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Per un pugno di dollari - Un commento emozionale

Il primo capitolo della Trilogia del Dollaro di Sergio Leone raccontato seguendo un flusso di coscienza e un punto di vista personale.

"Un paese che commercia in armi ed alcool deve essere molto ricco."
"Non il paese. Ma chi comanda e vende quella roba. I padroni sono ricchi."
"Devo ancora trovare un posto in cui non ci sia un padrone."
"Già, ma quando i padroni sono due, allora vuol dire che ce ne è uno di troppo."
"Due padroni? Interessante..."

 

Quando Sergio Leone vide per la prima volta Yojimbo di Akira Kurosawa, rimase incredibilmente affascinato dalle intricate vicende e dall’ironia beffarda dei samurai giapponesi e decise di realizzarne una trasposizione in chiave western. Non si sarebbe mai immaginato di creare uno dei film più importanti della storia del cinema. 

Ma non era il solo: nelle idee dei produttori italiani della Jolly Film, il secondo lavoro dell'allora sconosciuto regista romano sarebbe dovuto essere solamente una copertura a Le pistole non discutono, un sicuro successo commerciale. 


Per coprire i costi del lavoro di Caiano, Leone avrebbe dovuto sfruttare le stesse location, gli stessi costumi e perfino gli stessi attori del film principale. 
Il budget era bassissimo: dalle parole di tutti coloro che lavoravano al film, l'impressione era sempre quella di essere costretti a tirare la cinghia il più possibile, rimanendo sempre in bilico dal dover chiudere tutto e non riuscire a continuare le riprese. 

Tutte le storie riguardo la co-produzione spagnola e tedesca, i mancati pagamenti, i cambiamenti all'ultimo secondo di attori e membri della troupe, le giornate intere passate a non poter girare per via di proteste e tagli della produzione sono ormai entrate nella leggenda. Per non parlare di tutte le contestazioni legali da parte di Kurosawa, tutto per una serie di incomprensioni nel pagamento dei diritti. Insomma, noi italiani sappiamo sempre come complicarci le cose.

Ma proprio quando tutto sembra iniziare a prendere una piega disastrosa, ecco il miracolo.

 

Per un pugno di dollari, in pochissimo tempo, entra nella storia. Diventa un esempio per tutte le generazioni successive di una nuova idea di un genere apparentemente in declino. Non è il primo "spaghetti western" a essere realizzato, ma è il primo a essere entrato nel cuore degli italiani prima, degli europei poi e finalmente anche degli americani. In quel momento, qualcosa è finito e qualcosa è iniziato. 

Ma come è potuto avvenire tutto questo?

Potrei provare ad elencare una serie di fattori che hanno senz'altro determinato un successo del genere. Prima di tutto, ci tengo a dirlo subito, la scelta degli attori. E qui entra in gioco Clint Eastwood
E lo fa come sempre: in sordina, senza clamore.

 

Sergio Leone aveva fatto richiesta di nomi altisonanti, a partire da star come Henry Fonda, James Coburn e Charles Bronson. Tutti rifiutarono seccamente, quasi con scherno, di fronte a un regista italiano, semisconosciuto anche in patria, che mai aveva girato un western e poteva offrire un compenso irrisorio. Ironia della sorte, tutti e tre rilanciarono in seguito le loro carriere grazie ai film di Leone, legando le loro figure a dei personaggi mitici e indimenticabili. 


I produttori furono così costretti a raccomandare un giovane attore americano che stava girando una serie televisiva, Rawhide.

Leone acconsentì solamente perché, fino ad allora, era l'unico attore americano disponibile a quella cifra, ma rimase subito affascinato dalla lentezza e la "pigrizia" che il giovane Clint trasmetteva sul piccolo schermo. Pochissime parole, un'aria quasi stanca, sguardi intensi e, con la pistola in mano, rapido e velocissimo come un serpente. 

 

Clint Eastwood, dal canto suo, era in ristrettezze economiche. Rimase colpito dalla scelta del soggetto, ispirato alle storie epiche dei samurai giapponesi, e decise di correre il rischio di recitare in un film di poche prospettive. Probabilmente in America non l'avrebbe mai visto nessuno.
L'incontro tra Leone e Eastwood è ancora nella leggenda. Nessuno dei due parlava la lingua dell'altro, e la comunicazione avveniva mediante interpreti e a gesti. 
Leone decise di trasformare il giovane attore da un bravo ragazzo con la faccia pulita a un vero personaggio western. Barba incolta, poncho, vestiti sobri, ampio cappello e, gran tocco di classe, sigaro toscano.

Per le parole dello stesso regista, il vero protagonista del film.

 

 
 

 

L'interpretazione di Eastwood è meravigliosa. Poche parole, ma pesantissime. Sguardi taglienti, che potevano fulminare chiunque. Movimenti lentissimi, dilatati, eleganti. Non siamo più di fronte all'eroe americano, il Gringo, anima pura in mezzo a un branco di cattivoni.

