leone ce l’ha fatta. È riuscito a darci un seguito di Per un pugno di dollari, ma migliorandosi, non scadendo nel banale o nella ripetizione di cliché da lui creati. Un’impresa incredibile, se pensiamo a tutti i sequel di grandi successi che sono stati realizzati nella storia del cinema.

 

Per qualche dollaro in più è un film che scorre benissimo, ha dei momenti di eccezionale tensione e altri molto più distesi e divertenti (da sottolineare la gag del fiammifero acceso sulla gobba di uno degli uomini dell’Indio, interpretato dal mitico Klaus Kinski), oltre a essere ricco di inquadrature spettacolari e scene girate magistralmente.

In più, occorre sempre dirlo, la colonna sonora di Ennio Morricone si conferma grande protagonista del film: geniale l’inizio del tema con il marranzano - il celebre strumento popolare siciliano - che, nonostante la scarsa vicinanza al "vecchio west", riesce a trasmettere un sapore di puro western.

La soundtrack continua splendidamente nel suo cammino di accompagnamento per poi esplodere nel finale, raggiungendo livelli a dir poco epici.

  

Già, il finale: non so se riuscirò a rendere, a parole, la bellezza delle ultime scene. Ci proverò, come al solito, come attraverso un flusso di coscienza.

L’Indio e il Colonnello, uno di fronte all’altro. Come di consueto, l’Indio tira fuori il suo orologio con carillon, e lo fa partire.

 

“Quando la musica finisce, raccogli la pistola e cerca di sparare. Cerca.”

 

Parte il solito motivetto, che penso continui a risuonare nella testa di tutti gli spettatori per giorni e giorni. La tensione sale. Gli sguardi dei due sono le armi, ancora prima delle pistole. La musica rallenta, si attenua sempre di più.

Ma ecco che riparte, ancora più forte. È arrivato il Monco, con l’orologio del Colonnello, identico a quello dell’Indio.

 

“Sei stato poco attento, vecchio.”

 

Si siede tra i due, l’orologio in una mano, la pistola nell’altra.

 

“Indio, tu il gioco lo conosci.”

 

Continua la musica, mentre Ennio Morricone ci incastra sopra tutta l’epicità che è riuscito a mettere su pentagramma. Ancora una volta, si affievolisce. Si ferma.

 

Spari.

 

 

 

 

Un finale costruito spettacolarmente, da vero maestro burattinaio. E, quando si comprende il vero motivo per cui Mortimer cercava l’Indio, la meraviglia e l’incredulità cresce ancora. L’Indio aveva ucciso l’amante della sorella del Colonnello, per poi violentare la ragazza.

Lei, per disperazione, si era suicidata durante l’atto con la stessa pistola del bandito.

 

Attraverso una meravigliosa scena in flashback, un narrazione basata esclusivamente su concetto di interesse economico dei due bounty killer si trasforma in una storia di vendetta personale. Un gioco costruito, ancora una volta, alla perfezione. Lo spettatore viene messo a conoscenza di questa vicenda soltanto alla fine, quando si era già fatto un’idea apparentemente chiara di tutti i personaggi. Una svolta narrativa gestita alla perfezione.

 

La scelta consapevole di Leone fu proprio quella di inserire tanti possibili finali, di lasciare lo spettatore con il cuore in mano fino all’ultimissimo fotogramma, inserendo perfino un colpo di scena dopo l’uccisione dell’Indio quando, solo alla fine, il Monco si accorge che “non gli tornavano i conti”, uccidendo di conseguenza anche l’ultimo bandito superstite.

 

Questa serie di scelte narrative si basano su un’idea che Leone svilupperà sempre di più nel corso della sua carriera artistica, fino al suo culmine, in C’era una volta in America. Sto parlando dell’importanza del tempo nella narrazione filmica.

Ancora non siamo alla maturità e alla consapevolezza che raggiungerà nella seconda Trilogia, chiamata appunto “del Tempo”, ma i primi segnali e le prime sperimentazioni si vedono.

 

Innanzitutto, l’uso del flashback, che corrisponde a un ricordo soggettivo di un protagonista. Nei western e, in generale, nei classici americani, le scene di analessi erano molto limitate e comunque corrispondenti a una narrazione esterna e oggettiva, in cui veniva mostrato un evento nel passato sempre dal punto di vista dello spettatore.

I flashback di Leone, specialmente quelli della Trilogia del Tempo, partono invece dal personaggio stesso.

È lui che ricorda, che rievoca il suo passato. E, nel caso dell’Indio, tutto ciò avviene utilizzando tecniche visive e sonore molto efficaci.

La musica dell’orologio si spezza, frantumandosi in mille suoni sconnessi e ingarbugliati, come a sottolineare il dolore e la lontananza del ricordo. Il montaggio si fa più frammentato, con inquadrature brevi e i filtri si tingono di colori caldi (rosa, arancio e giallo). Leone riesce a "farti vedere i ricordi".

E, come mi piace sempre pensare, la bellezza del cinema è data anche da questi momenti, quando un regista riesce nell'impresa di trasmettere visivamente concetti - apparentemente - impossibili da riuscire a descrivere a parole.

 

Si conclude così il secondo capitolo di una storia iniziata come una sorpresa e che sempre di più stava diventando una meravigliosa certezza. Un tassello dopo l’altro, Leone stava costruendo qualcosa di unico nel cinema italiano, basandosi sulla sua abilità straordinaria di raccontare le storie di un’epoca mitica, aiutato da una serie di personalità importantissime e di attori ancora oggi indimenticati.

 

Attaverso la creazione di maschere (marcate tanto quanto quelle della tradizione italiana) e uno stile di scrittura potente ed efficace, il lavoro di Sergio Leone si stava consolidando sempre di più.

E quando ascoltiamo la voce profonda di Clint Eastwood scandire lentamente la sua provocazione verso l’Indio, il brivido che sentiamo correrci lungo la schiena si unisce alla consapevolezza di trovarci di fronte a qualcosa di grande, troppo grande per non essere visto e rivisto ogni volta che ce ne sia l’occasione.

Ogni volta come se fosse la prima.

 

 

 

“Ragazzo, sei diventato ricco.”

 

“Siamo diventati ricchi.”

 

“No. Tu solo, e te lo sei meritato.”

 

“E la nostra società?”

 

“Un’altra volta.” 

 

 

 

 

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2 commenti

Wolvering

5 anni fa

Idem per me, anche io non adoro questo genere particolarmente, ma questa trilogia non so, ha davvero qualcosa in più!

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Teo Youssoufian

5 anni fa

hai letto la rubrica "La Tecnica del Cinema"? 😁

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