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8 interpretazioni dimenticate di attori famosissimi

Scopriamo alcune interpretazioni passate in sordina di attori noti del Cinema italiano e internazionale!

La carriera di un attore non è esclusivamente costellata da giganti prove recitative all’interno di un contesto produttivo ricco e promettente.

 

Capita, molto più spesso di ciò che si pensa, che un attore di fama mondiale ricopra un ruolo di minore spessore, oppure che scelga di essere protagonista in un film destinato a rimanere nell’ombra.

 

A queste interpretazioni vale sempre la pena prestare attenzione: d’altronde è soprattutto l’indagine dell’ignoto che ci aiuta a inquadrare meglio un attore del Cinema e a comprendere maggiormente i motivi del suo clamoroso successo.

I casi da poter estrapolare in forma di esempio sono molteplici, sia in ambito italiano che internazionale.

 

Voliamo per un attimo a Hollywood e sfogliamo i fascicoli degli attori e delle attrici contemporanee più famosi e premiati di sempre: Jack Nicholson, Al Pacino, Dustin Hoffman, Meryl Streep, Tom Hanks, Robert De Niro, Natalie Portman, Daniel Day-Lewis, Cate Blanchett, Leonardo Dicaprio, Johnny Depp, Kate Winslet, Brad Pitt, Christian Bale.

 

Ognuno di loro ha nella lista delle proprie partecipazioni cinematografiche un numero più o meno consistente di produzioni dimenticate, pur avendo lasciato allo schermo interpretazioni degne di nota.

 

C’è Al Pacino che nel 1991, dopo essere già stato un Corleone, dopo aver tentato di combattere la corruzione nella polizia newyorkese in Serpico e dopo aver imbracciato un M16 nei panni di Tony Montana, è protagonista di una storia d’amore con Michelle Pfeiffer nel film Paura d’amare.

Una commedia non certamente sconosciuta che tuttavia tenta invano di recuperare l’irriverenza di Qualcosa è cambiato, sperando forse di raggiungere il medesimo successo e ottenere le stesse candidature agli Oscar e ai Golden Globe

 

Anche se il futuro del film non fu esattamente quello auspicato, ciò che rimane oggi è l’interpretazione insolita, tenera e sorprendentemente toccante di Pacino, perfettamente in sintonia con quella effervescente di Pfeiffer.

 

 

[In Paura d’amare è poi divertente osservare le interazioni tra la coppia Pacino-Pfeiffer, in riferimento alla loro esperienza di amanti cinematografici avvenuta circa dieci anni prima in Scarface]

 

 

Nel 1986 Mike Nichols riunì per la prima volta in un suo film, non esattamente uno dei suoi più celebri, due attori ormai ampiamente conosciuti: Meryl Streep, che aveva già dimostrato il suo talento in Kramer contro Kramer e La scelta di Sophie, e Jack Nicholson, già apparso nei ruoli più importanti della sua carriera. 

 

Heartburn - Affari di cuore, oltre a segnare il debutto cinematografico dell’allora ventisettenne Kevin Spacey, consacra la complicità della coppia Streep-Nicholson attraverso due prove recitative brillanti e spigliate.

 

Volendo poi avvicinarci ai tempi più recenti anche Joaquin Phoenix, ora sotto i riflettori grazie al Napoleon di Ridley Scott, è stato protagonista virtuoso in film non troppo discussi e chiacchierati. 

L’esempio caldo più insolito è probabilmente Don’t Worry, un film di Gus Van Sant presentato in anteprima al Sundance Film Festival e alla 68ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino.

 

Oltre ad essere una produzione di un regista affermato, distribuita peraltro da Amazon Studios e proiettata nel contesto di due dei festival cinematografici più importanti al mondo, Don’t Worry fu anche un progetto fortemente voluto da Robin Williams prima della sua morte e ispirato alla vita di John Callahan, vignettista satirico rimasto paralizzato a soli 22 anni a causa di un grave incidente automobilistico. 

Fu perciò un’operazione biografica che ebbe tutte le premesse per consegnare alla storia un’interpretazione da primo attore di rilievo, memorabile e clamorosa.

