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Da Rey a Carol Danvers: l’evoluzione identitaria delle eroine Disney

Il femminismo di cui abbiamo bisogno

La fresca uscita di Captain Marvel, il nuovo prodotto della Casa delle Idee, si pone alla fine di un lungo percorso iniziato nelle fila della Disney per la ridefinizione dei personaggi femminili, che ha coinvolto quindi anche le altre tre importanti divisioni della casa madre, insieme alla già citata Marvel: la Walt Disney Animation Studios, la Pixar e la Lucasfilm.

 

C’è un preciso filo rosso che parte da Episodio VII della rinata saga di Star Wars e che termina con il ventunesimo lungometraggio del Marvel Cinematic Universe, dove il Women Empowerment ha raggiunto il suo apice.

 

 

 

 

Affrontare però questo discorso mettendo esclusivamente l’accento su esigenze politiche correnti (vedi la campagna del #MeToo) e sulla sacrosanta pretesa di parità di diritti nei rapporti civili, economici e sociali tra uomini e donne, significherebbe perdere completamente di vista il “come”, più importante del “cosa”, la major di Burbank sia effettivamente riuscita nell’intento di attribuire almeno sul grande schermo pari peso e dignità ai protagonisti delle sue opere, indipendentemente dal sesso. 

 

Analizzando il nuovo film Marvel, si nota proprio come il personaggio di Carol Danvers non sia frutto di un’operazione reclamistica, ma sia ancora una volta strumentale all’immane impianto narrativo dell’universo espanso di Kevin Feige che, giungendo alle note finali della cosiddetta Fase 3 che culminerà ad aprile con l’attesissimo Avengers: Endgame, ci riporta indietro negli anni ’90, quando i Vendicatori ancora non esistevano e lo SHIELD era composto da un pugno di agenti, raccontando una delle migliori storie d’origini stand-alone dell’intero MCU.

 

Non mi soffermerò sulla trama e sui motivi che rendono Captain Marvel un film assolutamente meritevole di visione, seppur considerato nel piccolo contesto dei superhero movies, bensì sul ruolo che la Marvel/Disney è riuscita a cucire addosso alla supereroina interpretata da Brie Larson, che si pone alla fine di un iter cinematografico di emancipazione femminile sempre più lineare e definito.

 

 

 

 

Uno dei principali meriti della Disney risiede infatti nel far fare e far dire cose ai propri personaggi senza che subentri sullo sfondo alcuna distinzione uomo/donna.

Perché ogni singola situazione è trattata come se fosse da sempre consuetudine e non facesse quindi notizia.

 

Il risultato di una siffatta operazione è che al centro di Captain Marvel non troviamo una donna con dei superpoteri, ma semplicemente Carol Danvers: un pilota, una nobile guerriera, una persona con una missione da compiere in una storia in cui il sesso è solo l’ultimo dei dettagli.

 

Coloro che si sono mossi in prima linea nel criticare il film di Anna Boden e Ryan Fleck, tirando in ballo l’ormai abusata espressione del politically correct, non hanno semplicemente afferrato questo punto.

O forse hanno fatto finta di non afferrarlo, che sarebbe anche peggio.

 

Risulta utile a questo proposito scomodare il corrispettivo avversario della DC, Wonder Woman, da cui Captain Marvel si distanzia nettamente.

 

Il regista James Cameron in un’intervista al The Guardian ebbe modo di dichiarare:

“A Hollywood quando si parla di Wonder Woman c'è troppo autocompiacimento e questo reciproco scambiarsi pacche sulle spalle è davvero sbagliato.

 

Wonder Woman è un'icona trasformata in oggetto: sono i maschi di Hollywood che ripetono un vecchio modello.

Non sto dicendo che il film non mi sia piaciuto, ma per me rappresenta un passo indietro. [...]

 

Sarah Connor non era un'icona della bellezza.

Era forte, aveva tanti problemi, era una madre terribile e si è guadagnata il rispetto del pubblico grazie alla sua grinta.

Il beneficio che hanno portato personaggi come Sarah è evidente”

 

 

 

 

La discutibile risposta a distanza della regista del film DC, Patty Jenkins, “James Cameron è un bravo regista, ma non è una donna” - quasi a voler dire che il pubblico di Wonder Woman dovesse essere prima di tutto femminile per poter meglio apprezzare ma soprattutto comprendere il suo film - dimostra essenzialmente che Cameron aveva ragione. 

