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Nomadland - Recensione: La terra dei dismessi

La recensione dell'ultimo lungometraggio di Chloé Zhao vincitore dell'Oscar 2021 come Miglior Film 

Spine di cactus, nuvole rapide, pioggia sui finestrini.

 

Negli Stati Uniti squassati dalla nuova Grande Recessione si muovono uomini e donne senza scopo, senza futuro, senza dimora.


Sono le generazioni degli ultracinquantenni che hanno perso il lavoro, riducendosi così a esseri ibridi, inclassificabili, inutili per una società che non può e non vuole prendersi cura di loro dandogli un mestiere e un reddito con cui sopravvivere.

 

Il crack del 2008 innescato da Lehman Brothers ha portato via loro ogni cosa, trasformandoli negli uomini e le donne dei Van, delle roulotte e dei camper. I nuovi nomadi delle badlands di malickiana memoria, costantemente in viaggio lungo il Paese, fra un lavoretto miserabile e una nottata passata all’addiaccio sotto le stelle.

 

 Nomadland. Nomadland.

 

Tra di loro c’è anche Fern (Frances McDormand), ex abitante della “cittadina industriale” di Empire, in Nevada, dove ha vissuto fino alla chiusura della fabbrica che dava lavoro a centinaia di persone e, di conseguenza, alla dismissione completa del centro abitato.

 

Una donna orgogliosa e pratica, lavoratrice instancabile e vedova che rifiuta qualsiasi tipo di aiuto le venga proposto da amici o sconosciuti; la sua condizione è per lei qualcosa di cui vergognarsi, un peso per le sue sole spalle, senza eccezione alcuna.

“I’m houseless, not homeless”

[Sono senza casa, non una senzatetto]Nomadland.

 

La sua “colpa” non è legata al colore della pelle o al suo credo religioso, bensì all’età e alla sua supposta inutilità produttiva.

Nonostante sia stata cassiera, impiegata, persino insegnante, il suo CV non ha più valore: esattamente come tutti gli altri nomadi Fern è inutilizzabile.

È un numero, un’entità - neppure umana - da dismettere al pari di un macchinario arrugginito.

 

Frances McDormand - magra, sciupata e dimessa - dopo performance indimenticabili come quelle di Fargo o Tre manifesti a Ebbing, Missouri, ancora una volta riesce nell'intento di donare al suo personaggio un’intensità eccezionale.

Il volto stanco di Fern - segnato da una vita di fatiche - e i suoi modi schietti trasmettono con grande efficacia la sensazione di inadeguatezza che il personaggio patisce.

 

La macchina da presa della regista Chloé Zhao insiste sui suoi lineamenti, ne racconta la disillusione, la rassegnazione, i dubbi.

 

L'attrice americana, moglie di Joel Coen, per il suo ruolo in Nomadland si è così conquistata il Premio Oscar come Migliore Attrice Protagonista, la sua terza statuetta in carriera.

 

 

 

Nomadland.

Fern è vittima di una delle discriminazioni più sottili, vigliacche e invisibili della nostra società: quella legata al lavoro, o per meglio dire, al "non lavoro".

 

Quell’odioso "sistema delle macchine" guidato da governi guerrafondai e imprese socialmente insensibili denunciato da Mario Savio nel suo celebre discorso del 1964 davanti all’Università di Berkeley.

 

Lo stesso meccanismo marcio, corrotto (e discriminatorio) contro il quale si schierarono nel 1967 le Black Panther di Fred Hampton raccontate nell’eccezionale Judas and the Black Messiah di Shaka King, anch’esso candidato al Premio Oscar 2021 come Miglior Film.

 

[Il trailer italiano di Nomadland]

 

 

Praterie innevate, tramonti rossastri, cittadine fantasma.

 Nomadland.

Le peregrinazioni di Fern diventano l’occasione per incontrare altri miserabili come lei, arrivando anche a partecipare ai raduni nel deserto di Bob Wells, santone della VanLife, filosofia di vita che anima i “nuovi nomadi” su ruote, vittime del capitalismo moderno.

 

Il terzo lungometraggio di Chloé Zhao - vincitore del Leone d’Oro a Venezia e del Premio Oscar come Miglior Film e Miglior Regia - non si balocca con una fotografia struggente funzionale a un dramma strappalacrime, ma racconta invece storie di emarginati attraverso silenzi pieni di dignità e quadri mozzafiato.

 

 

Nomadland.

 

Con Nomadland l’autrice cinese è riuscita a mettere in mostra un talento genuino e completo: oltre alla regia è sua anche la sceneggiatura - basata sul libro della giornalista Jessica Bruder Nomadland - Un racconto d'inchiesta - così come il montaggio.

 

Il lavoro del direttore della fotografia Joshua James Richards (collaboratore abituale della regista) è eccezionale nel suo preziosismo non esasperato, che si esprime con decoro ed eleganza per mezzo di (quasi) tutto il campionario prospettico disponibile: dai campi lunghi a quelli totali, dai dettagli ai primi e primissimi piani.

La ricerca per immagini, attuata attraverso una color palette costruita su toni spenti - fra il blu, l’azzurro e il grigio - si anima con le luci rosa-rossastre dei tramonti e delle albe del deserto incontaminato.

 

La bontà del risultato visivo finale è testimoniata dalla candidatura al Premio Oscar ottenuta dal DoP britannico.

 

Impossibile non citare le splendide musiche del Maestro Ludovico Einaudi, protagonista anche della soundtrack di un altro cavallo di razza come The Father, con un miracoloso Anthony Hopkins, vincitore del premio Oscar come Miglior Attore Protagonista.

 

 

Catene di montaggio, tunnel di pietra, strade infinite.

 

La denuncia sociale di Nomadland è lieve, non gridata, ma non per questo meno lancinante.

 

Oltre alle confessioni, alle storie orribili e bellissime dei nomadi che si alternano sullo schermo, a protestare contro un sistema rotto, fondato sulla disuguaglianza, ci sono i silenzi, i drammi personali inesorabili, i volti di uomini e donne abbandonati dalla società come complessi industriali in disuso destinati a diventare muti ruderi.

 

 

 Nomadland.

 

C’è l’impossibilità di Fern di aiutare il prossimo nonostante sia un animo gentile.

 

Il massimo che possa fare è regalare una sigaretta e una parola gentile a uno sconosciuto o ascoltare la storia di vita di una nonnina con una data di scadenza rapida.

 

Perché negli Stati Uniti degli umani dismessi non esiste la carità, c’è appena lo spazio per il mutuo soccorso e il baratto.

Nella terra dei nomadi il conforto umano è un momento transitorio e fugace come il fuoco del bivacco: un calore che sparisce per lasciare spazio al familiare gelo di lamiere su gomma apparecchiate a mo’ di casa, pasti in barattolo e strade senza fine.

 

Sperando che chi abbiamo perso di vista, più o meno definitivamente, possa riunirsi ai propri cari in fondo al percorso.

 

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