Eppure la prova di Phoenix non è riuscita a radicarsi nella memoria collettiva, nonostante il suo essere effettivamente un valore aggiunto al film di Van Sant. 

 

Un tentativo assolutamente riuscito di rappresentare lo sforzo comunicativo che un corpo paralizzato è costretto ad affrontare, attraverso un lavoro straordinario sulla mimica facciale, sul movimento degli occhi e sull’impostazione della voce.

 

[Anatomia di una scena di Don't Worry sull'utilizzo della sedia a rotelle elettrica da parte di Phoenix]

 

 

Anche il contesto italiano non sfugge a queste dinamiche e, anzi, è possibile più che mai ripescare nel passato un caleidoscopio di interpretazioni dimenticate di attori famosissimi o comunque destinati a divenire noti al grande pubblico.

 

A volte sono i veri e propri sodalizi artistici che producono esperimenti insoliti: quello tra Vittorio Gassman e Dino Risi per esempio ha fatto nascere alcuni dei più grandi capolavori del Cinema italiano come Il sorpasso, I mostri, Il tigre e Profumo di donna; tuttavia all’interno di questa collaborazione esiste, ed è ormai finito un po’ nel dimenticatoio, un film come Anima persa

Qui Gassman, diviso tra il controllo e la follia, si scompone e ricompone con una naturalezza fisica ineccepibile, confermando il suo statuto di straordinario attore teatrale e cinematografico.

 

Sarebbe impossibile citare ogni caso simile nella Storia del Cinema, perciò la redazione di CineFacts.it ha selezionato per voi 8 interpretazioni dimenticate o passate in sordina di attori estremamente famosi.

 

Quante altre ve ne vengono in mente?

 

[Introduzione a cura di Matilde Biagioni]

 

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Posizione 8

Anna Magnani in Correva l'anno di grazia 1870

di Alfredo Giannetti, 1972

 

Nel 1969 Anna Magnani accettò la proposta di interpretare quattro film per la televisione diretti da Alfredo Giannetti

 

Il progetto venne messo in piedi da Silvia D’Amico, figlia di Suso Cecchi e compagna del regista, allo scopo di realizzare un corpus di produzioni in grado di raccontare storie d'Italia attraverso personaggi femminili.

 

Correva l’anno di grazia 1870 fu l'unico film (gli altri tre furono riuniti in un ciclo sotto il titolo Tre donne) originariamente pensato per una destinazione cinematografica e i motivi sono intuibili a un primo sguardo: innanzitutto il film auspicava alla consacrazione di una coppia inedita di attori - Anna Magnani e Marcello Mastroianni - che, fino a quel momento, non avevano avuto ancora occasione di lavorare insieme.

Inoltre la scelta dei temi e dell'ambientazione risorgimentale sembrava puntare al successo di pubblico ottenuto l'anno precedente da Luigi Magni con Nell'anno del Signore, primo capitolo della trilogia sulla Roma papalina. 

In Correva l’anno di grazia 1870 infatti le vicende ruotano attorno alla breccia di Porta Pia, atto culminante del conflitto tra Stato italiano e potere papale, che sancì la conquista di Roma da parte del Regno d'Italia e la fine dello Stato Pontificio. 

Al momento della realizzazione del progetto Anna Magnani si trovava in un momento particolare della sua carriera: superati i cinquant'anni e già segnata dalla malattia, l'attrice dichiarava sempre più spesso di sentirsi estromessa da un Cinema non più in grado di offrirle parti su misura. 

 

Il film di Giannetti - e l'intero progetto - appare immediatamente come un'operazione simbolica dello statuto di classico in vita dell’attrice, della sua ingombrante presenza nel Cinema ma soprattutto della sua ufficiale entrata, nel bene e nel male, nell'insieme di immagini e simboli della cultura di massa. Nel film infatti, nonostante la presenza di Mastroianni, l'attrice è oggetto privilegiato dello sguardo della macchina da presa e la sua performance è puramente documentata, cioè è offerta allo spettatore senza troppe mediazioni.

 

Correva l’anno di grazia 1870 assume l'aspetto di un'accurata operazione di campionamento dell’attività dell’attrice, una sequenza di tòpoi e varianti in cui riecheggiano le sue più grandi interpretazioni. Il suo personaggio si definisce a partire dalla maternità, aspetto oltremodo ricorrente da Roma città aperta a Bellissima fino a L'onorevole Angelina, e rappresenta la consacrazione definitiva dell’immagine divistica di Anna Magnani. 

