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Il processo ai Chicago 7 - Recensione: l'eterna guerra civile americana

Recensione de Il processo ai Chicago 7 diretto da Aaron Sorkin

Il processo ai Chicago 7 è la conferma definitiva del talento e della bravura di Aaron Sorkin come sceneggiatore.

 

Dico questo non solo perché il film diretto dal regista di Molly’s Game è un prodotto che mostra tutte le sue qualità più nella scrittura che nella regia, ma anche perché la capacità di Sorkin nel saper prevedere l’involuzione del proprio Paese - penso anche a The Social Network - è assolutamente da celebrare.

 

Non è infatti un mistero che Il processo ai Chicago 7 sia un film che parla anche degli Stati Uniti di oggi: le proteste dell’agosto del ‘68 si collegano a quelle contro l’abuso di potere da parte della polizia nate dopo la morte di George Floyd, così come la divisione manichea tra repubblicani e democratici dell’aula del tribunale del film guarda da vicino l’assalto al Campidoglio americano dopo la vittoria di Joe Biden alle recenti elezioni per la presidenza USA.

 

[Il trailer internazionale de Il processo ai Chicago 7]

Il processo ai Chicago 7 

 

Il processo contro 7 attivisti - o meglio 8, se si considera Bobby Seale, un leader del Black Panther Party - considerati colpevoli delle rivolte sanguinose al centro dell'opera (“Se deve scorrere del sangue, che scorra in tutta la città”) diventa quindi il microcosmo dove Sorkin mostra tutte le incongruenze e problematiche della “democrazia più avanzata al mondo”. 

 

Attraverso un registro narrativo che si muove spesso tra il dramma hollywoodiano e la commedia, il regista tre volte vincitore del Golden Globe per la Miglior Sceneggiatura snoda il proprio film alternando immagini dell’aula di tribunale a quelle della protesta, contrapponendo abilmente la potenza delle parole a quella figurativa.

 

Una scelta funzionale e vincente in quanto, con la rappresentazione cruenta della lotta al Grand Park di Chicago, le frasi spesso pregne di retorica ma vincenti pronunciate dai sette “rivoluzionari” processati acquistano molto più significato, creando disgusto e indignazione nello spettatore.

 

In particolare quando a prendere parola è Abbie Hoffman - un grandissimo e molto in parte Sacha Baron Cohen - il film cambia atmosfera continuamente, passando da momenti che quasi ricordano uno spettacolo di stand-up comedy ad altri in cui la cultura di un hippie apparentemente buono a nulla riesce a smuovere l’animo del pubblico ministero Richard Schultz (Joseph Gordon Levitt), rivendicando dei diritti sani e infantili che però sembrano essere tutt’ora utopici.

 

 

[Sacha Baron Cohen ha ottenuto una candidatura come Migliore Attore non Protagonista per la sua interpretazione ne Il processo ai Chicago 7]

 

È nella scrittura dei propri personaggi infatti che Il processo ai Chicago 7 riesce a donare un aspetto corale e convincente a tutta la confezione del film.

 

Nella divisione netta dei posti dell’aula del tribunale Aaron Sorkin ci porta all’interno della politica e della spaccatura morale e ideologica degli Stati Uniti: da una parte abbiamo la sinistra in tutte le sue sfumature - che passa dai democratici puri ai pacifisti, fino ai rivoluzionari - dall’altra invece la destra, un gruppo pressoché compatto che nel solo Richard Schultz vede uno spiraglio di un pensiero meno conservatore.

 

Una rappresentazione che mostra tutte le crepe anche là dove non dovrebbero esserci, come è ben sottolineato da Tom Hayden (Eddie Redmayne), desideroso di un approccio cauto e spesso ipocrita a sfavore dei moti rivoluzionari ma pacifici dei due hippie Abbie e Jerry (Jeremy Strong).

 

 

[Una prova convincente quella di Eddie Redmayne ne Il processo ai Chicago 7]
Il processo ai Chicago 7

 

Una spaccatura tenuta saggiamente unita dall'avvocato William Kunstler - un sempre e impeccabile Mark Rylance - forse l’unica personalità a essere in grado di fronteggiare in modo saggio il vulcanico e razzista giudice Julius Hoffman (Frank Langella).  

 

“Tutto il mondo ci guarda”.

 

È così che Aaron Sorkin con Il processo ai Chicago 7 prende in prestito un episodio sanguinoso della storia degli Stati Uniti per mostrare la guerra civile americana che perdura dal 1776: un Paese che trova la sua unione solo nella retorica dei morti, in questo caso quelli della Guerra del Vietnam, ma che non possono far pensare alla prima pagina del New York Times sulle migliaia di vittime da COVID-19.

 

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