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C'era una volta il West - Un commento emozionale

Il primo capitolo della Trilogia del Tempo di Sergio Leone raccontato seguendo un flusso di coscienza e un punto di vista personale.

Un’epoca è terminata. Sergio Leone ha deciso che, dopo il successo clamoroso e la consacrazione internazionale della Trilogia del Dollaro, avrebbe intrapreso nuove strade.

 

Il romanzo autobiografico Mano Armata di Harry Grey, ambientato durante l’America del proibizionismo, lo aveva colpito a tal punto da volerlo usare come spunto per un progetto nuovo. Un progetto che sarebbe diventato il chiodo fisso della sua carriera e che lo avrebbe portato al capolavoro di C’era una volta in America, quasi vent’anni dopo.

 

Ma, nel frattempo, la produzione americana chiedeva a gran voce un altro western. 
Leone, all’inizio, non era intenzionato ad accettare. Come emerso dalle sue dichiarazioni, aveva l’impressione di aver già detto tutto con la sua Trilogia.

La Paramount, pur di convincerlo, gli offrì la possibilità di scritturare Henry Fonda, la star di Hollywood che il regista romano aveva sempre amato e cercato di scritturare - senza successo - per tutti i suoi film precedenti, oltre a un budget illimitato e la disponibilità di girare alcune scene nella Monument Valley.
Leone decise quindi di accettare questo compromesso. Ma, come vedremo, trovando il modo di usare le sue ambientazioni - ormai celeberrime - applicandole a un’idea del tutto nuova.

 

Per la sceneggiatura vennero inizialmente ingaggiate due delle personalità più promettenti del cinema italiano di allora, che avrebbero poi intrapreso percorsi artistici molto diversi ma di grande successo: Dario Argento e Bernardo Bertolucci

Argento, ancora soltanto un critico di discreta fama, all’inizio non era particolarmente entusiasta del progetto. Riteneva che i western fossero film di serie B, non meritevoli della sua attenzione. Tuttavia, spinto dalla possibilità di lavorare con una produzione di tutto rispetto, accettò.

Pochi giorni dopo dall’inizio della stesura del trattamento, arrivò a comprarsi una colt e un cappello da cowboy per provare le scene davanti a uno specchio, tanto era contagioso l’entusiasmo di Leone che, come dichiarato da Bertolucci“a volte dava l'impressione che preparare un film fosse come quando uno è bambino e gioca ai cowboy”


Nonostante l'entusiasmo iniziale, i due collaboratori decisero di abbandonare il progetto, dopo aver realizzato un primo treatment di circa 300 pagine. Leone si rivolse così al suo fedele collaboratore Sergio Donati, con cui completò la sceneggiatura finale. 


Insieme a Henry Fonda, furono scelti tre attori di grandissima reputazione e abilità: la meravigliosa Claudia Cardinale, uno dei simboli di bellezza ed eleganza dell’Italia degli anni ’60, Charles Bronson, altro attore amatissimo da Leone, e Jason Robards per la parte del bandito Cheyenne

 

E qui entra in gioco l’assoluta lungimiranza e genialità delle sue scelte: Henry Fonda, che era il "Buono" di Hollywood per antonomasia, un cavaliere senza macchia dagli occhi azzurri e il volto impeccabile, sarebbe diventato il cinico e crudele bandito Frank. Dall’altra parte, la nobile Claudia Cardinale de Il Gattopardo e 8 ½, avrebbe recitato la parte di una prostituta di New Orleans.

Potete immaginare lo sconforto degli spettatori, soprattutto americani, ancora abituati ad accostare i volti che conoscevano bene a determinati ruoli e caratteri.

Non certo per mancanza di abilità: semplicemente, un Henry Fonda, un James Stewart o un Cary Grant non sarebbero mai potuti essere dei banditi. Ma Leone non era interessato all'opinione comune del pubblico; anzi, stravolgere certe consuetudini sarebbe risultato molto più accattivante. 