Il film dunque ha il merito di aver in qualche modo dipinto un ultimo, seppur poco conosciuto, ritratto di ciò che Anna Magnani è stata per il nostro Cinema.

 

Correva l’anno di grazia 1870, dopo una distribuzione nelle sale italiane, fu trasmesso per la prima volta sul Secondo Programma il 26 settembre 1973, la stessa sera in cui Anna Magnani morì.

 

Disponibile su Prime Video 

 

[a cura di Matilde Biagioni

 

Posizione 7

Marlon Brando e Jack Nicholson in Missouri

di Arthur Penn, 1976

 

Doppia interpretazione in questa posizione della Top 8 dato che parliamo di due attori straordinari: Jack Nicholson e Marlon Brando

 

Il film diretto da Arthur Penn si inserisce nel filone western, già caro al regista dopo l'esordio con Furia selvaggia - Billy Kid e il più noto Il piccolo grande uomo con Dustin Hoffman, ma ponendosi di lato rispetto al genere che aveva contraddistinto Hollywood nei decenni passati e che era stato rivoluzionato dagli spaghetti western di italica fattura. 

Penn è uno degli esponenti della New Hollywood e a mio avviso in Missouri quelle influenze si sentono tutte: nel selvaggio Montana del 1870 si incrociano i destini di due uomini, uno è un ladro di cavalli, l'altro è un cacciatore di taglie.  

Già da queste poche righe di sinossi risulta evidente come nel film non esistano eroi, ma solo antieroi; più che raccontare la frontiera e la conquista, Missouri mette in primo piano le dinamiche psicologiche dei due protagonisti a confronto, alimentandone il conflitto con una miscela di elementi drammatici e di black humor. 

 

Il film è oggi misconosciuto dal grande pubblico, nonostante sia l'unico nella Storia del Cinema dove recitano due vere leggende di Hollywood e della Settima Arte in toto, e quando uscì non ottenne grandi critiche né fece registrare grandi incassi; la cosa fu una sorpresa dato che Jack Nicholson arrivava lanciatissimo dopo l'Oscar vinto appena due mesi prima per Qualcuno volò sul nido del cuculo (alla sua quinta nomination in 7 anni) e Marlon Brando... beh, era Marlon Brando, in piena risalita dopo gli apici toccati negli anni '50 e il ritorno da gigante ne Il padrino e in Ultimo tango a Parigi

In Missouri Nicholson interpreta il suo personaggio con la nervatura del film stesso, donandogli un'aura di malvagità mista a umorismo, un criminale decadente conscio che la vita a cui è abituato sta per cambiare; per Brando invece c'è da aprire un discorso a parte. 

 

Come spesso succedeva l'attore scelse di improvvisare la maggior parte delle sue battute; la cosa si aggiunse a un personaggio di per sé interpretato in maniera che definire eccentrica è un eufemismo e un guardaroba molto fuori dagli schemi per un western. Proprio queste sue decisioni furono al centro delle critiche più feroci nei confronti del film, ma a mio avviso il suo Robert Lee Clayton è una delle cose più memorabili della pellicola: così inquietante e assurdo, originale e del tutto imprevedibile, mellifluo eppure esagerato. 

Senza un Lee Clayton di questo tipo non avremmo avuto il contraltare del Tom Logan di Jack Nicholson, che se sul set si trovava costretto a inseguire la performance del collega, nella finzione deve tenergli testa per non scomparire e il tutto dona a Missouri un fascino raro. 

 

Se siete fan di questi due Mostri della recitazione (ma come si può non esserlo?) il consiglio è di recuperare questo film, anche solo per poter assistere a cosa significhi infondere se stessi all'interno di un personaggio. 

 

Disponibile a noleggio su AppleTV e Amazon Store

 

[a cura di Teo Youssoufian]

 

Posizione 6

Daniel Day-Lewis in Fergus O' Connell - Dentista in Patagonia

di Carlos Sorín, 1989

 

Anche in una carriera leggendaria da tre Premi Oscar e soli venti film come quella di Daniel Day-Lewis può nascondersi un'interpretazione dimenticata.

