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Black Christmas: evoluzione di uno slasher (1974-2006-2019)

Dalla nascita del sottogenere alla contemporaneità post-MeToo: mai uguale a se stesso, ha prestato il suo scheletro a fasi ben distinte e definite del Cinema horror

Quando si parla di slasher probabilmente Black Christmas (Bob Clark, 1974) non è il primo film che venga universalmente in mente in modo immediato e automatico. 

 

Perché, diciamocelo, anche chi non ama e non fruisce il genere sa citare - anche e soprattutto senza averli visti - Venerdì 13 o Nightmare, ma questo film di Natale sui generis è sfortunatamente rimasto appannaggio degli appassionati e non è riuscito a divenire altrettanto iconico. 

Tuttavia prima di Michael Myers, prima di Jason Voorhees (a cui ha gentilmente spianato la strada la sua dolce genitrice), e molto prima di Freddy Krueger, il sottogenere ha fatto la terrificante conoscenza di Billy.

 

Forse, con il proverbiale senno di poi, noi abbiamo fatto in gran parte grazie a lui la conoscenza dello slasher nella sua forma moderna.

 

Messa in conto la sempiterna nebulosità nel determinare i confini temporali e qualitativi delle innovazioni, Black Christmas potrebbe essere considerato, a tutti gli effetti, uno dei primi slasher "puri" della Storia del Cinema.

 

Questo senza dimenticare l'inestimabile contributo che, nella definizione del filone, ha rappresentato la struttura del giallo all'italiana, che dello slasher è stato antesignano - Reazione a catena (Mario Bava, 1971) su tutti - e tutte quelle narrazioni che, talvolta in tempi insospettabili, hanno visto misteriosi mietitori esercitare la loro furia omicida: La scala a chiocciola (Robert Siodmak, 1946) e 5 corpi senza testa (William Castle, 1965), con tanto di omicida donna (!), per fare solo due esempi.

 

 

[Olivia Hussey nei panni della Final Girl di Black Christmas (1974): Jess BradfordBlack Christmas

 

 

Forte di un riconoscimento tardivo (quante volte si è ripetuto questo schema nella Storia del Cinema?), Black Christmas non è forse rientrato immediatamente nei radar degli storici perché non si tratta di un film americano, bensì canadese; anche se tre colossi del cast sono stati "importati" per l'occasione: Olivia Hussey - che interpreta Jess - è inglese, mentre Keir Dullea, il David di 2001: Odissea nello spazio - che interpreta il fidanzato Peter - e John Saxon, ovvero il tenente Fuller, sono statunitensi.

 

Poco importa che sia uscito contemporaneamente a Non aprite quella porta (Tobe Hooper, 1974): nella battaglia per il riconoscimento "istituzionale", Leatherface ha avuto la meglio.

 

Eppure, guardando il film diventa palese come tutta una serie di scelte narrative e stilistiche che vi troviamo siano poi state recuperate, trasposte, riciclate in altri prodotti, fino a costituirsi come i veri e propri tropi che hanno definito lo slasher come sottogenere e che ancora in parte lo definiscono, sul versante più "classico", che viene oggi puntualmente messo in discussione dalla parodia e dalla meta-riflessione, in film come The Final Girls (Todd Strauss-Schulson, 2015) e Auguri per la tua morte (Christopher Landon, 2017).

 

Non sempre i professionisti della Settima Arte hanno la percezione, nel momento della creazione, di stare realizzando qualcosa di seminale, il cui valore troverà spazio nella - e verrà rilanciato dalla - Storia del Cinema.

Spesso è solo retrospettivamente, testimoniando ciò che è avvenuto in seguito, che si è in grado di riconoscersi - anche un po' tronfiamente - il merito che spetta.

 

Mai fidarsi delle dichiarazioni dei registi, soprattutto se sconfessate dalla controparte; rimane tuttavia interessante - e indicativo del processo di riciclo e istituzionalizzazione degli elementi formali e narrativi - quanto dichiarato da Bob Clark in un'intervista (che è parte di Black Christmas Legacy, un extra dell'edizione Blu-ray canadese Anchor Bay, e si trova agilmente anche su YouTube).

 

Il regista racconta infatti che, alla domanda di John Carpenter (allora agli inizi della carriera) sulla sua intenzione o meno di realizzare un sequel del suo Black Christmas, rispose negativamente, andando comunque a delineare un ipotetico scenario in cui il secondo film si sarebbe svolto l'autunno sequente ai fatti, con il killer che - dopo essere stato in qualche modo catturato - evadeva e tornava a perseguitare le ragazze della Pi Kappa Sigma.

 

Il titolo del film sarebbe stato Halloween.

