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'X - A Sexy Horror Story' e gli altri: quando l'orrore è in Texas

Ti West, attore, sceneggiatore e regista dell’orrore, torna al cinema con X - A Sexy Horror Story

X - A Sexy Horror Story.è il ritorno al cinema in Italia di Ti West, attore, sceneggiatore e regista dell'orrore, grazie a Midnight Factory

 

Presentato al South by Southwest Film Festival X - A Sexy Horror Story, al cinema dal 14 luglio, segue le vicende di una troupe cinematografica che nel 1979, in viaggio attraverso il Texas, ha l’obiettivo di girare un film per adulti, nel contesto del boom del mercato cinematografico del porno e della sua propagazione nell’home video. 

 

[Trailer italiano di X - A Sexy Horror Story]

 

 

“Porn ain’t only gonna be for perverts no more”. 

"Il porno non sarà più solo per pervertiti".

 

Maxine (Mia Goth) è l’attrice che vuole diventare una star e viene inquadrata come protagonista del film; Wayne (Martin Henderson) è il suo fidanzato-produttore, più maturo; gli attori Bobbie-Lynne (Brittany Snow) e Jackson (Kid Cudi), sono la bionda e il nero dello slasher; RJ (Owen Campbell), il regista che vuole elevare il porno a Cinema d’autore e infine Lorraine (Jenna Ortega), la ragazza di RJ che lo aiuta come microfonista, è la classica puritana con scritto Final Girl in fronte.

 

Quando giungono alla fattoria che farà da set per il loro film The Farmer’s Daughters, l’incontro con i due vecchi e “innocui” padroni di casa darà il via a una strage nella migliore tradizione del sottogenere.

 

Con un ritmo molto dilatato, X - A Sexy Horror Story pone le basi della tensione per il massacro nel corso della prima ora di film, con parallelismi tra scene e tra personaggi, palesi anticipazioni presaghe di ciò che avverrà, un’esplorazione cauta e riflessiva sugli spazi, ampi e vuoti della casa, della dependance e del bosco, che diventeranno in seguito terreno della fuga, della discreta persecuzione e della morte.

 

La grande idea di X - A Sexy Horror Story risiede nella scelta di mettere in scena una contaminazione tra due sottogeneri dell’horror: al più popolarmente riconosciuto e riconoscibile slasher movie si aggrega lo psycho-biddy - o Hag Horror, o Grand Dame Guignol - che mette al centro dei suoi intrecci la narrazione ageista della donna anziana la cui instabilità mentale si traduce in un’incontrollata esplosione di violenza. 

 

Che fine ha fatto Baby Jane? ne è il rappresentante più iconico, con all’attivo l’ulteriore livello di lettura dato dal casting di attrici celebri nella loro giovinezza e ora “costrette” al Cinema di genere. 

 

La scelta di questa tipologia di villain innocuo per definizione - spesso i personaggi avranno un’attitudine protettiva proprio per quest’aura di inoffensività, cosa che non può non richiamare The Visit di M. Night Shyamalan - implica una trasformazione del ritmo e delle modalità dello slasher classico, anche se per certi tratti la lentezza flemmatica ricorda quella del Michael Myers di Halloween o del Jason Voorhees di Venerdì 13. 

 

Se nello slasher classico questa lentezza dava la misura di una sorta di inumanità e ineluttabilità del villain, qui agisce come disinnesco del senso di minaccia nello spettatore: nonostante le morti si susseguano “senza problemi” (forse ne dubitavamo?), non si ha la percezione claustrofobica di essere braccati, con il fiato sul collo, e le scene gore si attendono come qualcosa di dovuto, di imposto dal genere, con una tensione pressoché azzerata dalla lenta prevedibilità delle stesse, in un calco degli stilemi della tradizione che, a tratti, dall’ammirato omaggio sconfina nella vuota mancanza di originalità. 

 

Ciò che funziona, però, è proprio la riflessione sulla giovinezza e sulla bellezza, qui legata al porno in quanto glorificazione estrema del sesso: il ritorno di ciò che si è stati passa attraverso la riappropriazione dell’atto sessuale come godimento di un afflato vitale che se ne è ormai andato e il cui recupero viene mostrato come una dissonante perversione.

 

Significativo in tal senso è il modo in cui il film gioca sul concetto di tabù. 

Il veto rappresentativo che viene infranto non è quello legato alla nudità e all’esplicitezza del porno - talmente sdoganate da non essere quasi più terreno di scandalo - bensì quello connesso alla sessualità e alla vecchiaia: non saranno infatti le riprese del film per adulti a essere mostrate nel dettaglio, ma quelle di rapporti sessuali tra corpi che non siamo socialmente abituati a vedere sessualizzati, ovvero i corpi vecchi.

