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Il pubblico odia il genere - Parte II: ...e cerca nuove espressioni

Se il pubblico odia il genere e mostra insofferenza al cospetto dell'ennesimo horror infarcito di cliché, dove si sfoga?

Nel corso della Parte I dedicata a "Il pubblico odia il genere", ho provato a viaggiare attraverso l'involuzione del genere per interpretare l'insofferente diffidenza manifesta nel pubblico quando ne viene a contatto o quando, in sede di recensione, il critico cerca di guidarlo alla visione.

 


Proprio mentre scrivo l'articolo è arrivato in sala Pet Sematary, pellicola tratta da un romanzo di Stephen King, benedetta da Stephen King, e che come tutti i film baciati dal suo creatore si è rivelato a mio avviso di una mediocrità allucinante, a riprova di un cinema horror talmente bigotto e spaventato dell'isteria social justice warrior del suo pubblico da eliminare qualsivoglia forma di cattiveria o controversia (era successo anche con IT), ammazzando il genere stesso.

 

 

[La Llorona - Le Lacrime del Male, di Michael Chaves - 2019]

 


Contestualmente nei cinema è passato anche La Llorona - Le lacrime del male, ennesimo disperato tentativo di portare sul grande schermo leggende metropolitane e creepypasta, provando a mettere in cascina un target di pubblico il cui interesse verso questa moderna evoluzione della favola horror, tramandata a voce, passa principalmente per quella sfera d'intrattenimento parallela che è internet.

Una spregiudicata manovra vista, proprio lo scorso anno, con Slender Man, un goffo sforzo a capitalizzare un mito ormai oltre la linea del tramonto e il cui picco di popolarità risale forse a oltre sette anni fa.


Un film terribile, dove la sceneggiatura non ha nemmeno il buon gusto di riconfigurare un mito urbano per donargli un carattere fresco o quantomeno distante da quanto abbiamo già visto e letto in anni di creepypasta dedicati al lungagnone in smoking.

 

 

[Slender Man, di Sylvain White - 2018]

 


Eppure quest'incursione di Hollywood è figlia di studi di mercato a intercettare una tendenza interessante, ovvero la fuga del pubblico verso altre forme d'intrattenimento.


Alcune di queste sono più artigianali, più semplicistiche e fortemente basate su superstizioni e sul principio secondo il quale l'uomo è per natura portato alla superstizione, preferendo spiegazioni assurde per cedere al fascino dell'inspiegabile.

In molte occasioni sono tornato a citare due grandi autori del cinema, ovvero David Lynch e Stanley Kubrick, ambedue accomunati da un'innata fascinazione per il mistero, ritenuto da entrambi elemento necessario e fondamentale alla riuscita di una pellicola.


Questa tesi mi ha sempre trovato d'accordo, poiché le storie più interessanti, quelle più avvincenti, quelle che si riguardano all'infinito, sono quelle la cui profondità di storytelling e messa in scena è tale da regalare allo spettatore nuove interpretazioni e sfumature, innescando una Sindrome di Stendhal la cui potenza cattura lo spettatore anche oltre la soluzione della storia, l'esaurirsi degli effetti destabilizzanti, dei colpi di scena e la meraviglia emotiva della prima visione.

 

 

[Eraserhead, di David Lynch - 1977]

 

Per quanto il pubblico possa razionalmente pretendere una quadrata spiegazione a tutto, il suo subconscio desidera ardentemente essere alimentato attraverso qualcosa pregno di mistero, dove i contorni del detto e non detto si confondono, agganciandoli in un esperienza dove la sua presenza non è solo passiva in quanto spettatore, ma attiva cerebralmente ed emotivamente.


Sono i fondamenti basilari che spingono l'essere umano oltre, alla scoperta di nuove frontiere.

Questo concetto è una sorta di evoluzione ed estensione dell’idea di suspence ampiamente esplorata da Alfred Hitchcock che ne Il Sospetto illuminava un bicchiere di latte avvelenato servito a un'ignara vittima, evoluto in seguito nel lavoro kubrickiano di simmetrie e carrelli atto a creare il disagio di un uomo e la sua discesa nella follia, fino alla messa in scena lynchana di un noir surreale dove l'inizio è la fine e la fine è un inizio e il male è incarnato in un gangster tanto quanto in un ometto onnipresente, piegando spazio e tempo.

