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Cape Fear - Recensione: Scorsese tra neo-noir e uomini votati al male

Cape Fear è forse una delle opere più interessanti degli anni '90 e di Martin Scorsese, ma cosa lo rende così affascinante?

Nel 1991 arriva sugli schermi Cape Fear - Il Promontorio della Paura, remake del film diretto nel 1962 da J. Lee Thompson e adattamento del romanzo di John D. MacDonald.

 

Cape Fear è riconosciuta come una delle opere più affascinanti del Cinema di Martin Scorsese e una delle interpretazioni più intriganti offerte da Robert De Niro.

 

[Trailer originale di Cape Fear]

 

 

La storia racconta la vendetta di Max Cady (Robert De Niro) che, dopo aver scontato 14 anni di carcere per per violenza carnale, decide di tormentare il suo ex-avvocato difensore Sam Bowden (Nick Nolte).

 

Una vendetta che naviga tra ossessione e violenza psicologica e una riflessione a margine sul sistema giudiziario statunitense e sulle idiosincrasie di una società che, ancora oggi, sta imparando a trovare i giusti mezzi per combattere la violenza sulle donne.

 

Cosa fa di Cape Fear un film così conturbante e incredibilmente moderno ancora oggi? 

 

 

[Cape Fear è entrato prepotente nell'immaginario collettivo e un "terzo" remake è stato fatto in un episodio de I Simpsons]

 

Di neo-noir e thriller psicologici e di registi che ne comprendono l’importanza del linguaggio   

 

Proprio mentre scrivo il mondo sta impazzendo con Mank, opera di David Fincher, per alcuni assoluta, universalmente ritenuta meritevole di aver trovato un'elegante maniera di raccontare le vicissitudini dietro la stesura della sceneggiatura di Quarto Potere.   

 

Fincher ha sfruttato ogni cellula della sua abilità di narratore per immagini, al fine di concepire un film girato come si dirigeva il cinema negli anni '40, come si è diretto da Quarto Potere in poi grazie a Orson Welles e come intende il Cinema David Fincher grazie alla sua unica maniera di rimanere incollato ai personaggi, inquadrando il loro muoversi nello spazio della scena e i loro dialoghi come pochi altri.   

 

Tutto in un unico flusso visivo la cui grazia nel trovare un unico tono è quasi commovente per quanto è bello.   

 

Martin Scorsese, come David Fincher oggi, sapeva già nel 1991 come trasportare un certo tipo di Cinema nel presente: si rende possibile solo ed esclusivamente insinuandosi sotto le trame del linguaggio, comprendendo la macchina che muove la costruzione del racconto per poi dare alla propria interpretazione un vestito nuovo.   

 

In tempi recenti lo ha fatto solo David Robert Mitchell con Under the Silver Lake, ma non è davvero arrivato alla critica e al pubblico non è stato nemmeno veicolato: un gran peccato.

 

 

 

 

Il Cape Fear del 1962 era quello che in seguito fu definito neo-noir, un genere rimescolato negli anni '80 da David Lynch e dal suo Velluto Blu, per essere poi trasformato dallo stesso, come da molti altri registi, attraverso altre forme e interpretazioni.   

 

Scorsese non è certo di meno e nella sua interpretazione di Cape Fear lavora insieme a Robert De Niro su Max Cady, la cui aura domina ogni segmento e ogni umore del film, ma prima di tutto - da un punto di vista del linguaggio visivo, pur girando un film degli anni '90 quindi molto più esplicito e oscuro rispetto all’originale - decide di tornare indietro nel tempo per ripescare parte del linguaggio desueto aderente al genere, per contaminarlo con altre idee di ritmo e regia.   

 

Se il neo-noir, come il noir, è generalmente sconclusionato e spesso etereo nel suo racconto, il film di Martin Scorsese è invece molto più centrato nello strutturare gli eventi, eppure come anticipato non è solo la regia a fare la differenza, quanto principalmente come il regista sceglie di girarla e metterla in scena.   

 

La regia di Cape Fear si avvale di molti zoom sui dettagli o sui primi piani degli attori e delle loro reazioni, utilizza insistentemente un sistema di musiche enfatiche tipiche del noir, impiega un montaggio incredibilmente serrato per saltare da una situazione all’altra, usa movimenti di camera a schiaffo, creando un insolito dinamismo che non appartiene a un genere che tende a fare di una stramba calma sinuosa il cuore della sua fascinazione verso il pubblico, creando mistero.   

 

 

[Il Cape Fear originale]

 

Il noir nel film di Scorsese non passa quindi nella creazione di un mistero, quanto piuttosto negli intenti espressi dal regista nell’ideare il suo linguaggio.   

 

In Cape Fear, nonostante una certa frenesia delle immagini, è il continuo cambio di ritmo e di registro tra modernità e classicità a dare il senso di costante tensione che permea il film.

 

Scorsese accelera quando il personaggio di Nick Nolte viene preso dal panico, enfatizza con la musica e il virtuosismo classico di certe riprese quando deve dare al personaggio di Robert De Niro il peso di una presenza dominante nella scena, magari per poi cambiare ancora quando deve fermarsi all’improvviso per circa dieci minuti, dando spazio all’incredibile capacità dell’attore di padroneggiare un dialogo denso e psicologicamente complesso per lui tanto quanto per il personaggio interpretato da Juliette Lewis.