 

Il parallelismo tra il personaggio di Maxine e quello della vecchia Pearl diventa metatestuale.

 

È infatti la stessa Mia Goth a interpretare entrambi i ruoli: senza esserne a conoscenza a priori ci si rende comunque immediatamente conto dell’artificiosità visiva del personaggio di Pearl, che appare proprio per quello che è: un’attrice giovane a cui sono stati applicati pesanti strati prostetici e di trucco; nel doppiaggio italiano la cosa risulta ancora più fittizia grazie alla voce palesemente modificata per sembrare più vecchia, andando a creare un cortocircuito di due livelli di artificiosità - doppiaggio e forzatura del doppiaggio - che si sommano.

 

La regia di Ti West, per certi versi abbastanza sobria, fa tuttavia un uso interessante delle transizioni e dello split screen, e offre alcune efficaci soluzioni come la bellissima inquadratura di apertura, che imposta un illusorio 4:3 per poi aprirsi al formato dello schermo a cui siamo abituati.

 

Il citazionismo - letterale e visivo - è a livelli altissimi: dal concetto di base che rimanda ovviamente nell’idea di invasione della casa padronale e nell’ambientazione texana a Non aprite quella porta (Tobe Hooper, 1974), alla scena del coccodrillo che ricorda l’inseguimento sott’acqua ne Il mostro della laguna nera (Jack Arnold, 1954), dalle transizioni “a scorrimento” che rimandano ai film di exploitation fino al riferimento dialogico a Psyco (Alfred Hitchcock, 1960).

 

Proprio quest’ultimo, in cui la riflessione sul film di cui parlano i personaggi (Psyco) si fa specchio di una riflessione sul film che stiamo guardando (X - A Sexy Horror Story), ci fa intravedere uno sviluppo narrativo - che ha a che fare con il concetto di MacGuffin - che non viene percorso, ma che viene pesantemente suggerito, creando un’aspettativa e disattendendola nel giro di qualche minuto.

 

I tipi incarnati dai personaggi sono ben definiti, e li conosciamo già alla perfezione.

La contrapposizione iniziale tra Maxine e Lorraine incarna l’atavico contrasto tra promiscuità e virginale innocenza, che subisce tuttavia dei ribaltamenti nel corso del film, mettendo in discussione la pruderie tradizionalmente insita nella Final Girl. 

 

Questa confusione di tratti rende per certi versi incerto proprio il ruolo di Final Girl: se retoricamente il film ci aveva presentato come tale, dandole centralità fin da subito, Maxine/Mia Goth, la crescente fama extratestuale di Jenna Ortega - che dopo la partecipazione al nuovo Scream si va sempre più a definire come scream queen - fa vacillare le nostre convinzioni. 

 

Un omaggio innovato allo slasher, ancorato agli stilemi ma originale nella scelta delle tematiche, X - A Sexy Horror Story va visto senza aspettative di sorta, soprattutto se ci si attende un gioco con la tradizione: i parallelismi tra Cinema porno e Cinema horror - sempre più di quanti si potrebbe pensare - danno vita a un’operazione “seria” e forse aspettarsi la divertente parodia a cui molti film degli ultimi anni ci hanno piacevolmente abituato è quanto di più deleterio si possa fare. 

 

Gli aridi spazi desolati - e a tratti desertici - del Texas sono spesso stati teatro delle più cruente e orrorifiche fantasie cinematografiche.

Il caldo soffocante, l’asperità del paesaggio e la vastità degli ambienti su cui domina impervia l’arida natura imbevono le scarse presenze umane che ne calcano le distese di una patina sporca, terrosa, polverosa e dal retrogusto di sangue.

 

Di riflesso, lo spettatore non può che sopportare durante la visione la - fastidiosa, ma innegabilmente immersiva - sensazione di lordura sottopelle, che trascina via dalla comodità del proprio divano, della poltroncina del cinema, per gettarci senza pietà sul brullo terreno sabbioso, come fossimo uno tra i tanti malcapitati del killer o della creatura di turno. 

 

 

 

“…they could not have expected nor would they have wished to see as much of the mad and macabre as they were to see that day.”

"...non avrebbero potuto aspettarsi né avrebbero voluto vedere tanto del pazzo e del macabro come avrebbero dovuto vedere quel giorno." 

 

X - A Sexy Horror Story si inserisce in questa piccola grande tradizione, il cui progenitore - forte del nome dello stato nel titolo - fa uso del prologo cronachistico e dell’agghiacciante e infida aura da storia vera.

