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La stanza del figlio: il Cinema del dolore al suo apice

Il film di Nanni Moretti sul lutto e le sue conseguenze che vinse la Palma d'oro al Festival di Cannes 2001

Correva l’anno 2001 quando il nostro Nanni Moretti presentò in concorso al Festival del Cinema di Cannes il suo ultimo film: La stanza del figlio.

 

Per chi conosce bene Moretti è superfluo ricordare come La stanza del figlio sia generalmente ritenuto uno spartiacque all’interno della sua filmografia. 

 

[La stanza del figlio annunciato da Liv Ullman come vincitore della Palma d'oro a Cannes 2001]

 

 

Per chi non lo conoscesse bene è invece giusto sottolineare come nella prima parte della sua carriera il cineasta romano ha confezionato pellicole surreali e intrise di nevrosi (Ecce Bombo e Bianca ne sono degli ottimi esempi), per poi dedicarsi negli anni ‘90 a opere dal tono autobiografico e politico (fra le quali spiccano indubbiamente Caro Diario e Aprile).

 

Nel 2001 La stanza del figlio segnò per Moretti un netto cambio di registro.

Accantonando le note tematiche trattate in precedenza, il film illustra l’odissea di una famiglia borghese colpita da un grave lutto.

 

Giovanni (interpretato da Moretti in persona) e Paola (Laura Morante) sono felicemente sposati: lui è psicoanalista e lei gestisce una casa editrice.

La coppia ha due figli adolescenti: Irene (Jasmine Trinca) e Andrea (Giuseppe Sanfelice).

Un giorno, la tragedia: Andrea perde la vita durante un’immersione subacquea, la famiglia perde l’equilibrio e la serenità.

 

La morte del ragazzo è un evento traumatico per Giovanni, Paola e Irene, che - ciascuno a modo proprio - affronteranno uno strazio inenarrabile.

 

 

[La famiglia protagonista de La stanza del figlio in un momento di quiete]

 

Proprio questo strazio e le sue conseguenze sono l’argomento basilare de La stanza del figlio. 

 

La pellicola racconta l’elaborazione del lutto in maniera cruda, senza enfasi alcuna.

Non c’è alcun bisogno di drammatizzare, basta semplicemente raccontare con le immagini. 

Immagini forti, icastiche: si pensi alla scena che mostra la chiusura della bara del ragazzo, in cui la cinepresa indugia sui dettagli: la fiamma ossidrica che sigilla il cofano di zinco, le viti che che chiudono definitivamente il coperchio.

 

Attimi interminabili; il rumore di queste tristi operazioni stride col silenzio di Giovanni e Irene, impotenti e immobili nella loro composta sofferenza. 

 

 

[L'addio definitivo ad Andrea]

 

 

Anche la recitazione dei protagonisti è spontanea: si grida a letto, si piange nei camerini di un negozio, ci si lascia andare anche ad esplosioni di violenza, eppure non c’è nulla di artificioso, tutto sembra incredibilmente reale.

 

Merito degli interpreti: ne La stanza del figlio Laura Morante regala una delle migliori interpretazioni della sua carriera, giustamente premiata col David di Donatello, e anche Jasmine Trinca (all’epoca esordiente) fu ampiamente elogiata dai critici.

 

Parlando del cast riunito in questa occasione, La stanza del figlio annovera in ruoli secondari diversi attori che hanno scritto importanti pagine del Cinema italiano contemporaneo.

 

Fra i pazienti di Giovanni figurano Silvio Orlando (che, come Morante, aveva già lavorato con Moretti) e Stefano Accorsi; quest’ultimo ebbe nel 2001 il suo annus mirabilis, considerando anche la sua partecipazione a L’ultimo bacio (per la regia di Gabriele Muccino) e Le fati ignoranti (diretto da Ferzan Ozpetek), tutti film che contribuirono alla sua consacrazione.