 

 

[Billy, il killer psicopatico, nel momento di massima esposizione della sua fisionomia: "Agnes, don't you tell what we did..."]

 Black Christmas

 

Ma di cosa parliamo quando parliamo di Black Christmas?

 

Il Natale sta per arrivare, e nel quieto campus di Bedford (che non può non richiamare alla mente - in un rovesciamento sanguinoso, ma pur sempre tra ghirlande e lucine - la fiabesca Bedford Falls di La vita è meravigliosa di Frank Capra), le ragazze della Pi Kappa Sigma si danno ai preparativi per la partenza e alla spensieratezza del clima festivo. Ma suscitando le loro reazioni divertite, preoccupate, inorridite torna a farsi sentire una vecchia "conoscenza" del gruppo, ovvero colui che la nostra protagonista Jess definisce "il gorgogliatore misterioso" (in originale, più breve e incisivo, "the moaner").

 

[Black Christmas, 1974] Black Christmas

 

 

Le inquietanti chiamate si susseguono con sempre più frequenza, ma una spirale di violenza ha già avuto il suo raccapricciante debutto all'insaputa delle ragazze, poiché il molestatore telefonico è passato per loro sfortuna all'azione introducendosi in casa, stabilendosi in soffitta e votandosi all'omicidio.

 

Liberamente ispirato alla leggenda urbana La babysitter e l'uomo al piano di sopra - che sarà cinematograficamente portata agli onori da Quando chiama uno sconosciuto (Fred Walton, 1979), con la sequenza iniziale che sarà parodiata nella saga di Scream e che vale da sola tutto il film - Black Christmas ne mantiene l'elemento principe, quello più disturbante: la scoperta che le telefonate oscene provengono dall'interno della casa.

 

Billy, in queste ripetute telefonate, mette in scena un vero e proprio role-play vocale, con un'alternanza di voci ora infantili, ora adulte, ora maschili, ora femminili, inframmezzate da versi e urla inintelligibili che fanno venire i brividi lungo la spina dorsale, permettendoci - sarà l'unico modo - di conoscere seppur vagamente la sua indicibile storia.

L'indefinitezza della natura del suo trauma - che ha lo spazio potenziale di formarsi e deformarsi nella nostra immaginazione - è uno dei punti di forza della sua figura, che rimane avvolta nel quasi più totale mistero, aspetto che purtroppo si perderà nel remake del 2006.

 

Gli zoom sull'apparecchio telefonico non si contano, e i primi e primissimi piani su Jess inorridita, terrorizzata alla cornetta diventano il leit motiv della persecuzione.

 

 

[Lynne Griffin è Clare Harrison, la prima vittima della Pi Kappa Sigma, che rimarrà per tutto il tempo in soffitta, "cullata" da un Billy sempre più fuori controllo]

Black Christmas

 

Con Halloween - ritornando alla possibile diretta filiazione dell'opera di Carpenter da questo film - la sequenza iniziale di Black Christmas ha molto a che spartire.

 

La tanto inflazionata "I-camera", la soggettiva del killer, è il nostro battesimo del fuoco con il film. Ci avviciniamo alla sede della Pi Kappa Sigma con colui che in seguito identificheremo come Billy, nel suo corpo, attraverso i suoi occhi, vedendo le sue mani, aggrappati ai suoi movimenti (grazie, tra l'altro, a un accorgimento tecnico escogitato dall'operatore di macchina, Bert Dunk, rimando ancora all'extra citato in precedenza), e sentendo il suo assordante respiro.  La soggettiva di Billy tornerà più volte nel corso del film e in modo da mettere lo spettatore sempre più a disagio: diventerà gradualmente sempre più "scomodo" trovarsi nel suo corpo (in quanto step precedente alla sua mente, dalla quale vogliamo fuggire) tanto più che, salvo una breve occasione, non avverrà mai qualcosa di analogo con Jess, il baluardo della nostra identificazione spettatoriale.

 

Setting circoscritto, nutrito gruppo di personaggi giovani (in gran parte donne), uccisioni, protagonista/Final Girl, progressiva consapevolezza del pericolo, killer che colpisce senza pietà, messa in scena del suo punto di vista attraverso la soggettiva.

 

Questi sono solo alcuni dei tratti distintivi di Black Christmas e dello slasher tout court, che ha una struttura figlia dell'oralità, forte di ripetizioni, archetipi e variazioni sul tema: la sua natura profonda non risiede tanto nell'originalità della proposta, quanto nell'interpretazione della formula.

 

Black Christmas condisce a puntino questi elementi, dando vita a un terrificante mix perfettamente dosato di suspense, orrore e... humor.

La risata, spesso in canna, cozza in modo agghiacciante con il contesto narrativo, per certi versi molto realistico: si pensi al massacro del 1978 alla Chi Omega di Tallahassee, perpetrato dal poi famigerato Ted Bundy.