 

Proprio per questo motivo, Fonda non era intenzionato ad accettare questo ruolo. Fu l’amico Eli Wallach (Tuco ne Il Buono, il Brutto, il Cattivo) a convincerlo, esaltando le abilità di questo strano regista e assicurandogli che avrebbe avuto l’esperienza della sua vita. 

Il divo si presentò allora in Italia con delle lenti a contatto marroni e una barba incolta. Leone non fu d’accordo. Il volto liscio e gli occhi di ghiaccio avrebbero dato ancora più l’impressione di trovarsi davanti a un personaggio intrigante e complesso.

Un Cattivo vero.

 

 

 

 

Così come Ramonl’Indio e Sentenza della Trilogia del DollaroFrank è un uomo con una lunga storia alle spalle e una profonda visione del mondo. In tutto il film, la costruzione del suo personaggio si regge sulla dicotomia con Morton, l’imprenditore che porta avanti il progetto della sua vita: far arrivare la ferrovia fino al Pacifico. Per riuscire a compiere l’impresa, è necessario un aiuto che gli permetta di spazzare via gli ostacoli che incontrerà sulla strada.

Questo è il compito di Frank

 

Ma la differente visione di idee porterà la società fino a un inevitabile contrasto. Morton è l’uomo del progresso. Il rampante capitalismo americano: modello per una nazione ancora in cantiere e che presto si sarebbe imposta come punto di riferimento per il mondo occidentale.

La velocità, la potenza delle macchine a vapore, il duro lavoro e, ovviamente, i soldi. Tanti soldi, metodo infallibile per convincere chiunque a fare qualunque cosa. 


Frank rappresenta il vecchio West, lo spirito d’avventura dei pionieri e dei cercatori d’oro, il bandito dal volto glaciale ancora legato “al vecchio metodo”, cioè il piombo. Disposto a uccidere un’intera famiglia pur di avere ciò che vuole. E, ancora una volta, non è soltanto una questione di soldi: è qualcosa di diverso, più legato a uno stato di affermazione sugli altri, di carisma, di rispetto e di potere. 

 

“Forse le mie armi vi sembrano semplici, signor Morton, ma fanno ancora buchi abbastanza grandi per i piccoli problemi”

 

Armonica, dall’altra parte, è senz’altro uno dei personaggi più affascinanti e misteriosi dell’intera filmografia leoniana.

Questo ruolo era stato ideato, come si può intuire, per Clint Eastwood, che aveva rifiutato la parte. Ma l’interpretazione di Charles Bronson è a dir poco fenomenale, così piena di ironia, leggerezza, imprevedibilità e sagacia, mantenendo comunque le caratteristiche diventate celebri grazie a Eastwood: i silenzi, il passato misterioso, la grande lentezza che si trasforma in rapidità con la pistola in mano.

Il leitmotiv del suono dello strumento che porta sempre con sé, quasi come un mantra che evoca la sua presenza, assume un significato ancora più forte alla fine del film, con l’agnizione che dipana tutte le fila che si erano intrecciate. 

 

“Se lo vedi te lo ricordi: quando dovrebbe parlare, suona... e quando dovrebbe suonare, parla!”

 

Un alter ego di Frank? In un certo senso, sì. I due personaggi sono legati da un doppio filo che verrà spezzato soltanto alla fine. Basti pensare che il tema musicale che Ennio Morricone ha assegnato a Frank sia soltanto una variazione di quello di Armonica. L’incontro tra i due personaggi, che avverrà soltanto nella seconda parte del film, viene preceduto da una serie di tentativi da parte di Armonica di incontrare il suo nemico.

Senza nessuna spiegazione.

 

 

 

 

Nella prima indimenticabile scena abbiamo già un esempio importante della direzione che il film (e in generale il cinema di Leone) intraprenderà. 