 

Nella parte del commesso di un negozio che vende articoli subacquei, dove Giovanni si reca per chiedere informazioni sull’attrezzatura che potrebbe - a suo dire - aver tradito Andrea, c’è invece Claudio Santamaria, futuro supereroe in Lo chiamavano Jeeg Robot (di Gabriele Mainetti, del quale attendiamo con impazienza Freaks Out, sua opera seconda).

 

 

[Nanni Moretti e Silvio Orlando in una scena del film]

 

 

Ovviamente c’è poi Nanni Moretti: il suo personaggio è lontano parente dei suoi alter ego precedenti.

 

Solo nella prima parte del film potrebbe ricordare vagamente quel Michele Apicella che ha condotto il regista alla notorietà, citando la fantasia delle scarpe (da calcio, da ciclismo, da pallacanestro...), a cui Giovanni si lascia andare mentre ascolta una delle sue pazienti: chi ha visto Bianca ricorderà una riflessione sulle scarpe e sul loro significato nel finale di pellicola. 

 

Naturalmente a risentire della perdita del figlio non è solo la vita privata di Giovanni, ma anche quella professionale, con il dolore e il senso di colpa che lentamente divorano la sua razionalità.

 

 

[Scarpe, scarpe e ancora scarpe]

 

 

 

“Lei si sente sempre in colpa.

Sempre responsabile di quello che succede. Ma non tutto nella vita può essere determinato da noi.

Noi facciamo quello che possiamo fare”.

 

Proprio lui che dispensa saggi consigli a un campionario di variegata umanità in difficoltà non riesce ad aiutare se stesso nel momento del bisogno. 

 

Ma forse doveva andare così, Andrea doveva morire.

La sua assenza tuttavia è soltanto fisica, essendo costantemente nei pensieri e nei ricordi dei suoi familiari che faticano a lasciarlo andare.

 

La famiglia si disgrega dopo la sua scomparsa; una disgregazione che è simboleggiata anche dal momento dei pasti: ricorrenti sono le scene in cui i personaggi mangiano insieme, ma se inizialmente sono tutti riuniti intorno alla tavola da pranzo, a un certo punto si vedrà Giovanni cenare da solo, abbandonato dalla moglie e dalla figlia.

 

Eppure per loro non è finita: la vita continuerà, anche grazie all’incontro con Arianna (Sofia Vigliar), la fidanzatina segreta del giovane: tenendo fede al suo nome, incosapevolmente o meno, sembra essere lei a mostrare la via d’uscita ai protagonisti intrappolati nel labirinto del dolore.

 

 

["Here we are, stuck by this river..."]

 

 

Con una buona dose di insensibilità, si può rimanere impassibili di fronte alle sequenze devastanti che scorrono sullo schermo.

 

Dove non arrivano le immagini de La stanza del figlio, potrebbe essere la colonna sonora a sfondare la barriera emotiva dello spettatore. 

 

Non solo le musiche originali, composte da Nicola Piovani, il cui tema ricorrente commenta con una nota di malinconia le scene in cui è ascoltabile, ma anche - e soprattutto - le canzoni non originali: da Insieme a te non ci sto più di Caterina Caselli (e col senno di poi assume un significato vagamente sinistro) a By this river di Brian Eno che chiude il film, accompagnando i suoi protagonisti verso una vita tutta da scoprire.

 

La stanza del figlio (il titolo allude evidentemente alla difficoltà di entrare in quel luogo privato, dove tutto ricordano il caro estinto), vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes, superando la concorrenza di Mulholland Drive, eccezionale opera diretta da David Lynch, e altri film notevoli.

 

 

[I protagonisti de La stanza del figlio mentre intonano Insieme a te non ci sto più, scena ormai cult del Cinema italiano]

 

 

Una vittoria che fece storcere il naso a più di un appassionato, tuttavia non si può dire che non sia stata meritata: il film di Moretti dialoga con lo spettatore e lo pone di fronte a una realtà che prima o poi potrebbe purtroppo colpirlo, trattando il lutto con insuperato garbo e lucidità.

 

La stanza del figlio è un capolavoro del Cinema del dolore, da vedere almeno una volta nella vita. la stanza del figlio

 

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