L'ironia, costante, che torna anche nei momenti meno opportuni - e incarnata dall'esilarante personaggio di Mrs. Mac, la responsabile (irresponsabile) alcolizzata della confraternita e da Mr. Harrison, il padre della prima vittima - è uno degli aspetti che discostano Black Christmas da quella che poi è andata a consolidarsi come formula rodata dello slasher.

 

Il film si configura dunque come un proto-slasher che ha definito gli standard e, al contempo, ha mantenuto dei tratti discordanti da tutto ciò che è venuto dopo, tratti che più lo avvicinano al tradimento delle aspettative dei prodotti contemporanei. La summa di questi contrasti è la Final Girl, antesignana di tutte le "classiche" Sally, Laurie e Nancy che la seguiranno: Jess rompe quelle che noi percepiamo oggi come convenzioni.

O forse non era ancora trope lei stessa?

 

Tutto possedeva ancora una consistenza magmatica, che aspettava di essere plasmata, permettendo azzardi e alternative? 

 

 

[Clare e Phyl (Andrea Martin) mentre ascoltano, tra l'allarmato e il divertito, i versi di Billy al telefono]

Black Christmas

 

Jess è la protagonista, e comprendiamo subito che riveste la funzione di Final Girl, perché?

 

Presto detto: è interpretata da Olivia Hussey, la Giulietta di Franco Zeffirelli nel 1968, inequivocabilmente il volto femminile noto di Black Christmas.

È lei l'unica che risponderà al telefono per tutto il film, la depositaria del "privilegiato" rapporto con Billy, il cui trauma si riflette in modo inquietante nella storia personale di lei ("Kill the baby").

 

Ma Jess non è la classica Final Girl.

 

Nel 1987 viene pubblicato il seminale contributo di Carol J. Clover dal titolo Her Body, Himself: Gender in the Slasher Film, poi confluito in una versione più breve nell'ormai classico Men, Women and Chain Saws: Gender in the Modern Horror Film del 1992.

Nella formulazione dello slasher di Clover, la base estetica e narrativa del sottogenere risiede nel gioco identificativo portato avanti al livello della visione.

 

Il rapporto tra la Final Girl - colei che alla fine affronterà il Mostro avendo la meglio - e il killer è l'estrinsecazione del gioco dei ruoli di genere nell'horror. Il ruolo di vittima prevede una connotazione femminile, mentre il ruolo attivo fallico di killer ne prevede una maschile. 

Ma essendo due posizionalità di genere e non sessuali, perché la Final Girl è sempre e comunque una femmina, mai un maschio?

 

Storicamente il fruitore maggioritario dello slasher è il maschio adolescente; essendo la protagonista una femmina, si può pensare che il motore del suo piacere spettatoriale possa essere il godimento sadico vicario portato dal trovarsi nei panni furiosi di un assassino.

Ma se la spettatrice è stata tradizionalmente "costretta" a identificarsi con eroi maschi, lo spettatore è perfettamente in grado a sua volta di identificarsi con una protagonista donna, l'unica via per il piacere della visione dello slasher.

 

Il fatto che la protagonista sia femmina, anzi, torna a suo vantaggio permettendogli di mettere una distanza tra sé e la diegesi che rende più facilmente fruibili dinamiche psico-sessuali che, vissute vicariamente sulla pelle di un protagonista maschile, sarebbero intollerabili, tabù.

 

L'identificazione riesce con efficacia anche perché la Final Girl è una victim-hero.

Nessuno dei due termini può essere ignorato per la corretta comprensione della sua figura: se per gran parte del film ha ricoperto una posizione femminile - fuggendo, urlando in preda al terrore, nascondendosi, annullandosi - nella parte finale, nel momento del suo riscatto, assume una posizione maschile, castrando - simbolicamente o letteralmente - il killer, che viene così a trovarsi nella parte femminile della funzione.

 

La reciprocità tra protagonista e Mostro, la compresenza di maschile e femminile in entrambi, è una costante su cui lo slasher - consapevolmente o meno - gioca continuamente da sempre.

 

La Final Girl, per definizione, non è sessualmente attiva, a differenza delle sue controparti uccise nel corso del film; il massacro durante o dopo l'atto sessuale è diventato l'ennesimo, abusato, tropo del sottogenere.

Questa è una delle caratteristiche che la distaccano dagli altri personaggi femminili e la avvicinano, per assurdo, ai maschi a cui mostra di non essere interessata.

Agisce attivamente con uno sguardo indagatore, che cerca di interpretare la situazione in cui si viene a trovare (un po' come il nostro sguardo esplorativo sullo schermo), ha spesso inclinazioni o passioni considerate prettamente maschili e ha, spesso, un nome ambiguo, androgino.