Una scena dalla lunghezza quasi estenuante, che tuttavia sembra consumarsi alla velocità di un sospiro. Una serie di rumori di sottofondo selezionati e “composti” dallo stesso Morricone, come il cigolio di un mulino, il ronzio di una mosca e delle gocce di resina che cadono su un cappello, accompagnano tre misteriosi sicari nell’attesa che arrivi un treno.

Una scena che omaggia sicuramente il mitico Mezzogiorno di Fuoco, western a cui Sergio Leone deve sicuramente tanto.

Ma, a differenza del capolavoro di Fred Zinnemann, lo spettatore non è messo a conoscenza di chi o cosa i protagonisti della scena stanno aspettando. Per quasi venti minuti si rimane con il fiato sospeso, a metà tra la meraviglia per la perfezione tecnica con cui la regia ci mostra piccolissimi gesti quotidiani, come grattarsi la testa e scacciare una mosca, e la suspense sempre crescente su ciò che accadrà. Il tutto portato a un ritmo estremamente lento. 


Poi, di colpo, l’arrivo del treno. L’incontro con Armonica. Una battuta glaciale, provocatoria, alla Clint Eastwood. Gli spari.

Tutto questo, a una velocità pazzesca, in un sol boccone. 
Una scena che, oltre a significare la morte del vecchio West (i tre sicari, secondo le idee iniziali, avrebbero dovuto essere interpretati da EastwoodWallach e Van Cleef), è un manifesto di tutto il film.

L’alternanza dei tempi dilatati e allungati fino all’inverosimile con momenti funambolici e rapidissimi, come un elastico portato, centimetro per centimetro, alla sua massima lunghezza e rilasciato in un decimo di secondo.

 

Poi: la regia. Formalmente perfetta, un salto di qualità incredibile rispetto anche alla pur fantastica Trilogia del Dollaro. C’è una nuova consapevolezza, una maturità ormai pienamente conquistata, un segnale fortissimo di aver tanto da insegnare.

Infine, i toni. Nei tre western che ci aveva regalato, Leone ha calato tre storie dalla fortissima universalità e umanità in un contesto molto nebuloso, con pochi veri riferimenti storici (a eccezione, ovviamente, della seconda parte de Il Buono, il Brutto, il Cattivo) e un senso di sospensione del giudizio su tutte le vigliaccate, i tradimenti, l’interesse economico e l’egoismo che caratterizzava tutti i personaggi.

 

Con C’era una volta il West qualcosa è cambiato. Questa volta le vicende sono ancorate alla storia. Si parla dell’arrivo della ferrovia nel West, con tutto quello che ne consegue per gli abitanti del posto e gli speculatori. Si parla di nuovi centri da fondare per investire, si parla di migrazioni dalle grandi città, si parla di accordi tra banditi e imprenditori, si parla di aste, di imprese di costruzioni, di operai, di sicari e prostitute. Tutto è molto più vivido, molto più concreto

 

Ma, al tempo stesso, ci sono momenti in cui lo spettatore viene innalzato al di sopra di tutto questo, esattamente come la macchina da presa che, seguendo in climax l’intensità della musica, si solleva per inquadrare la città in cui Jill arriva per la prima volta. Una scena talmente epica e costruita alla perfezione, che Stanley Kubrick in persona chiamò Leone al telefono per complimentarsi e chiedergli suggerimenti su come avesse potuto ottenere un effetto simile.


Proprio Jill rappresenta questa dicotomia tra storia e mito (“C’era una volta…” vuol dire proprio questo), tra brutalità dell’impatto vissuto e ascesi dell’opera d’arte. 

Claudia Cardinale interpreta, per la prima volta, un personaggio femminile fondamentale in un film di Sergio Leone, che aveva sempre relegato le donne a uno sfondo poco più che irrilevante nella trama. Qui, tutto d’un tratto, abbiamo una prostituta che diviene il protagonista assoluto del film.

C’è poco da discutere: Jill è un personaggio fantastico, costruito e caratterizzato in maniera spettacolare, ricca di contraddizioni e con una personalità affascinantissima. Da una parte, un’elegante vedova di un irlandese pieno di sogni e, potenzialmente, di denaro, dall’altra, la più desiderata prostituta di New Orleans.