 

A ben vedere più di una: quanti di voi si ricordano lo schivo ed eccentrico talento dell'attore britannico in film come Nanou di Conny Templeman o in Un gentleman a New York di Pat O'Connor?

Quasi nessuno, ne sono certo. 

 

Ma sono ancor più certo che difficilmente avrete anche solo sentito parlare di Fergus O' Connell - Dentista in Patagonia, film di produzione britannico-argentina a firma di Carlos Sorín: si tratta di una delle primissime prove da protagonista per Daniel Day-Lewis, girato nel periodo della sua massima prolificità sul grande schermo (la seconda metà degli anni '80), proprio a cavallo fra le due interpretazioni che lo avrebbero reso una star mondiale. 

 

Tra L'insostenibile leggerezza dell'essere di Philip Kaufman e Il mio piede sinistro di Jim Sheridan ecco dunque ergersi questa bizzarra interpretazione in un film sbilanciato e sognante, che però potrebbe meritare novanta minuti del vostro tempo.  

 

Il film, il cui titolo originale è un decisamente meno didascalico Eversmile, New Jersey, racconta la storia di un dentista statunitense di origini irlandesi che viaggia per la Patagonia in sella alla sua moto, su presunto mandato di una sedicente fondazione per la "coscienza dentale", che lo avrebbe incaricato di sensibilizzare alla prevenzione e alla consapevolezza sull'igiene orale le zone più remote del pianeta.

Il suo incontro con Estela, un'indigena interpretata curiosamente da Mirjana Joković - che diventerà nota al grande pubblico grazie a Underground di Emir Kusturica - innesca una serie di eventi sconclusionati e incontri improbabili, che li condurranno verso una nuova consapevolezza rispetto alle loro azioni in quella terra. 

 

L'interpretazione di Daniel Day-Lewis è tra le più caratterizzate dall'overacting della sua intera carriera: il tono generale dell'opera è talmente peculiare da portare tutte le interpretazioni ad adeguarsi a un registro sempre proteso verso il rischio dell'eccesso. 

 

La messa in scena di Sorín, capace di sfruttare la bellezza della Patagonia per impreziosire l'opera, e la complessiva follia dell'impianto narrativo forniscono ulteriori motivi di interesse per approcciare una pellicola ormai completamente surclassata dalla grandezza di tutte le interpretazioni successive del suo fenomenale protagonista.

 

Disponibile su Plex

 

[a cura di Jacopo Gramegna

 

Posizione 5

Tom Hanks ne Il falò delle vanità

di Brian De Palma, 1990    

 

Persino un attore da Oscar come Tom Hanks può dire di aver dato vita a delle interpretazioni che, per un motivo o per un altro, sono state dimenticate dal pubblico di tutto il mondo.

 

Una di queste è sicuramente il suo ruolo ne Il falò delle vanità del 1990, pellicola diretta da Brian De Palma basata sull’omonimo romanzo di Tom Wolfe

Il sottotitolo italiano del film recita “Una scandalosa storia di avidità, lussuria e vanità in America”, e questo è esattamente ciò che lo spettatore può aspettarsi di trovare: Il falò delle vanità è un’analisi sociologica critica e sentenziosa nei confronti di una società completamente soggiogata da successo, denaro e potere. 

 

Nel film Sherman McCoy (Tom Hanks) è un operatore di Wall Street che vedrà la sua vita completamente sconvolta quando, in macchina con la sua amante Maria Ruskin (Melanie Griffith), sbaglia strada ritrovandosi nel Bronx e venendo coinvolto in una rapina che diventa ben presto un investimento. La scelta di Sherman di non denunciare l’avvenimento vedrà succedersi una serie di eventi a catena che porteranno il caso ad essere gonfiato da più parti fino a diventare una vera e propria bandiera politica, trasformando il protagonista in un capro espiatorio dato in pasto alla stampa, distruggendo così la sua vita. 

