#Goodnight&Goodluck
Buonanotte amici della notte.
A quanto pare, esistono alcune norme che un buon articolista dovrebbe essere in grado di rispettare durante la scrittura di un articolo. Fra queste c’è la massima - essenziale - che indica come si dovrebbe evitare come la peste l’utilizzo di riferimenti cronologici che esulino dai contenuti proposti nel testo.
E già in questo sono un fenomeno.
In secondo luogo, se si parla di cinema, bisognerebbe essere in grado di offrire qualche spunto di riflessione a chi legge e, soprattutto, poter indicare chiaramente se il film di cui si sta parlando sia meritevole di una visione. Se poi si è persino capaci di spiegare i pro e i contro a supporto del suggerimento, allora ci si può addirittura considerare dei novelli Roger Ebert.
Ecco, io a Ebert posso giusto lucidare le scarpe.
Anche se stanno tre metri sotto terra.
Il film di cui vorrei parlare questa notte (vedi primo paragrafo, ndr) mi ha lasciato stranito, sospeso tra una sensazione di soddisfazione e una serie di dubbi atavici.
Proprio per questo motivo, miei cari 25 lettori, quella che state leggendo è a tutti gli effetti la disperata richiesta di un vostro parere, di un’impressione (anche estemporanea) su My son, my son, what have ye done.
O, quantomeno, l’invito a tornare per quattro chiacchiere se deciderete di vedere il film.
Hank Havenhurst (Willem Dafoe), bizzarro detective della omicidi di San Diego, si ritrova sulla scena del crimine in un quartiere residenziale della città californiana. Stando ai testimoni oculari, la donna assassinata è stata trafitta con una sciabola dal proprio figlio che, dopo il gesto ferale, si è pacatamente asserragliato in casa sua con una coppia di ostaggi.
[Willem Dafoe: se c'è della follia in giro, è molto probabile che lui sia nei paraggi]
Nell’attesa dell’intervento della SWAT e durante le negoziazioni, attraverso le testimonianze fornite al poliziotto dalla fidanzata del ragazzo (Chloë Sevigny) e dal suo insegnante di recitazione (Udo Kier), lo spettatore ripercorrerà gli ultimi mesi di Brad McCullum (Michael Shannon) prima della sua mutazione in matricida.
Ispirato a un fatto di cronaca reale, il film racconta la storia di un ragazzo pacato e tranquillo che, in seguito a un misterioso evento scatenante, comincia lentamente a inabissarsi nella follia, fino all’epilogo mostrato all’inizio della narrazione.
Recatosi in Perù insieme a un gruppo di amici per una discesa in kayak lungo il fiume, al momento del cimento Brad rifiuta di prendere parte all’avventura, adducendo come motivazione il fatto di essere stato illuminato dall’onnipotente.
Affrontare le rapide non è decisamente un’attività utile alla gloria del Signore e quindi se ne asterrà.
Ovviamente i suoi compagni (era scritto nella pietra) muoiono dal primo all’ultimo.
Le riprese della foresta e delle montagne peruviane, dotate di una carica evocativa vicina a quella di Fitzcarraldo e Aguirre, non sono che il preludio alla pazzia. Rientrato in America, il ragazzo incomincerà a dare pesanti segni di squilibrio, terrorizzando la propria fidanzata e le persone che lo circondano.
Nel mentre, Brad incomincerà a frequentare un gruppo di teatro che sta preparando la rappresentazione dell’Elettra di Sofocle, dimostrando un grande talento nonostante i suoi - ormai evidenti - segni di squilibrio mentale.
Follia e genio... caratteristiche degne di un certo Klaus Kinski, a onor del vero.
[Grace Zabrinskie, Michael Shannon e Chlöe Sevigny: un tranquillo quadretto familiare]
Credo che la chiave di lettura migliore per interpretare My son, my son, what have ye done possa essere la “prospettiva del diverso” che, a mio avviso, viene rincorsa ossessivamente in molti aspetti del film. La commistione degli elementi della pellicola sembra infatti orientata allo scopo di destabilizzare lo spettatore, catapultandolo in una realtà costruita su avvenimenti e dinamiche che sfuggano alla sua comprensione, connettendolo empaticamente con la condizione del giovane Brad, sempre più tagliato fuori da un mondo per lui ostile e criptico.