 

The Texas Chain Saw Massacre, ovvero Non aprite quella porta (Tobe Hooper, 1974), prendendo ispirazione dalle vicende di Ed Gein, è il raccapricciante frutto della fantasia degli sceneggiatori Tobe Hooper e Kim Henkel, che decidono di usare il mezzo dell’aderenza a fatti realmente accaduti per aumentare a dismisura l’investimento emotivo spettatoriale, scelta che in futuro verrà abusata da numerosi horror come Them - Loro sono là fuori, soprattutto nel sottogenere found footage, come Paranormal Activity.

 

In un clima di brutalità sancito dal punto di vista visivo e sonoro dalla cornice del film, dalle immagini gore e dai racconti di violenza che passano alla radio, il celeberrimo viaggio di Sally Hardesty e compagni, che li porterà nelle grinfie dell’allegra famigliola Sawyer, non ha davvero bisogno di presentazioni.

 

Uno dei primi slasher della Storia del Cinema, sporco, fetido, epocale nella sua efferatezza che ancora oggi non può lasciare indifferenti, Non aprite quella porta ha la capacità - non scontata nel Cinema dell’orrore - di far sentire a disagio, vuoi per l’apparente amatorialità della messa in scena, vuoi per la sporcizia cattiva che trasuda dai villain, tra cui Leatherface risalta in quanto violento braccio di una mente impazzita.

Lavoratori della carne passati a occuparsi di prede umane, i Sawyer sono temibili e a tratti comici spauracchi di un’America segnata da un clima politico incandescente, tra Guerra in Vietnam, Watergate e crisi petrolifera.

 

Sally e gli altri passano nel tritacarne della loro perversione e cominciano a cadere come mosche, anzi, come bestie al macello, senza pietà, senza tante cerimonie: l’ultima mezz’ora di film è un grande urlo di Marilyn Burns che la - e ci - accompagna tra indicibili sofferenze e devianze, in una fuga continua, in interni ed esterni, con le due significative e orribili pause del benzinaio e del “festino” di famiglia.

 

Si ha la costante sensazione che i personaggi si trovino in un’area delimitata, quasi un campo da gioco, un set in cui il pericolo, prima o poi, li stanerà. 

 

 

 

“I am the Devil and I’m here to do the Devil’s work” 

"Io sono il Diavolo e sono qui per fare il lavoro del Diavolo"

 

La citazione mansoniana diventa manifesto ed epitaffio dei reietti del diavolo della famiglia Firefly, presentatici da Rob Zombie ne La casa dei 1000 corpi, e di nuovo all’opera nel suo seguito del 2005, La casa del diavolo.

 

Fruibile anche come film a sé stante, La casa del diavolo è un horror on the road che segue i binari del Revenge Movie: papà Capitano Spaulding e i figli Baby e Otis sono in fuga dalle forze dell’ordine di Ruggsville, Texas, e nello specifico dallo sceriffo Wydell, il cui fratello è stato ucciso da Mother Firefly nel primo film. 

 

Sul loro cammino i tre semineranno ulteriori morti, in quel mix di ironia e spietata efferatezza che è in grado di rendere ancora più agghiaccianti le azioni del trio.

Trio che, inutile dirlo, è protagonista assoluto del film.

 

Nemmeno per un secondo ci verrebbe da tifare per le forze dell’ordine, pur con la spinta empatica data dal trauma personale: d’altronde la giustizia non è pura, ma di frontiera, quindi i confini tra giusto e sbagliato si fanno sempre più labili nel minestrone di violenza inflitta da entrambe le parti.

 

Tra abuso di freeze frame e musica country la cui pacata e consolante malinconia contrasta con l’efferatezza delle vicende - emblematica e “commovente” la lunga scena finale con Free Bird come accompagnamento, La casa del diavolo ha dalla sua una divertente spietatezza che rende il cinema di Rob Zombie un unicum - apprezzabile o meno - nel genere horror.

 

 

 

“You know we’re all trying to get you, right?” 

“Get me?”

“Get with you”

 

Nel 2006 una vendetta personale ci porterà in un ranch sperduto nel bel mezzo del Texas, testimoni di un sanguinoso massacro che sembra avere qualcosa a che fare con una tale Mandy Lane, da cui tutti sembrano essere ossessionati.

 

All the Boys Love Mandy Lane (Jonathan Levine, 2006) si inscrive nella tradizione dello slasher, con un villain che da subito appare anni luce distante dall’invincibilità di Michael o Jason.

I tropes della commedia romantica permeano le atmosfere di inquietante attesa del film, soprattutto nel primo - consistente - atto che costruisce le premesse per lo sviluppo, intuibile ma non per questo meno efficace.