 

Jess, su quest'ultimo punto, non è un'eccezione.

 

 

[Il fallicissimo ninnolo di vetro a forma di unicorno, che diventerà lo strumento di morte di Barb]

Black Christmas

 

Ma Jess è incinta, e non solo.

 

Facendo valere la propria individualità contro il ricatto psicologico, la placida violenza e le suppliche del fidanzato Peter, ha preso la decisione di abortire: non vuole assolutamente rinunciare alle ambizioni personali, a una carriera, a tutta una serie di esperienze per portare avanti una gravidanza non programmata e non desiderata.

Non è esattamente la casta, innocente, ingenua creatura che ci aspetteremmo diventi la prescelta, la Final Girl.

 

Soprattutto, il momento del riscatto in cui finalmente agisce armata di attizzatoio diventa una metaforica affermazione dell'autodeterminazione femminile contro la prevaricazione maschile: si va quietamente a installare, tra le pieghe del film, quel sottotesto femminista che ha in qualche modo giustificato la ripresa post-MeToo del remake (reboot? film totalmente a sé che ha voluto sfruttare la fama acquisita dall'originale?) del 2019.

Su questo torneremo più avanti.

 

Il fidanzato di Jess, Peter, l'egocentrico e possessivo Peter, viene ripetutamente e insistentemente connotato, messo in scena, ripreso - in modo sempre più convincente - per indurci a sospettare di lui come killer.

Noi spettatori sappiamo che non è lui, ma il regime di conoscenza che Black Christmas ci offre presenta una forte divaricazione con quello di Jess, il personaggio la cui consapevolezza è quella che maggiormente si avvicina alla nostra.

Ma anche Jess a un certo punto scopre senza margine di dubbio che è impossibile che l'assassino sia Peter; tuttavia, come se il germe del dubbio non fosse comunque stato estirpato - o come se una sua colpa più profonda non legata agli omicidi meritasse in ogni caso una punizione - messa alle strette lo uccide.

 

Il livello di legittimità della sua azione è altamente ambiguo, sindacabile, ed è per questo che la radicale scelta di Jess dà adito a un'interpretazione più simbolica, come accennato poche righe sopra. 

 

Inaspettatamente il film termina con una Jess tornata alla passività più letterale e il vero killer ancora indisturbato nella soffitta (che ironicamente nessuno si è mai preso la briga di controllare): non c'è una sconfitta del villain neppure momentanea (in attesa del ritorno nei sequel) e la sua stessa presenza/esistenza non viene presa in carico in alcun modo, la sua colpa e il suo posto simbolico assunti da un Peter impossibilitato a controbattere.

 

Tornando ai personaggi, uno di quelli senza dubbio più interessanti è Barb, interpretata da Margot Kidder, la futura Lois Lane della saga dei Superman con Christopher Reeve.

 

Apparentemente promiscua, sboccata, schietta, ripetutamente mostrata nell'atto di bere o fumare (o le due cose insieme): è la classica bad girl, destinata nella formula dello slasher a diventare la prima vittima.

I movimenti di macchina, nella scena iniziale, sembrano giocare proprio con questa aspettativa, tuttavia sconfessandola.

 

In effetti è Clare (la vergine!), colei che in qualsiasi altro slasher sarebbe stata la Final Girl, a essere brutalmente uccisa dalla soggettiva impazzita di Billy.

 

 

[Barb, nel suo classico atteggiamento sassy mentre fuma e beve] Black Christmas

 

 

Con il personaggio di Barb viene esplicitata la colpa atavica (qui narrativizzata e platealmente problematizzata) della bad girl dello slasher, ovvero la libera espressione della sua sessualità: la reprimenda morale e l'eccesso di alcol la costringeranno all'inazione (acuita dalla scelta di mostrarla asmatica), lei che era la più attiva e combattiva della Pi Kappa Sigma, ma sempre con la sua scintilla di adorabile insolenza.

 

L'assassinio di Barb (dopo che lei prima di chiunque altro - tranne che dello spettatore - ha visto il killer, credendolo tuttavia un'allucinazione onirica, un incubo) diventa un omaggio allo slasher pre-moderno per eccellenza: Psyco (Alfred Hitchcock, 1960).

 

Così come il corpo di Marion Crane veniva spezzettato tanto dalla macchina da presa quanto dal coltello di Norman Bates, la morte di Barb viene ripresa con un montaggio frammentato in cui il sangue non è l'elemento principe, sostituito da dettagli e particolari pregnanti, inframmezzati dai primissimi piani dei bambini del coro natalizio, le cui voci diventano il grottesco fondo sonoro della scena, mischiate ai gemiti e alle urla, che vengono così coperti.

