#articoli
All'inizio del film Barbie recita una battuta ben precisa: “È tutta illusione”.
Il riferimento è a Barbieland, il mondo in cui abita: un mondo di plastica, un mondo dove non esistono preoccupazioni. Un’utopia ideologica figlia del capitalismo di casa Mattel.
Un’illusione creata ad hoc da una grande industria che Greta Gerwig alla regia - e in fase di scrittura insieme a Noah Baumbach - cerca di decostruire partendo dalla fabbrica dei sogni per eccellenza: il Cinema.
L’inizio dissacrante d’altronde parla chiaro: una parodia di 2001: Odissea nello spazio che dialoga con il camp.
Prima di Barbie le bambine dovevano giocare con bambolotti di plastica, fingendo di essere madri e casalinghe.
Poi l’arrivo di Barbie, al pari di un’astronave, permise loro una nuova prospettiva non necessariamente collegata all’essere una madre: niente è intoccabile.
[Il teaser trailer di Barbie aveva già svelato l'incipit]
I generi presi di mira sono due capisaldi hollywoodiani: la sitcom (sebbene non sia propriamente corretto parlare di genere) e il western.
Barbie (Margot Robbie) vive in un mondo che è appunto costruito su situation in case tutte uguali, dove si mostra l’indipendenza femminile in un contesto che guarda a La fabbrica delle mogli - romanzo ispirazione anche per Don't Worry Darling - di Ira Levin.
Ken (Ryan Gosling) invece, una volta scoperto il patriarcato del mondo reale, si innamora dei cavalli.
Il western fa capolino, essendo il genere maschile per eccellenza, ma viene sbeffeggiato per una mascolinità sempre esibita goffamente, ricordandoci che nella fisicità muscolare l’omoerotismo è presente, seppur velato.
L’illusione parte perciò dalle immagini con cui siamo cresciuti e che ci hanno formato in quanto spettatori.
Greta Gerwig dirige il suo film a tesi poggiandosi su questa idea narrativa, assemblando un pot pourri di idee, di situazioni visive e narrative spesso geniali, dove si passa dal musical alla screwball comedy, dal mondo rosa di Barbieland a quello grigio di Mattel, che omaggia Playtime di Jacques Tati.
[Benvenuta nel mondo reale, Barbie]
Poi però c’è l’altra faccia della medaglia: il mondo reale, quello in cui Greta Gerwig sembra non credere.
Quando il ritmo incalza e lo scontro tra Barbie e Ken deve trovare una conclusione, le immagini per la regista di Piccole Donne sembrano non bastare più, come per dire che il suo Cinema non fosse sufficientemente chiaro. Non abbastanza, non per il pubblico reale.
Inizia quindi un terzo atto infarcito, a mio avviso, di monologhi cattedratici e superflui per l’idea stessa che Barbie aveva messo in scena con il suo incipit.
La presa di coscienza da parte del personaggio di Margot Robbie coincide con il pensiero della morte e della vulnerabilità della carne: Barbie-stereotipo diventa Barbie-testimone, ponendo al centro la nostra fragilità.
La performance diventa drammatica, ma è un dramma innocuo, di superficie, di plastica.
Le lacrime che vediamo scorrere sul viso della protagonista nel finale sembrano artificiali, sebbene figlie di una esasperata presa di coscienza.
Gli spettatori riempiono le sale [che bello!], ma la voglia di abbracciare un pubblico il più ampio possibile finisce con lo svilimento della potenza narrativa delle immagini.
Vi rispettiamo: crediamo che amare il Cinema significhi anche amare la giusta diffusione del Cinema.
2 commenti
Jacob Malic
7 mesi fa
È una satira pungente ma innocente. Quello che spicca di più del film sono i costumi e le musiche.
Quindi il film alla fine riesce a trovare un vasto pubblico.
Ovviamente non è paragonabile a Oppenheimer, ma se la cava benissimo.
Rispondi
Segnala
Terry Miller
1 anno fa
Rispondi
Segnala