 

Nella scena, memorabile, in cui Cheyenne si presenta a casa sua con i suoi uomini, la sua risolutezza e la sua forza non possono che lasciare lo spettatore a bocca aperta:

 

“Se ti piace puoi sbattermi sul tavolo e divertirti come vuoi, e poi chiamare anche i tuoi uomini. Beh, nessuna donna è mai morta per questo. Quando avrete finito mi basterà una tinozza d'acqua bollente e sarò esattamente quella di prima, solo con un piccolo schifoso ricordo in più”

 

Tra le varie interpretazioni di questo personaggio così controverso e importante, concludo con quella che mi sembra più appropriata. Alla fine del film, Jill viene inquadrata in mezzo a tutti i lavoratori della ferrovia che distribuisce acqua e sorrisi.

Una vera e propria Madre delle società primordiali, un simbolo di fertilità e prosperità di un Paese che sta affondando le sue radici ed è pronto a esplodere. Se il vecchio West non lasciava spazio alle donne, questa nuova era ne ha fin troppo bisogno. E lo sguardo meravigliato della Cardinale nella prima inquadratura che la vede scendere dal treno non è tanto lontano dal sorriso che la congeda da Cheyenne.

 

 

 

 

Tra questi momenti di altissima poeticità, piccoli intermezzi comici e un finale tra i più belli della storia del cinema, il film si trascina avanti con estrema lentezza e infinita bellezza, in una fotografia dominata dalla tonalità del marrone e da una luce soffusa, quasi come se la pellicola fosse ingiallita dal tempo e dai ricordi.


Per quanto riguarda i primi, come non citare le scene di confronto tra Armonica e Frank, i loro dialoghi così concisi e inconcludenti, che lasciano lo spettatore sempre più desideroso di conoscere il motivo per cui il misterioso pistolero cercasse con così tanta insistenza un confronto con il bandito. 
Altri momenti altissimi sono quelli in cui vengono rivelate le ambizioni di Morton, beffato dal destino con una tubercolosi ossea, che lo costringe a muoversi sempre più lentamente e goffamente a ogni chilometro guadagnato con la sua ferrovia, simbolo di velocità e progresso. 

Mentre la scena divertentissima dell’asta riporta lo spettatore alle atmosfere della Trilogia. L’intervento a sorpresa di Armonica, che riesce a spuntarla all’ultimo grazie ai soldi guadagnati consegnando il povero Cheyenne alle autorità, è geniale ed epica, con una battuta indimenticabile:

 

- La taglia su Cheyenne è 5000 dollari, giusto?
- Giuda s'è accontentato di 4970 dollari in meno.
- Non c'erano i dollari, allora.
- Già, ma i figli di puttana sì.

 

Come in un effetto catartico che non vuole abbandonarlo, lo spettatore arriva, dopo due ore e mezza di Cinema allo stato puro, a un finale incredibile, costruito con una perfezione tecnica e narrativa difficili da descrivere a parole. 
Armonica e Frank, finalmente, si trovano uno di fronte all’altro. Ancora lo spettatore non può immaginare il motivo di questo scontro. Ma, ormai, ha capito che il West è un’epoca al tramonto. Non sono i soldi a muovere i fili dei burattini che danno spettacolo. 


Un flashback brevissimo, che mostra un giovane Frank camminare in un deserto sotto il sole accecante, ci fa capire che qualcosa, in passato, deve essere accaduto.

La musica epica di Morricone accompagna ed esalta i lentissimi movimenti dei protagonisti che, tra primi piani e le ormai arcinote inquadrature “alla Leone”, si spostano, tornano sui loro passi, si fermano, si guardano, attendono una mossa. 

 

La musica si ferma. Rimane solo il rumore del vento.