 

Nel mezzo le sfumature della sfida umana alla sua evoluzione di David Cronenberg, lo zombie politico di George A. Romero, la strega e la sfida al concetto di realtà e assedio dell'individuo di John Carpenter e tanto altro. 

 

 

[La Cosa, di John Carpenter - 1982]

 


Il pubblico desidera essere ingaggiato: quando viene lasciato in balìa dell'ignoto sa diventare un bambino, dotato perciò di una capacità di apprendimento ben più alta di quanto ci si possa prospettare.


Un malinteso che è degenerato quando il genere ha cercato di diventare intrattenimento, sfornando i terrificanti action-horror, quelli che hanno trasformato Frankenstein in un modello di intimo con qualche cicatrice e Carrie in una mutante bullizzata ma non troppo o facendo anche dello zombie romeriano un espediente seriale, dove l'elemento soap-opera ha preso sempre più in mano le redini della sceneggiatura, incapace di interpretare, anche per via della massificazione dello show, i lati più crudi di quel tipo di mitologia.

In questo panorama, in una landa desolata dove anche l'utenza di Dynasty s'interessa a un racconto zombie a causa del sopracitato svilimento, il pubblico è costretto a cercare altri sistemi di fruizione di un racconto di genere, spesso orrorifico, il cui impatto emotivo e d'intrattenimento si allinei alle vibrazioni assorbite attraverso esso.

 

 

[I, Frankenstein, di Stuart Beattie - 2014]

 


È così che diventa necessario, quanto obbligatorio, guardare ai media che hanno preso dal cinema per crescere, evolversi e guadagnare una propria fetta all'interno della ruota delle principali forme d'intrattenimento.


Il videogame, ad esempio, è diventato sempre più sofisticato nel fondere gameplay e narrativa, arrivando a produrre alcune delle storie più affascinanti, raggiungendo apici grazie a titoli quali Metal Gear Solid o The Last of Us.

Volendosi concentrare sul genere non posso esimermi dal citare Silent Hill, una di quelle saghe che è stata capace di portare a schermo una maturità narrativa rara, fondendo alla perfezione, soprattutto nel secondo capitolo, una storia umana alla metafora orrorifica.


Un setting terrificante, nel quale la tensione si gioca sull’ignoto, sulla non consapevolezza, sulla discesa in una storia sempre più asfissiante e nella quale il concetto di malattia diventa presente e si fa pilastro portante di un universo strutturato sul concetto stesso di metà oscura di un mondo ribaltato dal suo decadimento nel marciume.


Un videogame ansiogeno che, come hanno fatto i migliori registi, non utilizza lo spavento ma una costante e crescente atmosfera per sensazioni, stritolando il giocatore, per quanto consapevole di essere un utente collegato a uno schermo da un controller.

 

 

[Silent Hill 2] 


Il videogame di Naughty Dog, invece, è forse uno degli esempi di cinema applicato al videogame più interessante di sempre, capace di fondarsi sull'archetipo di una storia di zombie, svilupparsi in un post-apocalittico e limitare l'impatto politico e sociale, concentrandosi unicamente sui pochi caratteri messi in gioco, sulle dinamiche tra essi e sull'animo umano.

La bussola morale che divide giusto e sbagliato, bene e male, buoni e cattivi, è infranta sulla solidità di una narrativa votata a ribaltare ogni concezione, divenendo romeriana nei fondamenti e cuaróniana negli intenti, trasformandosi quindi in un I Figli degli Uomini con gli infetti, dove la violenza e la crudeltà diventano quanto mai grafiche ed emotivamente impattanti.

The Last of Us sembra scritto con le logiche care a Lynch e Kubrick, lasciando sul fondo alcune questioni, evitando di risolvere certi misteri e volutamente spostando il racconto di anni e senza poi tornare indietro per soddisfare curiosità annebbiate da un presente e un cosa ben più avvincenti.