Come raggiungere questo risultato?
Semplice: attraverso l’utilizzo di dialoghi e azioni al limite dello stilizzato, talmente “fuori posto” da ricordare le risate in de-sincrono sulle "non-battute" di conigli protagonisti di improbabili sit-com.
[Rabbits: conigli e ansia a carrettate]
Ci sono le sequenze che, nella loro messa in scena grottesca, risultano essere sempre sul confine fra orrorifico e angosciante.
C’è il rapporto morboso fra madre e figlio (che porta Brad a trasfigurarsi nell’Oreste omicida della tragedia sofoclea), ralenti inaspettati utili a mostrare quadri di una bellezza visiva disarmante, fenicotteri domestici e nani (sì, ci sono pure i nani).
[Ehi tu! Lo vuoi un nano?]
Inoltre, Michael Shannon - con quella faccia da psicopatico che si ritrova - nel ruolo del matto è semplicemente perfetto (un ruolo similare gli verrà poi riproposto nel 2011 in Take Shelter).
L’insieme di questi fattori bizzarri, di fatto, rendono il film un potpourri di visioni e percezioni costantemente il lotta fra l’armonico e il caos.
Impensabile non spendere due parole sulla colonna sonora - tra il noise e l'armonico - composta prevalentemente da archi profondi e sghembi, assolutamente funzionali alla sensazione di smarrimento che viene somministrata energicamente allo spettatore.
Nel finale c’è anche un accenno di quella "poesia amara" tanto cara al regista, il quale (di fatto, raccontando se stesso) ci mostra lo spirito semi-voyeuristico di chi fa cinema e le circostanze che spingono autori di tutto il mondo a imprimere su pellicola i dettagli della realtà che li circonda.
Dettagli apparentemente insignificanti, ma in realtà carichi di significato.
Come la sottile magia che avvolge il pallone da basket lasciato da Brad fra i rami di un alberello secco, nella speranza che un bimbo passi di lì per raccoglierlo.
In My son, my son, what have ye done ho percepito il desiderio di ripercorrere i propri trascorsi cinematografici, la propria filmografia e, al contempo, la voglia di omaggiare una figura monumentale del cinema internazionale attraverso una serie di richiami e omaggi più o meno velati.
Ma queste sono solo una serie di congetture. Elucubrazioni mentali, probabilmente.
Mi rivolgo quindi a voi perché possiate dirmi la vostra su questo ostico, bizzarro e curiosissimo film, pieno di simbolismi, analogie e richiami (meta)cinematografici.
- My son, my son, what have ye done, 2009
Paolo Mereghetti, nel suo Dizionario del Cinema definisce il film “sottovalutato e spesso incompreso”.
Leggendo qualche recensione qua e là, non posso che essere d’accordo con il Paolone nazionale.
‘notte, menti che cancellano
ps: ah, tornando al ragionamento iniziale: sono sicuro che nel breviario del buon articolista esista anche una voce che suggerisce di “vendere” al meglio il proprio materiale sfruttando strategie di marketing vincenti.
Come, ad esempio, mettere bene in evidenza nel caso si scriva di un film diretto da Werner Herzog e prodotto da David Lynch
Sempre detto che dovevo fare il fruttarolo…
3 commenti
Fabrizio Cassandro
4 anni fa
Più che altro mi affascina come ogni scelta - talvolta anche diversissime tre loro - funzioni nel suo intento, ma dall'altra la dicotomia tra il mondo (noi inclusi) e Brad che Herzog cerca costantemente di costruire ogni tanto risulta un pochino "respingente".
È il classico "non è roba mia, ma lo apprezzo".
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Adriano Meis
4 anni fa
Ma quindi ti è piaciuto?
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Adriano Meis
6 anni fa
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