 

Quando la buona riuscita di un film si misura sulla base dell’impatto che si spera quest’ultimo possa avere su una determinata fetta di spettatori, invece che sulle sue qualità o i suoi limiti oggettivi, e quando si ammette candidamente che questa necessità debba sovrastare tutti gli altri aspetti che rendono di solito un film apprezzabile o criticabile a priori, allora vi è già un errore in partenza, proprio nelle intenzioni.

 

Un pericolo che Captain Marvel e la Disney non sfiorano nemmeno.

 

Laddove il film di Patty Jenkins risulti essere infatti più preoccupato ad assurgere a manifesto per le battaglie femministe piuttosto che a conquistare meriti cinematografici e a superare gli evidenti difetti di merito (una protagonista piatta e prevedibile, un esagerato numero di registri narrativi che si alternano tra loro, un villain ai limiti del ridicolo), il film della Marvel vola invece leggero e punta a fare quello che le riesce meglio: intrattenere, divertire, emozionare.

 

Indipendentemente dal sesso, dal colore della pelle e dall’etnia dei propri personaggi. 

 

 

 

 

Credo che James Cameron intendesse dire esattamente questo, nel criticare il film della Jenkins.

Il normale di Captain Marvel viene sbandierato come straordinario in Wonder Woman e quasi paradossalmente, il titolo Marvel risulta essere quindi un film molto più femminista rispetto a quello artificioso della DC, senza però volerlo essere davvero. 

 

Il suo non volerlo essere, lo fa diventare in automatico.

Perché di fatto una donna non chiede più diritti o poteri di un uomo. Chiede le stesse possibilità

 

E il rappresentare uomini e donne nelle storie Marvel con le medesime possibilità, di vittoria come di sconfitta, di entrare nel cuore del pubblico come di restarne fuori, senza il bisogno di sottolinearlo ma facendolo passare come un fatto assolutamente scontato e quasi banale - come dovrebbe essere nella vita di tutti i giorni - costituisce un eloquente messaggio di uguaglianza sociale, più efficace di una qualunque retorica gettata in pasto ai social network.

 

Il femminismo più autentico, di cui abbiamo tutti bisogno, è quello che non necessita di slogan propagandistici o di sbandierare una condizione sociale, ma è quello che si preoccupa di rappresentare un fatto reputato straordinario ed eccezionale per quello che poi effettivamente è: un fatto consueto.

La conquista di diritti civili e la parità di genere passa anche attraverso questo modus operandi, il far apparire come ordinario un qualcosa che nell’immaginario collettivo ha dell’insolito o fa scalpore.

 

E in questo l’operazione messa in campo dalla Disney ha del miracoloso. 

 

 

 

 

Non esiste modo migliore per combattere maschilismo, razzismo e abbattere i muri degli stereotipi nella nostra società, se non quello di rappresentare la normalità, senza porsi il problema di dare troppe spiegazioni a sostegno. 

 

Con normalità non si intende ovviamente qualcosa di oggettivo, bensì l’adozione di modelli e scelte consuete, che si sono sempre ripetute nel tempo sul grande schermo in modo ciclico, fino a diventare delle vere e proprie regole non scritte, davanti alle quali il grande pubblico si potesse sentire come acquietato, sicuro, allineato alla storia.

 

Nel cinema supereroistico, che è quello che ci interessa in questo caso, l’essere sempre stati abituati a protagonisti ed eroi prettamente maschili in grado di volare, sconfiggere i nemici e salvare il mondo ha portato alla trappola mentale secondo cui solo i personaggi maschili verrebbero reputati come più idonei a svolgere questo tipo di ruolo. 

 

Ed è così che si arriva a scambiare la possibilità per una donna di recitare le medesime parti con la stessa bravura ed efficacia narrativa di una controparte maschile per politically correct, una fanfara mai così fuori luogo come in questo caso e nella quale è insito il pericolo di criticare o elogiare un certo film per i motivi sbagliati, senza considerare cioè gli aspetti meramente tecnici e cinematografici, che sono gli unici che dovrebbero essere invece considerati in sede di una valutazione lucida e imparziale. 

 

Un discorso di questo tipo ci porta quindi a riflettere su un punto preciso: l’opera cinematografica viene prima del messaggio che la stessa contiene.

E non si può allora che elogiare la Disney per il grande lavoro svolto in questi anni sui vari personaggi femminili, che facilita l’immedesimazione al di là del sesso e che ci porta a osservare, ascoltare e fare il tifo per l’eroina di turno, senza preoccuparci di cosa sia comunemente accettato che la suddetta possa o non possa fare in quanto donna e in nome degli usi.