Il passato, le cose non risolte, il mistero dato da un contesto decadente del quale non sappiamo molto, non è solo un buon esercizio di stile ma anche quell'elemento catchy che tiene il pubblico avvinto e che viene, a volte, riempito con circoscrizione da elementi narrativi secondari o di fondo che, in ambito videoludico, prendono il nome di "lore".

 

 

[The Last of Us] 


Il post-apocalittico ha il fascino dell'ignoto, del saper mostrare allo spettatore le conseguenze di un evento X, noto o meno, sul nostro mondo, spostando l'intero focus sul presente, sulla scoperta di una realtà totalmente nuova e piena di caratteri i cui comportamenti e istinti sono figli di un ambiente totalmente vergine.


È il motivo per il quale il pubblico ama il post-apocalittico e una delle ragioni per la quale un horror come The Last of Us diventa importante per il giocatore, facendo della controparte ludica un qualcosa di fondamentale e integrato nel mood della storia, ma al contempo conseguenza di uno storytelling costruito ad arte.

I gamer di tutto il mondo sono rimasti toccati da una storia fondata su archetipi di genere ben noti ma esplorati secondo logiche nuove, dove la narrazione è riuscita a entrare anche nella componente ludica pur rimanendo al comando del cosa mostrare.


Il cinema di genere non racconta, prova a spiegare, spaventa, inciampa sui dettagli e dimentica di portare il pubblico tra le maglie di un'esperienza narrativa che deve essere traino e non pretesto.

Altro videogame importante per tale concetto è Alan Wake che, a quanto pare, diventerà serie tv.

E tra poco capirete l'ironia del tutto.

 

 

[Alan Wake] 


Il videogame di Remedy è un omaggio enorme a moltissime opere horror di stampo classico.


L'intero plot è costruito sulle storie dell'orrore di King e su figure care a H.P. Lovecraft, arricchendosi dell'impianto narrativo di Twin Peaks, dal quale ricalca mitologia e ambientazione, e omaggiando il famigerato serial Ai Confini della Realtà.


Alan Wake trova la sua forza nel calare lo spettatore nelle logiche di un mondo dove le regole sono semplici e chiare, ma nel quale il mistero, il non detto, lo spiegone a dare sostanza a domande che il giocatore potrebbe arrivare a chiedersi, è reso mito e trascurabile dettaglio dalla distrazione creata dalla storia dell'orrore della quale siamo protagonisti.

Potrei chiosare con Dead Space, un titolo che trasuda Dan O'Bannon e La Cosa di carpenteriana memoria, da ogni poro.


Un videogame che non esisterebbe senza un impianto cinematografico horror a suggerire tutte quelle idee di messa in scena e storytelling utili a mettere in primo piano l'idea, condivisa dai due registi sopracitati, di un protagonista asserragliato da un qualCOSA di alieno, pericoloso, guidato dall'istinto naturale e sconosciuto.

 

 

[Dead Space] 


Se il videogame potrebbe risultare avvantaggiato da una compagine ludica, ci tengo a ricordare come il cinema di genere ludico, come brevemente discusso nel corso dell’introduzione, abbia fallito e che tutti questi titoli hanno in comune la semplicità del gameplay come solida base per portare all’utenza un prodotto in cui contesto e narrativa regnano; se non siete convinti, pensate all The Walking Dead di Telltale Games, nel quale la compagine videoludica è praticamente azzerata.

Il mondo del gaming ha saputo portare al pubblico che prima guardava l’horror al cinema e alla televisione, un intrattenimento evoluto, profondamente sviluppato nella compagine artistica, tenendolo avvinto a quanto vede, sente e percepisce, provocando reazioni molto similari a quelle del cinema; non a caso molto pubblico gradisce seguire i gameplay su YouTube o torna a impugnare il pad, come il sottoscritto, solo ed esclusivamente per calarsi nuovamente in quel mood narrativo, esattamente come accade in un film.

Paradosso dei paradossi, il cinema che ha provato a fare il videogame sul grande schermo, dopo che il videogame aveva fatto il cinema, ha fallito miseramente.


Anche solo parlando di genere, troviamo Alone in The Dark, la saga di Resident Evil, Silent Hill e quell'House of The Dead di Uwe Boll che ha avuto l'ardire di editare sezioni di gioco di uno sparatutto a binari da sala gioco, in un film.