Poi, un’armonica. Gli occhi del suo suonatore vengono impressi nella pellicola in dettaglio, glaciali. Con un montaggio parallelo spettacolare, viene mostrato ora il giovane Frank, con un’armonica a bocca in mano. La stessa. È lui, ora, a ricambiare lo sguardo di Armonica. Come se passato e presente si intrecciassero. In tutto questo, esplode la musica, in tutta la sua maestosità. Il Frank del passato inserisce l’armonica nella bocca di un ragazzino, che regge sulle spalle il fratello, impiccato a un arco che, con un allontanamento di camera meraviglioso, viene mostrato in un’inquadratura bellissima, che mostra uno scenario quasi teatrale.

La drammaticità di questa scena è qualcosa di superbo. Il ragazzino è proprio Armonica, che fu costretto proprio da Frank ad assistere all’omicidio del fratello. 

 

Senza che lo spettatore se ne renda conto si passa nuovamente al presente. Armonica spara un colpo letale a Frank.

Ancora una volta, il tempo si ferma: Frank, lentissimamente, si inginocchia. Prima di esalare l’ultimo respiro, rivolge al nemico la stessa domanda che più volte gli aveva fatto, ottenendo prima come risposta solo nomi di persone che aveva ucciso: “chi sei?”.

Armonica si stacca l’armonica dal collo (ripetizione inevitabile) e la mette in bocca a Frank, esattamente come era successo, a parti invertite, tanti anni prima. 
Lo sguardo di Frank (come abbia fatto Henry Fonda ad assumere un’espressione così drammatica e stupenda me lo chiedo ancora) rivela allo spettatore di aver capito tutto. Così cade a terra, con l’armonica in bocca.

 

 

 

 

Siamo di fronte a un’opera d’arte che parla all’uomo cercando di sfruttare al meglio la sua concezione soggettiva del tempo.

Un film che può durare tre ore, come sei o venti minuti. Un lavoro, oltre che visivo, fortemente concentrato sul “sentire”. Il che riguarda una colonna sonora dalla bellezza impressionante, che accompagna i gesti e le parole dei personaggi (lasciandoci sempre il dubbio che persino loro la  possano sentire) e giocando sul rapporto diegetico-extradiegetico che lascia lo spettatore appeso su ogni singola nota (la morte di Cheyenne che coincide con l’interruzione brusca del leitmotiv a lui associato ne è dimostrazione).

Ma riguarda anche la percezione del tempo che scorre, delle attese, dei pensieri che ci catturano la mente e la lasciano vagare tra la giungla di sensazioni, facendoci godere di ogni singolo fotogramma e di ogni singolo suono. 

 

È un’opera mitica, nel senso più letterale del termine. Ci racconta di un’epoca lontana, descrivendone tutte le contraddizioni e i dolori, ma facendocela amare e desiderare. Un misto di nostalgia e dolore, come quando ascoltavamo i nostri nonni parlare dei tempi della guerra.

 

Leone fa proprio questo. Quasi fosse un nonno - un po' burbero e logorroico - che, prendendo tutti noi piccoli spettatori sulle ginocchia, ci racconta vecchie storie di indiani e cowboy, esordendo con la classica formula: “C’era una volta…”. Certamente con un linguaggio maturo e profondo, ma puntando proprio alle stesse sensazioni: la meraviglia, lo stupore, la sorpresa, il dolore, il pathos.

Se una lacrima è scesa quando abbiamo visto il piccolo Armonica cadere a terra o la bella Jill allontanarsi verso gli operai, con quella musica così commovente che risuona nelle nostre orecchie, significa che, sotto sotto, siamo rimasti dei bambini desiderosi sempre di nuove storie.
E di chi ce le sappia raccontare come si deve. 

 

“I sogni non si vendono.”

 

 

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1 commento

Simone Colistra

3 anni fa

Hai fatto bene ad avermelo segnalato! Sapevo che avevano collaborato solo nelle prime fasi di scrittura, ma non era affatto chiaro dal modo in cui l'avevo scritto. 
Grazie mille.

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