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Dogtooth, Lanthimos e la famiglia che aliena e distrugge

Dogtooth, terzo lungometraggio di Yorgos Lanthimos, sbarca nelle sale italiane a partire dal 27 agosto 

Giorno. Un bianchissimo bagno piastrellato e tre ragazzi che ascoltano – con un’aria fra l’assente e il turbato – la strana lezione impartita da un mangianastri. 

 

"Le parole nuove che impareremo oggi sono: Mare, autostrada, escursione, carabina.

 

Il "mare" è una poltrona di pelle.

Esempio: - Siediti sul mare e chiacchiera un po' con me.

 

"Autostrada" è un vento molto forte.

 

"Escursione" è un materiale molto duro usato per fare pavimenti.

Esempio: - Il candeliere è caduto e si è schiantato sul pavimento, ma il pavimento non si è danneggiato perché è fatto al 100% di escursione.

 

"Carabina": una carabina è un bellissimo uccello bianco."

 

C'è una casa con ampio giardino e una recinzione invalicabile.


La abitano un padre amorevole con tre pargoli da educare e proteggere dalle folli aberrazioni del mondo esterno, una moglie complice-carceriera da tenere in riga e una mitologia familiare da creare.

 

[Il trailer di Dogtooth, distribuito in Italia da Lucky Red]

 

 

Ci sono regole, leggi fisiche e naturali da sovvertire, balzane reinterpretazioni linguistiche dove la parola per definire una saliera diventa “telefono” e stranianti passatempi familiari.


Ogni cosa, in Dogtooth (2009), sembra essere perfettamente e sistematicamente posizionata fuori posto, in una logica oscena, per ampi tratti perversa, capace di destabilizzare lo spettatore senza dargli tregua.

 

Ci sono le inquadrature statiche - pochissime quelle con camera a mano - incorniciate in una fotografia inconsuetamente luminosa e al contempo claustrofobica.

C’è un dove ipotetico, la Grecia, suggerito unicamente dalla lingua (ovviamente se lo guardiamo in VO), ma non un quando.


Elementi che - assieme a protagonisti non indicati da nomi propri, ma solo come “madre”, “padre”, “fratello” e “sorella” - conferiscono una forte connotazione allegorica alla narrazione, lasciandoci liberi di collocare le vicende nei luoghi e nei tempi che preferiamo: ieri, in un futuro prossimo, nella casa attigua alla nostra o dall’altra parte del pianeta. 

È indifferente.

 

Perché “Il mondo di Dogtooth esiste ogni volta che immagini che stia esistendo”.

 

 

[Yorgos Lanthimos, Pangrati (Atene), 1973. Sceneggiatore, produttore, regista cinematografico e teatrale]

 

 

Il terzo lungometraggio di Yorgos Lanthimos - prima collaborazione del regista in fase di script con Efthymis Filippou e vincitore della sezione Un Certain Regard alla 62ª edizione del Festival del Cinema di Cannes - non nasce come film sulla disfunzione familiare in quanto tale.


La ricerca originaria del regista classe ’73 era orientata verso l’esplorazione del concetto di ‘famiglia’ e delle responsabilità di essere ‘genitori’.


La domanda di Lanthimos, osservando le dinamiche interne alle famiglie greche, spesso stringenti, conservatrici e fortemente sessiste, era piuttosto semplice: “cambierà mai?”

 

La scintilla vera e propria, quella che spinse il cineasta ateniese a raccontare il suo Dogtooth con la carica grottesca, violenta, abrasiva - ma anche sottilmente umoristica - propria del film, la racconta lo stesso Y.L. in un'intervista del 2010.

 

"[…] un giorno ho avuto una conversazione con alcuni amici e mi stavo burlando del fatto che due di loro si sposassero e avessero figli, perché oggi molte persone divorziano e i figli vengono allevati da genitori single.

Quindi ho detto loro che non ha senso sposarsi.

Ma, anche se ovviamente stavo solo scherzando, all'improvviso hanno assunto una posizione estremamente difensiva rispetto a quanto avessi appena detto."

 

 

 

 

"Questo mi ha fatto capire come qualcuno che conoscevo - e che non mi sarei mai aspettato reagisse in quel modo - potesse andare fuori di testa quando si scherza con la sua famiglia.

 

È stato così che ho avuto l'idea iniziale di quest'uomo che avrebbe raggiunto “l’estremo” per proteggere la sua famiglia, che avrebbe cercato di tenerla unita per sempre, mantenendo i suoi figli lontani da qualsiasi influenza dal mondo esterno, essendo fermamente convinto che questo sia il modo migliore per allevarli."*

 

È da questa premessa che si origina l’amore tossico del padre di famiglia di Dogtooth, un uomo che tiene in scacco moglie e figli, influenzando non solo le loro azioni e abitudini quotidiane, ma inquinandone il pensiero con comandamenti e costrutti sociali allucinanti.

 

Modellando caratteri a mo’ di creta, addestrando familiari come cani.

 

 

 

 

Un padre che assurge a Dio, detentore ed espressione di un potere assoluto (costituito dalla somma di linguaggio e fenomenologia) a cui non ci si può ribellare se non con la violenza; pater familias dotato di moglie-aguzzina-vittima, strumento coercitivo da adoperare sul proprio sangue, la sua prole, relegata in un mondo di illusioni, incubi, feroci gatti assassini e modellini di aeroplani precipitati in giardino.