Clint Eastwood è sporco e bastardo. Scaltro e micidiale. Un Ulisse del Nuovo Messico che mette al servizio la sua astuzia per sopravvivere e guadagnare i suoi amati dollari. Un maledetto doppiogiochista che arriva ad alimentare una guerra di famiglie pur di tornare a casa con le tasche gonfie. 

 

“I Baxter da una parte, i Rojo dall’altra. E io in mezzo.”

 

Questa assenza di morale ha colpito non poco i critici americani. Ma la risposta al botteghino ci mostra che il pubblico avesse compreso che era giunto il momento di finirla con le finzioni. I vestiti stirati, le facce lucide, i capelli impomatati, i buoni contro i cattivi avevano fatto il loro corso. Il mondo non è fatto di eroi e nemici, ma di grandi infami. Leone l’ha sbattuto in faccia a tutti con un coraggio e una violenza impensabile. Ed ha avuto ragione.

 

Parliamo dei nemici. Le due famiglie, i Baxter e i Rojo. Alla fine del film, l’impressione è quasi quella per cui i Rojo sono i veri cattivi, mentre i Baxter, tutto sommato, erano mossi da qualcosa che poteva avvicinarsi a dei valori.
In realtà non è così. Semplicemente, i Rojo hanno vinto. 

C’è solo interesse personale, nichilismo e violenza. C’è, soprattutto, accordo con il potere. Lo sceriffo è un Baxter. Leone, italiano e romano, conosceva bene queste dinamiche. Le mostra senza filtri, senza paura di scomodi riferimenti all’attualità. Una volta erano le armi e l’alcool, oggi la droga e la prostituzione. Nessuno è vincitore, nessuno è vinto. 

 

A capo dei Baxter c’è Ramon Rojo, interpretato da Gian Maria Volonté. Attore di formazione ed esperienza teatrale, si dice che abbia accettato la parte solo perché doveva pagare dei debiti. Anche lui con un filo di vergogna. 

Il risultato è grandioso: proprio la sua caratteristica di attore da palcoscenico gli permette di giocare tantissimo sulle espressioni facciali e sui giochi di sguardi. Anche se il suo ruolo in Per qualche dollaro in più sarà forse ancora più mitico, Volonté ha riscritto la sua carriera grazie a Ramon. Uno spietato stratega, capace di stragi a sangue freddo e tradimenti alle spalle, un cecchino infallibile e un amante oscuro.

 

“Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto.”

 

Spostando lo sguardo verso il resto degli attori, due cose avranno colpito i primi osservatori di Per un pugno di dollari: il realismo assoluto dei personaggi e, ancora più sconvolgente, l’assenza di donne. 

I volti dei banditi delle due famiglie sono sporchi, ricoperti di terra e di ferite. I vestiti scombinati, strappati. I capelli arruffati. Le barbe sfatte. Gli sguardi sono sempre carichi di significati, come se ognuno di loro potesse raccontare storie incredibili.

 

Lo ripeto ancora, Hollywood non era abituata a tutto questo. Qui Leone risente moltissimo della sua esperienza nel cinema neorealista: le cose devono essere mostrate per come erano, senza filtri. La sua attenzione maniacale a ogni dettaglio unita a questa sua esigenza artistica, lo porta a realizzare un’opera assolutamente fedele al contesto storico e sociale del Nuovo Messico della seconda metà dell’800, pur con un budget misero e gli esterni girati in Spagna. 

 

Poi, volendo proprio essere provocatori, manca qualcosa che gli americani proprio non avrebbero mai potuto concepire: l’assenza di un personaggio femminile rilevante. Diciamolo, nei Western hollywoodiani le donne vengono quasi inserite a forza nella storia, in ruoli non necessariamente spontanei e realistici, cliché che spesso hanno solo il risultato di infastidire non poco lo spettatore.


Leone questo lo sapeva: le donne nei Western non hanno rilevanza. Non è una frase discriminatoria, anzi. Inserire un personaggio stereotipato e completamente insignificante è solo un modo per ridurre la figura femminile a semplice preda dell’eroicità del virile protagonista. 
Così, in Per un pugno di Dollari, i due personaggi femminili (Marisol e Consuelo Baxter) si allineano nello sfondo degli altri personaggi, rimanendo sul loro stesso livello. Non ci sono scene di amore.

Marisol è funzionale alla trama, nulla più.

 

 

 

Eccoci a un punto fondamentale per tutto il cinema di Sergio Leone: le inquadrature. Utilizzando un formato atipico per quel genere, il 2,35:1, il celeberrimo “italian shot” nacque proprio per riuscire a risolvere un problema tecnico: facendo un primo piano classico in quel formato, rimaneva tantissimo spazio inutilizzato ai lati del volto dell’attore. Così si decise di zoomare ancora di più e arrivare a coprire quasi tutto lo schermo con il volto in dettaglio, partendo dalla fronte fino al mento.