 

Ma i maschi?

 

I personaggi maschili dello slasher servivano inizialmente come intermediari necessari per la salvezza della Final Girl (si pensi a Sally salvata dalla combo camionista-autista in Non aprite quella porta), ma gradualmente sono stati sempre più utilizzati quali vittime a loro volta o comprimari positivi (ad esempio le figure paterne o le autorità), marcati dalla loro inettitudine ad essere veramente d'aiuto alla Final Girl.

 

La male agency sembra tornare in Black Christmas come passaggio obbligato perché la situazione venga presa sul serio, laddove le ragazze vengono ritenute delle isteriche paranoiche: Chris assolve il suo ruolo di alzare la voce alla centrale di polizia, per poi però uscire silenziosamente e assurdamente di scena e tornare come se nulla fosse nel finale (è il ragazzo di Clare, non può sparire così!).

Mentre l'inutilità degli "aiutanti" uomini - di cui le stesse ragazze si prendono gioco - è rappresentata da Mr. Harrison, il padre della ragazza, insieme al corpo di polizia - il cui grado di utilità va dall'effettiva neutralità del tenente Fuller (che si è sì sbattuto prendendo sul serio la situazione, ma che in fin dei conti non è stato in grado di aiutare veramente) alla parossistica stupidità del sergente Nash.

 

Insomma, il Black Christmas del 1974 è secondo chi scrive un film straordinario, sia a livello narrativo che formale: tra gli elementi non ancora citati vale la pena menzionare i crudi, divertenti, spiazzanti tagli di montaggio che giocano ironicamente sul raccordo sonoro e di movimento.

 

Fast-forward al 2006.

 

 

[Katie Cassidy nei panni della Final Girl di Black Christmas (2006): Kelli Presley]

Black Christmas

 

Sono gli anni degli eccessi della New French Extremity, gli anni dei remake dei classici della Storia del Cinema dell'orrore, gli anni in cui thriller e horror si ibridano nel minimo comune denominatore che era in grado di scatenare  la risposta del pubblico, ovvero la tensione e la violenza psicologica; in questo, un grande contributo giunge dalle cinematografie orientali, spesso e volentieri pozzo senza fondo per altrettanti remake americani.

 

In questo clima ideale, Glen Morgan (noto per il sodalizio con James Wong alla scrittura di episodi di X-Files e di due capitoli della saga di Final Destination), dirige il primo remake di Black Christmas, un film molto violento, molto gore, ma - ahimè - a mio avviso molto inferiore all'originale.

 

Preciso - ora e mai più - che il confronto tra i tre film e soprattutto tra quelli del 2006/2019 e l'originale, è necessario per l'intento stesso di questa riflessione, che mira non tanto a recensire registrando virtù e criticità dei prodotti, quanto ad analizzare le trasformazioni che il brand Black Christmas ha attraversato nel corso dei decenni, le evoluzioni narrative, strutturali e stilistiche che hanno finito per trasfigurare pressoché totalmente la storia originale, adattando la materia, di volta in volta, alle epoche dell'horror cinematografico. 

 

[Black Christmas, 2006] Black Christmas

 

 

Il termine remake in questo caso può legittimamente essere utilizzato, poiché il racconto è impostato, per sommi capi, sugli stessi binari dell'originale.

 

Tuttavia è inserito in una cornice - sorretta da introduzione e svariati flashback - eccessivamente esplicativa, dimostrativa. Questo surplus di informazioni è di certo percepito fastidiosamente come tale proprio in relazione al film originale, la cui forza, come già accennato, risiedeva soprattutto nel mai chiarito trauma dell'infanzia di Billy, nell'evanescenza - sia fisica che psicologica - della sua figura, nell'imprendibilità - sia effettiva che formale - del suo corpo omicida.

 

Nel Black Christmas del 1974 le protagoniste e gli altri personaggi mancano totalmente di una conoscenza pregressa e una pronta consapevolezza del pericolo (sarà acquisita molto gradualmente).

Nessuno sa a priori dell'esistenza (e tantomeno della presenza in casa) di Billy, tant'è che nessuno si riferirà mai a lui con il suo nome: sarà solo lui ad autodefinirsi e raccontare autonomamente la sua storia, in modo confuso e raccapricciante, attraverso una performance psicotica messa in atto telefonicamente.

 

Quella di Jess, come sottolineato in precedenza, sarà una lentissima presa di coscienza della minaccia e il film avrà comunque un epilogo indigesto, avulso dalla tradizione, con una chiusura che tale non è, con lo squillo mai interrotto del telefono come monito di una precarietà presaga di orrori ulteriori.