Costato circa 47 milioni di dollari, Il falò delle vanità riuscì a guadagnarne solamente 15 negli USA, trasformandosi ben presto in un flop commerciale stroncato dalla critica del tempo, la quale ha sempre sostenuto che Tom Hanks non fosse adatto a ricoprire il ruolo di Sherman McCoy e non ne facesse mistero, portando sugli schermi un’interpretazione caratterizzata da disagio e difficoltà nel calarsi appieno nei panni del personaggio (stessa critica che fu rivolta a Bruce Willis nei panni di Peter Fallow). 

 

Curioso è il fatto che Tom Hanks stesso ritenga che Il falò delle vanità sia il film peggiore in cui abbia mai recitato, nonostante si stia parlando di un’opera diretta da Brian De Palma, un regista iconico nel mondo di Hollywood: 

“Tutti erano stati scelti male nel cast, compreso me. Brian De Palma si occupa di iconografia più che di Cinema. È una persona che non scende a compromessi, sia nel bene che nel male. Parliamo di colui che ha creato Scarface.”  

 

La verità è che, a prescindere da quella che fu l’opinione della critica, Il falò delle vanità si dimostra essere un’attuale e gradevole commedia sull’arrivismo e il cinismo, composta da un cast di notevole spicco - quanti di voi si ricordano la presenza di Morgan Freeman nei panni del giudice Leonard White in questo film? - con un giovane Tom Hanks che con la sua interpretazione riesce bene o male a mettere d’accordo tutti. 

 

Riuscendo a rendere omaggio a quella che è la grande stagione della commedia hollywoodiana, che lui sia d’accordo o meno.

 

Disponibile a noleggio su AppleTV, Rakuten TV e Google Play 

 

[a cura di Anna Arneodo]

 

Posizione 4

Willem Dafoe ne Lo spacciatore

di Paul Schrader, 1992 

 

Willem Dafoe è tra gli attori più popolari di Hollywood.

Solo negli ultimi tre anni ha lavorato con registi del calibro di Yorgos Lanthimos, Wes Anderson, Walter Hill, Robert Eggers, Guillermo del Toro, Abel Ferrara e Paul Schrader.

Dall’altra parte molti lo conoscono per il ruolo del Goblin, villain di Spider-Man.

 

Willem Dafoe si percepisce essere un attore versatile, abile a lavorare con qualsiasi tipo di genere e personaggio. 

 

Vedendo la sua sterminata filmografia - dove è possibile notare la quantità allucinante di grandi film a cui ha preso parte - c’è un ruolo per cui non è mai citato, quello di John LeTour ne Lo spacciatore di Paul Schrader.

Dafoe interpreta per l’appunto uno spacciatore - scelta infelice quella della distribuzione italiana per adattare il titolo originale Light Sleeper - che lungo le giornate riflette sulla propria vita, fino a quando incontrerà Marianne, una sua vecchia ragazza.

 

Il film rappresenta uno degli apici della carriera di Schrader, nonché summa della sua poetica esistenzialista.

L’amore per il Cinema di Robert Bresson traspare nella struttura della sceneggiatura, mentre il genere noir si adatta perfettamente all’anima chiaroscurale di LeTour. 

 

L’interpretazione di Dafoe, mai sopra le righe rispetto ai toni del film, nonché il suo volto scavato a tratti simbolo di sofferenza e a tratti di malignità, danno vita a un personaggio complesso, attanagliato dai peccati del passato e dai demoni del presente.

 

L’errare di LeTour lungo le strade di Manhattan restituisce il ritratto di un ambiente specchio del protagonista, le cui geometrie verticali dei palazzi evidenziano le aspirazioni di salvezza di LeTour verso l’alto, come se si trattasse di un figura cristologica in linea con L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese (sceneggiato da Paul Schrader), dove Willem Dafoe interpretava Gesù.

 

Quasi mai citato quando si parla di Schrader o Dafoe, Lo spacciatore potrebbe essere il simbolo della carriera artistica di entrambi, un film in cui peccato e redenzione dormono assieme, dando vita a sogni di morte e di speranza. 

 

Disponibile in home video

 

[a cura di Emanuele Antolini]     

 

Posizione 3

Saoirse Ronan in Espiazione

di Joe Wright, 2007

 

Briony Tallis (Saoirse Ronan) è un’adolescente curiosa che ama scrivere e la sua natura la porta ad osservare ciò che c’è attorno a sé lasciandosi guidare dall’istinto.