Brividi, signori, brividi. 

 

 

[House of the Dead, di Uwe Boll - 2003]

 


Tornando invece sulla strada che conduce all’ovile della narrazione per immagini, sembra quasi obbligatorio fare tappa in quel vasto bacino chiamato “internet”.


YouTube in primis con il suo "broadcast yourself" ha democratizzato le forme di linguaggio video, basandosi su un'evoluzione tecnologica che ha dato a milioni di persone la possibilità di mettere in scena e diffondere contenuti altrimenti impensabili; chi vi parla è classe 1987 e da ragazzino non avrei mai immaginato che un giorno avrei smesso di accendere la televisione.

Il web, il mondo nel mondo che trova casa sulla rete, ha dato sfogo ad altre forme di storytelling, ed essendo, fondamentalmente, intrattenimento generato dal pubblico per il pubblico o per lo stesso sollazzo di chi li realizza, diventa megafono dei pruriti della massa.


Video amatoriali di avvistamenti di fantasmi e poltergeist, fenomeni paranormali, canali di ghost hunting come non ci fosse un domani e ore e ore di contenuti dedicati e sprecati in forme d’intrattenimento becere tanto quanto quelle viste nelle peggiori produzioni hollywoodiane… ma senza il budget o la competenza che queste dovrebbero avere.

In questa vasta giungla, si trovano però forme di genere interessanti e capaci di fondere l’audiovisivo al social media, l’interazione del pubblico al racconto pensato da un deus ex machina.

 

 

[I Feel Fantastic]

 

Ricordo distintamente la prima volta che ho visto I Feel Fantastic o Obey the Walrus, piccoli misteri del web cresciuti così tanto nel tempo da generare, grazie alla curiosità morbosa dell'utenza, nuove leggende metropolitane e raccapriccianti teorie orrorifiche.


Il canale chiamato Robert Helpmann ha dato vita a thread e discussioni online il cui cruccio da parte dell'utenza è quello di decodificare il significato di dodici video nei quali un uomo mascherato passa il suo tempo in compagnia di un cadavere avviluppato in neri sacchi di plastica.

Uno dei casi più recenti ed affascinanti è The Sun Vanished, account Twitter creato per raccontare una storia horror, organica e che si sviluppa tramite il famoso social network, ambientata in un luogo (mondo? universo parallelo?) nel quale il sole è improvvisamente svanito.


A colpi di tweet, video e fotografie, l’account racconta una storia il cui creatore, pur rimanendo in controllo di quanto svela, ingaggia il suo pubblico, interagendovi, e coltivandone l’attenzione non tanto attraverso il rapporto telematico ma proprio grazie alla profondità del mistero, delle domande sollevate, della mancanza di risposte e la creazione di un interrogativo avvincente, portando la serialità nel mondo reale, poiché il protagonista è pur sempre un utente Twitter che, per quanto ne sa e ne sappiamo, vive e si muove nel nostro mondo; il meta è la base.

 

 

[The Sun Vanished] 


Muovendoci sempre più vicino al punto di partenza, Blackout è forse una di quelle serie horror per il web maledettamente interessanti.


Senza pretese, eppure capace di ingaggiare il pubblico in un plot basato interamente sul concetto di mistero e dove, a volte, quello accade non vuole spaventarci ma semplicemente metterci a disagio, sfruttando qualcosa di comune e perfettamente condivisibile come base per sfogare oscuri pensieri.

 

Il mondo di internet alimenta la curiosità e il morboso fascino verso l'ignoto come nessun altro o come solo pochi riescono ancora a fare tra cinema e televisione, catalizzando un flusso di attenzione immenso ma privo, in un certo qual senso, dell'istruzione per osmosi formita dai prodotti professionali.

A coronamento di questo movimento, l'unico baluardo capace di fondere i nuovi media e linguaggi per rubare il pubblico ai meccanismi di internet e riportarlo in televisione, è da attribuire alla serie antologica della BBC Inside No. 9.