 

 

[Il patrigno e la madre di Billy Lenz alle prese con i loro sordidi affari nel Black Christmas del 2006] 

Black Christmas

 

Nel Black Christmas del 2006 Billy è diventato una sorta di leggenda, tanto reale quanto fonte di riti scaramantici: le ragazze della Delta Alfa Kappa conoscono la sua storia (qui ha addirittura un cognome: Lenz), sanno che ha massacrato la sua famiglia e soprattutto sanno di vivere nella casa dove tale massacro ha avuto luogo, una quindicina di anni prima, nel giorno di Natale.

 

La sua irruzione nella confraternita diventa quindi, qui, la realizzazione del desiderio di Billy, finalmente riuscito a evadere, di "tornare a casa per Natale".

 

Il Black Christmas del 1974 e quello del 2006 sono quindi a livello di storia grosso modo la stessa cosa, ma con una piccola gigantesca differenza: nel secondo vengono riempiti quei meravigliosi buchi che nel primo funzionavano alla perfezione, costituendone gran parte dell'appeal, viene fornito un contesto in cui le gesta di Billy sono note, famigerate, e quindi Billy stesso una sorta di uomo nero vivente.

 

E Billy si vede, fin dall'inizio, troppo.

Le sue soggettive, quando arrivano, risultano depotenziate in quanto la sua identità e la sua fisionomia ci sono già note. E il terrificante tema portante del 1974, ovvero le chiamate, non è qui costitutivamente presente sin dall'inizio, non è motore fondamentale del racconto e della stimolazione dell'ansia nello spettatore.

 

Nonostante la struttura comune, i dettagli della storia del remake subiscono comunque delle modifiche.

Su tutte, la sorellina che Billy nel Black Christmas del 1974 sembra avere ucciso, Agnes, qui non è morta: è diventata un Billy al femminile, psicopatica quanto il fratello (e padre, grazie al tema dell'incesto, che a ben vedere sembrava essere suggerito anche nel film originale).

 

I personaggi ricalcano (o perlomeno cercano di ricalcare) le loro controparti del 1974, anche se qui sono di più e meno memorabili; in generale si ha la sensazione che poco si cerchi di sperimentare con la tradizione.

 

Abbiamo la protagonista in una storia problematica con il fidanzato (là c'era di mezzo un aborto, qui una perversione sessuale), che ad un certo punto diventa un papabile colpevole, anche se non dal punto di vista di Kelli; abbiamo la nuova versione della bad girl; abbiamo l'adorabile Mrs. Mac, qui interpretata da Andrea Martin, che nel primo film faceva la "bruttina" del gruppo, Phyl.

 

 

[Billy Lenz in action, nel Black Christmas del 2006] Black Christmas

 

 

Il gioco con gli stereotipi del genere - che l'originale esercitava, sul crinale tra la libertà pre-istituzionalizzazione degli stessi e il loro consolidamento - è totalmente assente, così come la sperimentazione a livello visivo e stilistico.

 

Le citazioni continue ci impediscono, tra l'altro, di dimenticare la filiazione di questo remake dal film di Bob Clark e goderci un prodotto che - tolto lo scheletro del racconto - si configura come qualcosa di completamente diverso, con i suoi pregi e i suoi difetti.

 

Le funzioni del ruolo attivo di Final Girl (che qui, lo ricordo, è Kelli) sono spalmate su più personaggi, in primis quello di Leigh, sorella maggiore della prima vittima di Billy, Clair (esplicito rimando alla Clare del film originale), che qui sostituisce la figura del padre della ragazza, quel Mr. Harrison che arrivava a cercare la figlia rivelandosi un comic relief senza apportare un effettivo aiuto.

La tenacia e il coraggio del suo personaggio, così come la sua fisionomia, richiamano la Gale Weathers della saga di Scream, interpretata da Courteney Cox.

 

Grazie al rapporto che si crea tra Kelli e Leigh viene qui esplicitato un tema che nel 1974 rimaneva tacito, cioè quello della sorellanza, della famiglia che scegli di costruire, che verrà caricato all'inverosimile nel secondo - e per ora ultimo - remake di Black Christmas.

 

Grazie all'instancabile fabbrica Blumhouse, qui in associazione con Divide/Conquer, nel 2019 esce nelle sale statunitensi Black Christmas - in Italia l'uscita cinematografica è stata cancellata, e il film reso disponibile direttamente in VOD - diretto da Sophia Takal, attrice di svariati film mumblecore, scritto da April Wolfe.

 

Per la prima volta, la materia - come abbiamo visto, con sottotesti potenzialmente molto efficaci a livello di rivendicazione femminista - è artisticamente in mano a donne.

 

Purtroppo - bisogna ammetterlo - l'esecuzione non convince totalmente.