Sua sorella Cecilia Tallis (Keira Knightley) più grande di lei è, invece, rigida e severa, ancorata alla realtà e ai fatti.

 

Le prospettive delle due si scontreranno vorticosamente sino ad arrivare a un evento gravissimo che segnerà la vita di entrambe le sorelle Tallis, coinvolgendo altre persone della loro vita, in particolar modo il giovane figlio della governante Robbie Turner (James MacAvoy), innamorato e ricambiato dall’amore di Cecilia.

La pellicola di Joe Wright porta in scena il libro omonimo dell’acclamato scrittore Ian McEwan, un soggetto di per sé eccezionale dal quale partire, scegliendo in modo singolare e interessante il suo cast.

 

Tra le scelte forse non molti ricordano Saoirse Ronan, che interpreta la giovane Briony Tallis (le Briony “del futuro”, invece, saranno interpretate da Romola Garai e Vanessa Redgrave).

 

Questo ruolo secondario nel suo terzo lungometraggio - all’età di soli tredici anni proprio come la protagonista – consacrerà Saoirse Ronan, vedendola poi candidata a Migliore Attrice non Protagonista ai Premi Oscar 2008. 

 

Nonostante in Espiazione sia presente per poco meno della durata totale della pellicola, l’attrice affronta Briony, un personaggio complesso e sfaccettato, di non facilissima lettura, che si dedica alla scrittura, la sua passione, meticolosamente: la distingue l’attenzione che dedica alle cose importanti per sé, come il suo voler portare in scena alla perfezione, ad ogni costo, un’opera teatrale da lei prodotta, seppur rimarrà tra le mura di casa.

Saoirse Ronan, con la sua ottima espressività, riesce a centrare l’essenza della protagonista, destreggiandosi tra le espressioni più disparate in modo del tutto naturale.  

 

L’attrice, tra l’altro, rimane una delle preferite di Joe Wright e si rivede anche in Hanna, lavorerà prendendo parti diverse in pellicole accanto a grandi registi come Peter Jackson e Wes Anderson, fino a venire ricordata definitivamente per il suo ruolo in Lady Bird diretto da Greta Gerwig

 

Bonus nella pellicola è anche l’attore Benedict Cumberbatch - anch’egli dimenticato con un ruolo di pochissimi minuti - nei panni di Paul Marshall, un personaggio chiave per la risoluzione della vicenda. 

 

 Disponibile su Prime Video

 

 [a cura di Eris Celentano]

 

Posizione 2

Juliette Binoche in Camille Claudel 1915

di Bruno Dumont, 2013  

 

1943-45: per La conversa di Belfort e Perfidia, i suoi primi lungometraggi, Robert Bresson impiega attori professionisti.

1951: con Il diario di un curato di campagna, affidandosi solo a non-professionisti, supera invece radicalmente lo stesso concetto di attore a favore di quello di modello (invero assai complesso, non riducibile a quella biomeccanica di Vsevolod Mejerchol'd che ho analizzato in una ricognizione dei sistemi recitativi occidentali).

 

2013: con Camille Claudel 1915, suo settimo lungometraggio, Bruno Dumont sceglie la grande-attrice Juliette Binoche per interpretare la protagonista e rinnega apparentemente il magistero del tardo Bresson, quello s-Graziato di L'Argent che già - non senza altri numi tutelari, anch'essi peraltro caratterizzati da un uso connotato dei non-professionisti: Jean Epstein e Pier Paolo Pasolini su tutti - ne aveva informato l'inizio di carriera.

 

Il passo compiuto è tuttavia ben più stratificato, e riguarda la relazione tra impianto estetico (in senso ampio) e resa recitativa - non è affatto una questione tecnica - di Binoche.

 

A partire da una diegesi già caratterizzata dalla sofferenza, considerato come la scultrice Camille Claudel sia rinchiusa in un manicomio, Dumont fa suo quel rigore formale che affonda le proprie radici nel giansenismo del Bresson proteso verso la Grazia (da questo punto di vista, la frattura più profonda nella sua produzione è individuabile in Au hasard Balthazar: che poi un asino sia protagonista di un film dovrebbe, al di là di facili ironie o letture semplificanti, far riflettere sulla concezione bressoniana).