 

Una scelta azzardatissima, ma geniale. In questo modo, nei duelli, la tensione continua a crescere fino a questo momento culminante, dove lo sguardo dell’attore viene analizzato al radar, lasciando trapelare tutte le sue emozioni. Un marchio di fabbrica apprezzatissimo e imitato da moltissimi grandi registi delle generazioni successive. 

 

Parlando di questo film, non possiamo certo ignorare il contributo immenso che le musiche di Ennio Morricone diedero per determinare il tono epico e mitico di moltissime scene. Musiche che lo stesso compositore ha rinnegato, dichiarandole un prodotto commerciale e non frutto di una sua reale ricerca artistica. 
Eppure, i tempi dilatati, lacerati, brodosi (non riesco a trovare termini più efficaci) vengono scanditi perfettamente da queste composizioni agili, a tratti molto semplici, ma estremamente originali. Il tema fischiato trasmette disincanto verso la realtà e un’inquietudine che si riconnette alla perfezione con il personaggio dello Straniero senza nome. Per non parlare della scena del duello finale, con quella Pastures of plenty che riecheggia nelle orecchie degli spettatori per molto tempo dopo la fine del film.

Da lacrime.

 

Le scene di violenza, dunque le sparatorie e le lotte, furono criticate tantissimo all’epoca. Troppo crude, troppo realistiche, troppo sangue. Per non parlare della violazione del Codice Hays, secondo cui colui che spara non può essere mostrato nello stesso fotogramma di colui che viene sparato. Leone, semplicemente, non lo sapeva. Così fa quello che ritiene più giusto e più naturale, oltre che più efficace esteticamente ed emotivamente. Mette tutto insieme, inquadrando i due soggetti o di fianco o dietro uno dei due, sfruttando la profondità di campo e inclinando la macchina da presa verso l’alto. Rivoluziona senza saperlo un’intera tradizione sul modo di realizzare le scene d’azione.


E se oggi il pestaggio di Clint Eastwood ad opera del brutale Chico (interpretato dal mitico Mario Brega) oggi ci lascia indifferenti, abituati come siamo ai galloni di sangue di tarantiniana matrice, all’epoca ha sconvolto più di uno spettatore. Ma ne ha affascinati molti di più.

 

 

 

Dopo questo flusso di aneddoti, nozioni, interpretazioni, buttati senza molto senso e solo seguendo un percorso mio interiore, mi sembra di non aver detto praticamente nulla del film. Nulla della trama, che sicuramente conoscete tutti.

Ho toccato molti aspetti in superficie, cercando di trasmettere, per quanto possibile, la meraviglia di chi, nel 1963, si è trovato di fronte alla locandina di un certo Bob Robertson, come si era fatto chiamare il buon Leone per non traumatizzare gli americani che avrebbero visto il suo nome italianissimo accostato a un western.

 

Come vi ho fatto capire, l’effetto è stato incredibile. E, se vogliamo proprio dirlo, non è tanto diverso da quello che ho provato io, l’altro giorno, quando l’ho rivisto per l’ennesima volta. Tutti quei dettagli, dagli speroni al sigaro spento, dalle casse da morto dell’indimenticabile Piripero all’armatura forata di Ramon, quei volti scorticati dal sole e dalle cicatrici, quell’atmosfera lugubre ed epica che avvolge un paese in rovina, dove puoi essere o un bandito o un morto.

Le musiche e i silenzi. Le battute epiche e gli sguardi.

Il sangue e le lacrime. 

 

 

 

Come diceva Calvino, è la forza dei classici. Li leggi e li rileggi, e ogni volta è come la prima. Forse ancora meglio, perché ti dicono sempre qualcosa in più. Voglio scomodarmi così: Leone è per il cinema come lo è stato Omero per la letteratura. E i suoi antieroi erano come gli eroi achei, in tutte le loro contraddizioni. 
Leone ha raccontato di noi uomini, collocandoci in un contesto mitico, lontano e misterioso.

Ma gli uomini sono rimasti sempre uomini. 

 

“Al cuore Ramon, al cuore, altrimenti non riuscirai a fermarmi. 
Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto. Avevi detto così. Vediamo se è vero. Raccogli il fucile, carica e spara.”

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55 commenti

Drugo

5 anni fa

Te lo consiglio vivamente, è proprio uno spettacolo.

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Drugo

5 anni fa

Frusciante è un mito😂

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Drugo

5 anni fa

Intendi Peter Jackson?

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Drugo

5 anni fa

Non vedo l'ora che escano anche gli altri articoli, questo è proprio bello.

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Tony S.

5 anni fa

Dovrebbe essere una prova d'ingresso alla vita

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Filippo Recaneschi

5 anni fa

Grazie mille, mi piacerebbe leggere un tuo articolo a riguardo 😁

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Non vedo l'ora 😍

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Simone Colistra

5 anni fa

Ci sarà presto!

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La penso proprio come te. Forse è boh, diciamo "inesperienza" di Leone o il fatto che negli altri due film la trama sia molto più bella.

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Basti pensare che quando, in qualche film, c'è un western in tv, è sempre questo.

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