Lo show è una sorta di Ai Confini della Realtà o di Black Mirror, nel quale si spazia dalla dark comedy alla storia dell’orrore e nel quale, esattamente come i due prodotti appena citati, segue una nuova narrativa e una nuova storia ad ogni puntata.

 

 

[Inside No. 9, BBC - dal 2014] 

 

 

Il loro inestimabile colpo di genio va in scena durante l’Halloween del 2018, quando la produzione annuncia una puntata speciale, un live show; qualora non fosse chiaro, gli attori avrebbero dovuto mettere in scena un episodio recitando in diretta televisiva, come se si fosse trattato di uno spettacolo teatrale.


Il lampo di genio si manifesta nella capacità dei creatori della serie di fondere miti urbani, leak giornalistici, le aspettative del pubblico e la portata dell’evento per inscenare un episodio paranormale in live television, spezzando completamente l’idea di raccontare una storia per fare dello stesso evento la storia.


I fenomeni paranormali inscenati non accadono quindi ai protagonisti di un canovaccio ma alla stessa produzione impegnata a mettere in scena l'episodio, mandando in onda problemi tecnici, vere interruzioni ufficiali BBC e polarizzando il pubblico in un critico live tweeting, completamente ignaro di essere sull'orlo di un prank horror, inconsapevole di essere spettatore di una serie di sfortunati eventi orchestrati al fine di piegare la realtà televisiva.


La trasmissione diventa l’orrore e tutto evolve in una serie di momenti nei quali il pubblico assiste al disfacimento dello show e l’escalation di fenomeni paranormali che prendono possesso dello studio BBC, impattando uno show in diretta, spargendo sibilline apparizioni di fantasmi e poltergeist a dirottare il servizio di broadcasting.


Insomma, come se la famigerata interferenza di Max Headroom di Chicago fosse stata orchestrata degenerando fino al punto da prendere per il naso il pubblico.

 

 

[Max Headroom, l'interferenza di Chicago, 1987]



Inside No. 9 ha creato un horror televisivo che internet, la forma di comunicazione più moderna e rivoluzionaria a nostra disposizione, non è riuscita a eguagliare, sorpassando anche i sopracitati videogame, interattivi per definizione, e utilizzando il teatro e il concetto stesso di teatralità, per raggiungere il suo scopo.


La quarta parete non è stata abbattuta ma spostata, portando lo spettatore dentro l’evento e facendogli credere, contrariamente al gaming o all’interazione da storytelling social, di assistere a qualcosa di reale.

 

Ricordate sempre che le rivoluzioni si generano sempre partendo dal classico.

L’impresa di Inside No. 9 ci riporta al punto di partenza, dimostrando come un mezzo come la televisione, quando sfrutta le giuste leve e quando ricorda cos'è una storia dell’orrore, ne sa sfruttare gli archetipi, superando le evoluzioni tecnologiche a stravolgere le forme di racconto e riportando tutto all’ingegno.

Dopo queste considerazioni sembra giusto dire che il pubblico, allora, non odia il genere in sé ma più che altro le aderenze che questo sembra aver preso nel momento in cui ha cercato di assecondare la sua utenza, degenerando in adattamenti di situazioni che non comprende fino in fondo, costringendolo a rifugiarsi in altre forme di narrazione la cui inventiva, per quanto non esente da cliché e situazioni riviste, riesce a proporre le sensazioni seminali alla base di questo tipo di narrativa.

Giunti a questo punto, dopo uno spin-off di questo calibro, quello che possiamo fare è avvicinare il dito alla superficie dello schermo per sentir crescere dentro l'eco di un interrogativo conturbante.

 

Se il pubblico non odia il genere, significa forse che al cinema, o in televisione, esiste ancora ed è quindi il pubblico stesso ad essersene discostato, perdendo la necessaria capacità di decodifica?

Stacco in nero.
Appuntamento al capitolo III.

Chi lo ha scritto

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3 commenti

Giovanni Berardi

4 anni fa

Credo che sia una conclusione perfetta!! ;)

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Grazie mille, Giovanni.
La parte III parlerà di questi aspetti del genere e del cinema in generale.
Spero possa essere una degna conclusione del discorso.

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Grazie mille, Giulio.
Contento tu abbia gradito l'articolo.
La parte III è in stesura.

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