 

Un contesto che, come logico che sia, genera nei figli distorsioni e mutilazioni mentali, oltre a una frustrazione a cui si può dare sfogo solo con una danza frenetica, l’autolesionismo, la violenza e - non troppo sorprendentemente - il Cinema.

 

Per una delle vittime del padre-carceriere è proprio attraverso i film di Rocky e Lo Squalo che è possibile trovare un universo immaginifico altro, diverso dalla monotonia quotidiana fatta di strani giochi e lezioni di matematica, in cui è possibile rifugiarsi, non pensare e, magari, sognare.

 

 

 

 

L’umorismo di Lanthimos si esprime in maniera grottesca in Dogtooth, una parabola provocatoria sporca di sangue, colma di sesso malato, morboso e meccanico, ricca di sensazioni conturbanti; il cui messaggio è fondamentalmente una ruvida denuncia alle convenzioni socio-culturali della Grecia contemporanea e, forse, del mondo intero.

 

La stessa denuncia che nel suo film di debutto in lingua inglese, The Lobster (2015), venne armata contro una società (distopica?) che ci vuole appaiati ad ogni costo, ostili alla solitudine e costretti all'amore, indirizzati verso una vita di coppia forzata, ai figli e, probabilmente, all’infelicità.

 

Il Cinema ellenico moderno ci ha consegnato una lunga serie di pellicole che denotano un disagio socio-culturale dilangante che sembrerebbe avere radici ben più profonde rispetto alla crisi economica del 2007.

 

Si tratta di film scomodi, visivamente e concettualmente,  disturbanti fino ai livelli mefitici di Luton (Michalis Konstantatos, 2013) o micidiali quanto Miss Violence (Alexandros Avranas, 2013).

 

 

[Dogtooth e Luton. Due alienazioni diverse, ma figlie dello stesso disagio]

 

 

In questo Cinema inospitale e crudo troviamo anche l’origine del lavoro di Lanthimos che, già dalla sua prima regia e sceneggiatura cinematografica, quella di Kinetta (2005), si palesò con l’aspetto di una macchina spezza-dogmi, un apparato - carico di simbolismi e allegorie - capace di smascherare sentimenti simulati e relazioni fasulle (Alps, 2011), seppellire l’uomo (e, pensate un po', la sua famiglia) sotto il peso di errori e omissioni pregressi (Il Sacrificio del Cervo Sacro, 2017).

 

Nella cinematografia di Yorgos Lanthimos che, film dopo film, ha assunto l’aspetto di una dissezione del sistema sociale occidentale e dell’essere umano in generale, Dogtooth si inserisce come feroce ed embrionale analisi della famiglia, la più piccola delle unità che sommate fra loro compongono il grande insieme di una comunità.

 

 

[L'allegra famigliola felice di Dogtooth]

 

 

Quella di Dogtooth è una realtà di 150 mq (più prato all’inglese) dominata da una mente amorevole e distorta che si è spinta all’eccesso pur di tenere legati a sé i propri cari, senza lasciarli mai, relegandoli in un abbraccio paterno alienante ed eterno.

 

Dogtooth (Kynodontas, Κυνόδοντας) - candidato al Premio Oscar come Miglior Film in Lingua Straniera nel 2011 - sarà nelle nostre sale a partire da giovedì 27 agosto, a ben 11 anni di distanza dalla sua prima distribuzione.

dogtooth dogtooth dogtooth 

*intervista rilasciata a Pamela Jahn per Electric Sheep Magazine.

 

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4 commenti

Adriano Meis

2 anni fa

Lo è sicuramente, visto che è un film che ragiona e sperimenta moltissimo sui temi del linguaggio, della cognizione, dell'autocoscienza e dei rapporti socio-familiari.
Concordo con te sulle sensazioni che suscita Kynodontas... E' davvero respingente, difficile, violento nei confronti dello spettatore. Infatti, come scrissi ai tempi della recensione, aspetterò molto tempo prima di rivederlo.
Grazie per il commento col tuo pensiero, Chiara!

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Adriano Meis

3 anni fa

La tua tesi mi piace molto, Giorgia

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Edoardo Aresi

3 anni fa

Grazie mille per la fantastica risposta! Effettivamente sono entrambe ipotesi validissime e molto plausibili, grazie ancora

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Giorgia Leonardi

3 anni fa

Da un punto di vista scientifico mi viene subito in mente assenza di segnale (riga gialla), nascita di un impulso, ma con interferenze che in parte lo azzerano e reprimono (rosso), segnale pienamente formato e perfetto (sinusoide blu). Questo effettivamente potrebbe andare a simboleggiare il risveglio inevitabile di un sentimento di ribellione, una consapevolezza primordiale della situazione malata, un desiderio di fuga o ancora una frustrazione crescente nei figli.
Se invece penso al titolo del film, mi viene anche in mente che potrebbe simboleggiare un dente che cade  e ricresce nelle varie fasi. Nella parte sinistra inizialmente è presente senza lasciare buchi (giallo) e, man mano che viene violentemente tolto, lascia un buco progressivamente più grande (rosso e blu). A destra invece la speranza della sua ricrescita, un dente che piano piano scende dalla gengiva (giallo, rosso, blu).
Ovviamente questo è solo un mio bizzarro volo pindarico ahah

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