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Le otto montagne - Recensione: vette d’amicizia - Cannes 2022

Il film con Alessandro Borghi e Luca Marinelli in competizione per la Palma d’oro a Cannes 2022 è tratto da un romanzo di Paolo Cognetti 

Ho iniziato più volte la recensione de Le otto montagne, film di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch con protagonisti Luca Marinelli e Alessandro Borghi e ad ogni incipit, ad ogni focus analitico, è corrisposta la mia più totale insoddisfazione.

 

Per chi fa informazione cinematografica "festival" significa produzione rapida, quasi meccanica; nella coda infinita di film visti non si può esitare: si corre con ritmi da catena di montaggio per dar conto ai lettori di ciò che si è visto e di ciò che si spera arrivi nelle sale italiane nei mesi successivi.

 

Il risultato - logico e normale - di questa frenesia cinematografico-lavorativa è che la qualità standard del contenuto mediamente si abbassa, l’approfondimento ponderato non sempre è consentito.

 

Tutto ciò concettualmente entra in conflitto con lo scopo più essenziale: restituire al pubblico lo spirito delle produzioni audiovisive che si vanno ad analizzare. 

 

[Il trailer de Le otto montagne]

 

 

Le otto montagne, tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti, è un’opera molto densa di temi, simboli e significati; troppo carica ed emotivamente travolgente per liquidarla in pochi minuti di lavoro. 

 

Potrei ora scrivere della trama del film, che però è a mio avviso trascurabile in questa sede, forse addirittura dannosa, visto che il primo film co-diretto da Vandermeersch (già attrice e sceneggiatrice per Van Groeningen) è bene che si riveli direttamente agli occhi e all’animo dello spettatore. 

 

È sufficiente dire che Le otto montagne racconta di Pietro e Bruno, amici quasi fratelli (letteralmente), i cui sentieri si incrociano, si scambiano e poi si allontanano, fino alla fine del loro cammino comune nel mondo. 

E tanto basta. 

L’amicizia è quindi il primo perno del film; il secondo, altrettanto essenziale, è il setting delle vicende: la montagna.

 

Nello specifico le nostre Alpi, quel luogo sacro, mistico, dove il freddo pungente e il silenzio si uniscono per rendere più facile l’ascolto dei propri pensieri, dandoci così modo di ritrovare noi stessi.

 

Ne Le otto montagne l’idea del paesaggio montano non è un’immagine effimera o una cornice da cartolina da esibire sul telo bianco per il godimento dello spettatore. 

 

 

[Prima di "diventare" Luca Marinelli e Alessandro Borghi, Pietro e Bruno de Le otto montagne sono interpretati dai giovani Lupo Barbiero e Andrea Palma]

 

 

Le vette sono il rifugio, la pace, la lontananza dai ritmi mortiferi e insulsi della città, mostruosità artificiale, meccanica e sporca partorita dalla mente dell’essere umano.

 

Ovviamente non è tutto oro quel che luccica: il film mostra molto chiaramente l’altra faccia della montagna, figlia del concetto di natura (“matrigna”, aggiungerebbero Giacomo Leopardi o Werner Herzog), quindi un luogo sì meraviglioso, ma anche dominato da pericoli e potenzialmente ostile. 

 

In accordo con le stagioni della vita dell’uomo la montagna elargisce l’estate che fiorisce e accoglie, ma alla quale si alterna l’inverno che congela la vita e traccia crepe profonde nell’animo dell’essere umano. 

Van Groeningen ha abituato il pubblico a considerazioni esistenziali e contrasti potenti - come quello tra scienza e religione rappresentato in Alabama Monroe - a volte esasperati ed emotivamente esasperanti, come nel frammentario e carico Beautiful Boy.

 

Le otto montagne ci consegna la stessa profondità di ragionamento che scava, graffiando, nell’animo dello spettatore, proponendogli una serie di pensieri - tristi e gioiosi - che si muovono attorno a complicati rapporti padre/figlio, all’amicizia, all’amore e ai motivi della presenza di ciascuno di noi in questo vasto e altissimo mondo. 

 

Dal punto di vista tecnico ed estetico Le otto montagne - in corsa per la Palma d’oro - gode di una cura certosina e spunti creativi di grande livello: penso alla fotografia del solito Ruben Impens (collaboratore abituale di Van Groeningen) che incornicia splendidamente le montagne in formato 4:3, un 1,33:1 utile ad esaltarne la verticalità; discorso similare per le musiche di Daniel Norgren, spesso ancestrali, baritonali e semi-minacciose, quasi a sottolineare la maestosità dei monti e il pericolo della vita selvaggia, pura ed essenziale dei montanari. 

 

Luca Marinelli e Alessandro Borghi (grandi amici anche fuori dal set), affiatati e abili nel modellare i caratteri dei loro personaggi - dissimili eppur similari - con le loro performance confermano per l’ennesima volta di essere due dei più fulgidi talenti del nostro Cinema e ormai giustamente proiettati anche verso realtà produttive estere.

 

 

[Alessandro Borghi e Luca Marinelli ne Le otto montagne confermano la loro incredibile chimica sullo schermo]

 

 

Se dovessi fare una predizione penso che il pubblico non digerirà completamente Le otto montagne, i suoi tempi dilatati e le tante immagini estatiche che mostrano il falco che volteggia e ci fanno sentire sulla faccia il vento tagliente presente in quota. 

 

In tal senso gli sbuffi, i grugniti da sonno e lo scarno applauso di circostanza del pubblico della Sala Debussy a Cannes sono stati indicatori emblematici.

Anche parte della stampa italiana di settore, che spesso malcela la propria insofferenza nei confronti di afflati contemplativi di malickiana memoria, credo potrebbe riservare una tiepida accoglienza al primo lavoro congiunto di Van Groeningen e Vandermeersch. 

 

La speranza è ovviamente quella di sbagliarmi, perché - per quanto mi riguarda - ne Le otto montagne si respira l’aria del grande Cinema e delle amicizie immortali, si odono gli echi di Johann Wolfgang von Goethe, Dino Buzzati, Reihnold Messner e di tutti coloro che hanno amato (o amano ancora) la potenza inamovibile e il maestoso splendore di una vetta innevata. 

 

“Quando uomini e montagne si incontrano, grandi cose accadono”

William Blake

 

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