 

 

[Imogen Poots nei panni della Final Girl di Black Christmas (2019): Riley Stone]

Black Christmas

 

A questo giro, parlare di remake è veramente errato e fuorviante.

 

Della storia originale rimane l'ambientazione all'interno di un campus durante le vacanze natalizie, tra confraternite e strade innevate; la presenza di un omicida misterioso che se la prende con le ragazze del college; lo sbilanciamento femminile del focus narrativo e identificativo del film.

Possiamo dire addio a Billy, con buona pace del compianto Bob Clark.

 

Affrontiamo subito, di petto, l'elefante nella stanza: Black Christmas di Sophia Takal vuole essere esplicitamente, integralmente e costitutivamente femminista.

 

E lungi da me voler criticare tal proposito.

 

[Black Christmas, 2019] Black Christmas

 

 

Il problema è che questa volontà ci viene vomitata addosso ad ogni minuto: vibratori come regali di Natale, coppette mestruali rubate, t-shirt che recitano "Your manologue is boring me", volgarità a iosa dalla bocca di dolci fanciulle per ricordarci che non sono le delicate principesse delle favole and so on.

 

Si va davvero poco per il sottile, e questo eccessivo didascalismo - che si presenta come un deciso statement politico - finisce per cozzare malamente con la stupefacente ingenuità di alcuni snodi narrativi, che finiscono così con il porgere il fianco a critiche più che legittime.

 

Il rimarcare di continuo l'intento contribuisce rovinosamente a depotenziarlo ed è un peccato, perché alcune scelte visive e narrative riescono ad essere ben riuscite, d'impatto: ad esempio, la sequenza dell'inseguimento e della morte della prima ragazza, Lindsay, che ricorda il muoversi di Laurie Strode tra gli addobbati spazi aperti del quartiere in Halloween, quasi una superficie lunare disabitata, con Michael Myers che può spuntare ad ogni angolo.

Lindsay, in una mossa tristemente conosciuta - qui potente perché inserita armonicamente e in modo realistico nella narrazione - impugna le chiavi di casa pronta a utilizzarle come arma improvvisata.

 

Ma come vedremo è l'idea di questo nuovo Black Christmas in sé ad essere - purtroppo - intrinsecamente didascalica.

 

Riflettendoci a posteriori, sarebbe bastato - indovinate un po' - non cercare di spiegare tutto a tutti i costi, ma lasciare più vaghe le dinamiche: ne avrebbe giovato la trovata narrativa principale, quella sì arguta, efficace in sé e per sé.

 

 

[Lindsay e l'angelo di neve nel Black Christmas del 2019]

Black Christmas

 

Le chiamate oscene si sono qui trasformate in messaggi provenienti dal fondatore dell'Hawthorne College (all'epoca membro della Delta Kappa Omicron), che sembra perseguitare le ragazze del campus.

 

In particolare seguiamo le peripezie della Mu Kappa Epsilon (in ogni film hanno cambiato le confraternite: dopo averli visti tutti e tre di seguito, vedevo lettere greche in ogni dove).

 

La Final Girl (non esattamente, ci torniamo) di questo film è Riley Stone (Imogen Poots): eccoci di nuovo nel dominio dell'androginia onomastica, in linea con la tradizione slasher della victim-hero.

Veniamo presto a conoscenza del fatto che Riley è stata violentata da Brian, un membro della Delta Kappa, e che la sua denuncia non è stata presa sul serio dalle autorità.

 

Impossibile non pensare a Una donna promettente (Emerald Fennel, 2020): la "naturale" conseguenza sarà la presa in carico in prima persona della propria difesa e dell'imporsi della giustizia che, in una finzione che ricalca la poca speranza e fiducia delle "vie ufficiali", sembra potersi attuare solo attraverso l'inflizione autonoma della punizione.

 

Con il film vincitore dell'Oscar 2021 per la Migliore Sceneggiatura Originale Black Christmas ha in comune l'intento di usare il particolare per criticare una società intera.

E cerca di farlo grazie a una buona idea di sceneggiatura, per cui il killer che si nasconde dietro l'avatar del fondatore Hawthorne non è uno, ma tanti: i membri della Delta Kappa, al loro ingresso nella confraternita, sono stati trasformati in un esercito di maschi alfa programmati per sterminare il genere femminile.

 

Ancora più intelligente è l'idea di narrativizzare la cultura dello stupro sotto forma delle regole e delle ritualità secolari del sistema delle confraternite, in cui sembra che la tradizione, solo per il fatto di essere tradizione, vada preservata, custodita, rispettata.