 

Al tempo stesso la direzione degli attori tende all’isteria senza mai stressare troppo, e l’elemento di assurdità della narrazione del noir entra più nei comportamenti dei personaggi che nell’ossatura della storia.

 

In Cape Fear l’importanza della regia di Martin Scorsese, e delle scelte che quest’ultimo compie al fine di dare al pubblico un thriller psicologico che lasci il retrogusto di un neo-noir o di un noir, è fondamentale ed è dimostrazione del valore di un regista che sa benissimo come gestire i tempi e i generi del Cinema al quale si approccia.

 

 

[Il Cape Fear di De Niro e il Max Cady di Robert De Niro]

 

Di vendette di uomini malvagi  

 

L’altra enorme ragione per la quale Cape Fear funziona è il modo in cui il Max Cady di Robert De Niro sovrasta tutto il racconto, prendendo il controllo della pellicola.

 

Martin Scorsese e Robert De Niro hanno lavorato su due fronti diversi per fare di Max Cady il deus ex machina del film.

Il regista ha concepito il suo linguaggio al fine di renderlo sempre la scena e il racconto, un carattere così potente da essere il centro enfatico di ogni segmento del film, anche quando non è in scena.

 

L’attore, dal canto suo, ha lavorato per dare un corpo e una voce a Max Cady che fossero espressione del suo fascino perverso, della sua convinzione di essere un vero deus ex machina in controllo della propria vendetta e di tutte le cose, un conturbante e al tempo stesso disgustoso psicopatico mosso da pura cattiveria.

 

Un lavoro che permea tutto il film e che rende il personaggio quasi un essere mitologico da film di genere, un killer imbattibile, reso tale dal suo aver abbracciato totalmente il lato oscuro della propria umanità, acquisendo una motivazione e una forza che vanno ben oltre quelle umane.

Max Cady è probabilmente uno dei migliori cattivi visti al cinema.


In sceneggiatura, come nell’interpretazione di Scorsese e di De Niro, Max non viene mai giustificato, non ha davvero delle motivazioni alte dietro le quali nascondersi: viene presentato semplicemente come uno stupratore, un mostro, un uomo colpevole sopra ogni ragionevole dubbio che non vuole scagionarsi, ma che vuole essere libero di assecondare i propri istinti e che desidera vendetta dopo aver speso 14 anni ad acquisire i mezzi culturali, a lui prima preclusi, non tanto per riformarsi in quanto uomo ma in quanto mostro.   

 

 

 

 

Cady non si nasconde dietro il ragionevole, quanto conveniente, dubbio di una società che abbandona gli ultimi.

 

Quando si descrive come vittima è chiaramente preda di una psicosi, di un oscuro pensiero che lo porta a compiere azioni violente poiché parte di lui.

 

Il fatto che a margine, nel film, l’opera punti il dito verso il modo in cui il sistema giudiziario e sociale guarda al sesso e al rapporto estremamente malato che questo assume quando viene utilizzato come arma di distruzione di una persona - così come tende a puntarlo contro alcuni principi della giustizia americana - non va certo a difendere Cady, ma più che altro a mettere in dubbio il personaggio di Nolte come l’ambiente nel quale si muove.

 

Max Cady ha imparato a parlare dicendo le frasi giuste, mimetizzandosi perfettamente come un uomo dalla bella parlantina al bancone di un bar, risultando un affascinante professore di teatro e un filosofo e lo ha fatto per divenire un uomo geniale al servizio di un fine malvagio che non trova luce alcuna nel suo scopo.

 

Cape Fear è un film conscio di come il cattivo di un film possa essere semplicemente un mostro e di come non sia mai un bene dare una giustificazione patetica alle sue motivazioni.

 

Perché Martin Scorsese sa benissimo come siano gli eroi a dover creare empatia con il pubblico e come il ruolo dei villain sia quello di essere disgustosi, sgradevoli, ma non per questo meno affascinanti per altri motivi.   

 

 

 

 

L’idea, tutta del Cinema degli anni '10 del 2000, di creare cattivi resi quasi eroi grazie a un generale ammorbidimento che li renda simpatetici al pubblico, è forse deleteria per le storie quanto pericolosa per la moralità di chi usufruisce di queste storie, dando illusione di un ragionamento grigio, quando invece tende a rinforzare il pensiero binario per nutrire poi altri bias di comportamento poco incoraggianti.

 

Nel mondo esistono uomini a cui interessa semplicemente veder bruciare il mondo.

 

Esistono lo psicotico Frank Booth di Velluto Blu e il Max Cady di Cape Fear e, per quanto ci possano disgustare le loro azioni, non è salutare rigettarli come frutto di menti malate per poi appassionarsi a veri serial killer, assecondando il nostro animo bigotto e voyeuristico.

 

Max Cady, i suoi untuosi capelli e il suo fisico marmoreo e tatuato, quel corpo che Robert Mitchum non sa "se ammirare o leggere", è in un certo senso il protagonista e il senso di Cape Fear e per tutto il film lo spettatore, per quanto disgustato, non fa che chiedersi quando arriverà.   

 

Cape Fear è un film fondamentale per comprendere come re-interpretare un film di una diversa epoca e per capire come un cattivo possa essere davvero affascinante quando mosso da una natura violenta e quando l’autore accetta di raccontare quelle pieghe, abbracciandole in toto. 

 

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