 

Binoche, però, non è il Martin LaSalle di Diario di un ladro, né può esserlo alla luce del suo status.

Ritorna il categorico rifiuto dello psicologismo tipico del Bresson più affine a Georges Bernanos; nondimeno, gli schemi gestuali di Binoche non rimandano ai modelli: applicando il concetto foucaultiano di disciplinamento al sistema di gestione corporea tanto di Bresson quanto del manicomio come istituzione condizionante, il corpo di Binoche è contrapposto a quelli (resi) irregolari delle altre internate, effettivamente malate.

 

La sua interpretazione naturalistica (il naturalismo è, appunto, un'interpretazione) installa in Camille Claudel 1915 una sorta di seconda regia, definendo - rispetto alla durezza di Dumont e all'oscillante irrequietezza delle compagne - una tonalità emotiva intermedia che, in effetti, rimette contemporaneamente in gioco ragione e follia, tutt'altro che naturali.

 

Senza poter isolare, come si diceva, impianto estetico e prova attoriale, la dolente Binoche apre il mondo-Camille nella sua insondabile profondità, una profondità che impone di sfrangiare qualsiasi essenzializzazione identitaria e, soprattutto, di continuare a guardare, di guardare ancora.

 

Disponibile in home video

 

[a cura di Mattia Gritti]

 

Posizione 1

Adam Driver in Hungry Hearts

di Saverio Costanzo, 2014

 

Hungry Hearts è il quarto film di Saverio Costanzo ispirato al romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso, un dramma familiare concitato ed inquieto. Si tratta di una trasferta americana con produzione tutta italiana. 

 

Adam Driver è Jude, un ingegnere statunitense, Alba Rohrwacher è Mina, ambasciatrice italiana: si incontrano in una toilette maleodorante di un ristorante cinese, in cui l'uomo si è rifugiato per un'improvvisa colite. L'incipit che può sembrare comico - e a tutti gli effetti strappa un sorriso - anticipa il tema cardine del film: l'orrorifico rapporto con il cibo, l'indigestione emotiva e fisica. 

 

Il loro amore brucia rapido, la passione li travolge: arriva una gravidanza indesiderata - che assicura a Jude la permanenza di Mina negli Stati Uniti - e un matrimonio improvvisato. Nasce un bambino di cui non viene mai citato il nome: è solo il bambino di Mina. La donna si rinchiude nell'incubo di una maternità non voluta e si estranea dal mondo esterno.

 

Nel microcosmo Mina-bambino viene escluso anche Jude; e insieme al padre viene esclusa anche l'impurità della carne.

La madre impone una dieta vegana a se stessa e al figlio, la cui saluta viene messa gravemente a repentaglio. 

 

Adam Driver anticipa la figura del padre e marito di Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, ma il film di Costanzo ha sfumature orrorifiche. Jude garantisce a Mina le mura in cui poter crescere il loro figlio ma l'appartamento è un claustrofobico teatro di orrori e ossessioni di polaskiana memoria. L'immagine si distorce in grandangoli, i volti spesso non rientrano nelle inquadrature.

 

L'egoismo di Jude nel relegare Mina al ruolo materno con un vile atto di prevaricazione lascia il posto alla necessità di trovare una soluzione al destino del figlio. I ruoli di vittima e carnefice rimbalzano da padre a madre. 

 

Adam Driver restituisce una figura sfaccettata e ambigua con il talento che il pubblico ormai conosce bene: in Hungry hearts però siamo nel 2014, prima di Storia di un matrimonio, di Annette - anche qui è ancora un padre - di Paterson, di The Last Duel, di BlacKkKlansman, di Silence, di Rumore bianco, di Ferrari, persino prima di vestire i panni di Ben Solo nella saga di Star Wars

 

Un talento già anticipato che gli è valsa la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile - la femminile andrà proprio ad Alba Rohrwacher - nel 2014 alla Mostra del Cinema di Venezia

 

Disponibile su Rai Play

 

[a cura di Lorenza Guerra]

 



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1 commento

Terry Miller

4 mesi fa

La ragazza di Espiazione era Saoirse Ronan? Devo rivedere il film

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