 

Se il film si fosse fermato qui, con un hint indefinito di soprannaturale, il messaggio sarebbe stato chiarissimo, anche grazie alla reazione delle ragazze: costituitesi in vero e proprio plotone a loro volta (meno l'ottusità apatica dei ragazzi), le donne si rivoltano riappropriandosi della violenza che la cultura dello stupro avalla nei loro confronti, legittimando, per contro, l'espressione feroce della rabbia femminile.

 

Dobbiamo invece sorbirci il ridondante discorso malato del capo della sett-ehm-confraternita, pensando: okay, ma non ce n'era veramente bisogno.

 

 

[Un'immagine promozionale con Kris, Riley, Marty e Jesse pronte all'azione. Ormai lo sapete meglio di me: i quattro personaggi femminili principali del Black Christmas 2019 hanno tutti dei nomi di genere ambiguo]

Black Christmas

 

Riley non sarà sola alla fine del film, ma parte di un Final Group of Girls che assumerà la funzione del male savior della tradizione dello slasher.

 

La traiettoria narrativa di Riley diventa quella della riemersione dal trauma, che può sì essere accostata al rialzarsi della Final Girl, al suo passare da una posizione passiva femminile a una attiva maschile.

Ma ancora meglio, e forse più narrativamente centrato, è l'analogia con la vendetta della protagonista del rape and revenge, anche e soprattutto per il tema della rabbia; ma è un argomento così delicato e ampio che sarebbe da approfondire a dovere (chi lo sa, magari nelle prossime puntate).

 

Il personaggio di Landon, che da un certo momento sembra un possibile interesse amoroso di Riley, facilmente richiama alla mente il personaggio di Ryan di Una donna promettente: il classico bravo ragazzo che sembra diverso dagli altri, ma che si rivela imbevuto dei peggiori rertaggi patriarcali.

Viene invece utilizzato per mostrare che sì, not all men: ci si può distaccare, si può essere migliori, ma ciò richiede polso, forza d'animo, volontà (le stesse cose che richiede alle donne, come dimostrato dal personaggio di Helena), qui drammaturgicamente rappresentate dal liberarsi da una sorta di possessione soprannaturale.

 

Come accennato, ci sono alcuni snodi narrativi che, tenuto in conto il manifesto e urlato intento, lasciano a tratti agghiacciati e a bocca aperta, e non in senso positivo.

Il personaggio di Kris (Aleyse Shannon) incarna l'attivismo più attivo e bellicoso (il che è assolutamente lecito), ma nel rappresentarla si è commesso a mio avviso un errore abbastanza grave, che solo in parte viene problematizzato all'interno del film stesso.

Kris vuole infatti imporre agli altri le sue modalità di rivendicazione, avendo spesso e volentieri la meglio grazie alla sua personalità rumorosa, strabordante.

 

Ciò che più infastidisce (per usare un eufemismo) è che vuole dettare a Riley i tempi e le modalità con cui superare il suo trauma, costringendola, con toni ricattatori, a fare ciò che lei ritiene più corretto.

 

Una delle scene più famose e catartiche di questo Black Christmas è quella in cui le ragazze partecipano a un talent show alla Delta Kappa, quando vestite in succinti abiti natalizi cantando una tagliente versione di Up on the Housetop che denuncia gli abusi dei ragazzi della confraternita (e più in generale della cultura dello stupro), Up in the Frat House.

Sarebbe tutto molto bello, tutto molto empowering, con le ragazze che rivendicano la loro sessualità condannando pubblicamente i soprusi maschili, non fosse che Riley viene letteralmente costretta da Kris ad esibirsi.

Sapendo che Brian, il suo stupratore, è presente in quella stanza.

Sapendo che Riley non ha ancora fatto i conti con il trauma, di cui lei e solo lei è libera di gestire il superamento.

 

Sono tanti gli spunti che questo Black Christmas (ormai totalmente un'altra cosa rispetto al film originale) fornisce, ma come abbiamo visto pecca spesso di eccesso, di sfrontatezza semplificatoria, se non di cieca ingenuità.

 

Ma se non altro, il terreno di riflessioni che apre il film di Takal è vasto e profondo, e nel Cinema horror questo aspetto è quasi sempre valido e fonte di grande stimolo.

 

 

[Kris (Aleyse Shannon) alle prese con un membro della Delta Kappa durante la battaglia finale nel Black Christmas del 2019] 

Black Christmas

 

Per ora è tutto, ma chissà se tra qualche anno ci ritroveremo qui a disquisire su una terza versione del film di Bob Clark.

 

Ormai la via è stata spianata, e quella fiaba nera che nel 1974 aveva gettato i germogli dello slasher ha generato riproposizioni innovative che l'hanno stravolta, rimodellata, tradita.

 

Ma che hanno anche mantenuto vivo il ricordo di quel capolavoro di quasi cinquant'anni fa. 

 

[Articolo di Alessandra Vignocchi]

 

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