 

Questa commistione del teen movie e dell’horror è un aspetto tipico dello slasher, e quando viene sfruttato al massimo della sua portata è in grado di tingersi di una patina di intelligente e consapevole parodia: si pensi al meraviglioso The Loved Ones (Sean Byrne, 2009).

 

Amber Heard è Mandy Lane, una proiezione di coloro che la circondano più che individuo dalla personalità indipendente: ci viene mostrata in modo neutrale, così che il potere plasmante dell’Altro risulti spaventosamente evidente, e che noi stessi veniamo portati a vederla come la vede il mondo.

 

Un vero e proprio oggetto la cui agency verrà recuperata nella sporca discesa finale.

 

 

 

“Hey Pam, remember how I said this car is death proof? Well that wasn't a lie, this car is a 100% death proof. 

But in order to get the full benefit of it, honey, you really need to be sitting in my seat!”  

"Ehi, Pam, ti ricordi quando ho detto che quest'auto era a prova di morte? Non dicevo una bugia... quest'auto è al 100% a prova di morte.

Ma per godere di questo vantaggio, tesoro, dovresti essere seduta esattamente dove sono io!"

 

Tra Texas e Tennessee, la furia omicida di Stuntman Mike (Kurt Russell) si muove implacabile (o no?) a bordo della sua Chevrolet Nova “a prova di morte”.

 

L’incontro-scontro con questo improbabile personaggio segnerà il destino di quelle che i titoli di testa definiscono “the girls”, che costituiscono l’anima vibrante del film, che diventa un inno - à la Quentin Tarantino, con ironia, con un forte connotato di genere  - alla sorellanza e alla legittimità della rabbia femminile.

 

Infatti, in un inconsapevole passaggio di consegne della vendetta, il destino delle ragazze del Texas verrà riscattato dalle ragazze del Tennessee, fortuitamente capeggiato da due stuntwomen, che daranno del serio filo da torcere all’uomo con le loro infinite risorse.

 

Ai dialoghi fitti e ipnotici - la scena al ristorante con la macchina da presa che gira attorno alle ragazze ricalca quella iniziale de Le iene - fa da contraltare la sequenza al cardiopalma degli ultimi 20 minuti di film, in cui la mascolinità di Stuntman Mike - espressa proprio dal suo veicolo - si dimostrerà tutt’altro che inscalfibile.

 

Grindhouse - A prova di morte, film “minore” di Tarantino, è una giostra che incanta e che diventa più straordinaria ad ogni visione, quando si è sempre meno inebetiti dall’opulenza citazionistica e dalla ricchezza stordente dei dialoghi.

 

 

 

“Where are you taking us?”

“Mexico”

“What’s in Mexico?”

“Mexicans” 

"Dove ci stai portando?"

"Messico"

"Cosa c'è in Messico?"

"Messicani"

 

Anche se lo sfacelo e l’orrore hanno luogo in Messico, è dal Texas che parte la fuga di Seth e Richie Gecko (George Clooney e Quentin Tarantino) in Dal tramonto all’alba (Robert Rodriguez, 1996).

 

Questa espressione rovesciata si riferisce all’orario di apertura del Titty Twister, locale messicano per motociclisti e camionisti in cui i due criminali si vengono a trovare intrappolati con la famiglia Fuller (presa come ostaggio) e altri pittoreschi personaggi, tra cui l’iconico Sex Machine (interpretato da Tom Savini, truccatore ed effettista oltre che attore).

 

In uno degli stravolgimenti di trama più spiazzanti della Storia del Cinema (anche se ormai è difficile approcciarsi a questo film senza esserne a conoscenza - ma di certo non sarò io a rovinarvi l’eventuale sorpresa), Dal tramonto all’alba gioca con le aspettative che derivano dall’incasellamento dei prodotti cinematografici in generi dai contorni ben definiti, dimostrando come liberarsi dalle costrizioni retaggio di una modalità “classica” di fare Cinema possa rivelarsi una piacevole arma di sorpresa e disattesa.

 

Intriso di un’ironia deliziosa e costellato da interpretazioni iconiche (come dimenticare l’infantile ma inquietante Richie di Tarantino?) è proprio il non prendersi sul serio e, al contempo, la “serietà” tecnica e la verità emotiva di quanto vediamo a rendere Dal tramonto all’alba un piccolo cult che meriterebbe di essere più conosciuto di quanto non sia.

 

Allacciate le cinture e preparatevi a partire: con i suoi orrori che vi attendono quieti sotto il torrido sole, il Texas vi sta aspettando... 

 

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