 

 

 

 

La normalità è la chiave di volta per le uguaglianze, attraverso cui far crollare i cliché e rendere le nuove dinamiche narrative parte dei nostri schemi mentali, senza (giustamente) chiederci il permesso. 

 

Se si prendesse la medesima storia di Captain Marvel e si invertisse il sesso di tutti i personaggi in gioco, nulla cambierebbe.

Significa che la storia, le scene e i dialoghi sono stati scritti ignorando il genere, e che funzionerebbero a priori. 

 

Il risultato è che tutti i personaggi del MCU hanno dunque la medesima dignità sociale e ciò che li rende diversi non sono tanto il sesso e il colore della pelle, bensì i costumi, le tecniche di combattimento messe in campo per sconfiggere i nemici, i propri caratteri e le proprie motivazioni: tutte caratteristiche che esistono al di là delle distinzioni di superficie su cui molti, più o meno inconsciamente tendono a soffermarsi a una prima occhiata.

 

Al centro di questi film non vi sono battaglie dei sessi, espliciti messaggi urlati, azioni di rivalsa contro una categoria o una cultura intera, perché la parità di diritti e il femminismo vero passano come già detto per la rappresentazione della normalità.

 

E rappresentare parole, azioni e gesti eroici di queste protagoniste femminili senza alcun bisogno di ulteriori specificazioni, o accompagnamenti provocatori e polemici, è davvero il modo migliore per abbattere i tabù e unire davanti allo stesso schermo persone di qualunque sesso, e mostrare come quest’ultimo non conti davvero nulla dinnanzi a quello che all’interno della finzione cinematografica è per definizione bene o male, giusto o sbagliato, e al suo esterno costituisce il motivo per il quale criticare o elogiare il risultato finale dell’opera. 

 

 

 

 

Tornando a parlare nel merito di Captain Marvel, sono altri i fattori che renderebbero quindi la Danvers un personaggio riuscito, al di là del sesso.

 

Chi ne fa una mera questione identitaria, davanti alla quale ogni altro tratto distintivo perderebbe valore - dal costume ai superpoteri, dal modo di porsi con gli altri alle sue amicizie passate - non solo soffre di un pregiudizio maschilista di fondo, soffermandosi esclusivamente sul fatto che Carol Danvers sia una donna, e che questo la renda in automatico “diversa” perché portatrice di interessi rappresentativi che vanno oltre il cinema e l’intrattenimento, ma non ha ben chiaro nemmeno il concetto di caratterizzazione attraverso cui registi, sceneggiatori e produttori hanno cercato di rendere l’ingresso del personaggio nelle dinamiche del masterplan degli Avengers più equilibrato possibile.

 

Questo tipo di esigenza, che travalica sesso, religione o etnia, deve costituire l’unico metro di giudizio nella valutazione complessiva del personaggio e del film.

 

Smetteremo di utilizzare a casaccio in questo tipo di cinema le espressioni “maschilismo” e “femminismo” il giorno in cui non vedremo più sullo schermo donne e uomini, considerati come categorie a se stanti in quanto portatrici di interessi, simboli e concetti diversi tra loro e radicati nella memoria collettiva, ma semplicemente personaggi cinematografici, ognuno con una propria storia e autonomia, ognuno in grado di poter dire e poter fare quello che vuole.

 

Non sulla base di preconcetti, ma sulla base del proprio essere, della propria persona.

 

 

 

 

Sarah Connor ed Ellen Ripley, ad esempio, sono tra le più grandi eroine del cinema d’azione e di quello fantascientifico, e questo è stato possibile grazie alla loro caratterizzazione, al modo con cui i loro personaggi sono stati delineati da registi e sceneggiatori, al contributo portato dalle attrici che le hanno interpretate, Linda Hamilton e Sigourney Weaver, alla solidità delle storie in cui sono state immerse.

 

E non grazie al loro essere donne, come se questo dovesse necessariamente vincolarle a dimostrare qualcosa al pubblico. 

È indubbio che il personaggio di Captain Marvel si ponga lungo questo stesso solco.

 

Ed è curioso come la stessa eroina, durante una delle ultime scene di combattimento contro il suo ex mentore interpretato dal mendace Jude Law, ribadisca il medesimo concetto:

“Io non ti devo dimostrare nulla”.

 

Un destino che accomuna tutte le protagoniste femminili portate al cinema dalla Disney negli ultimi quattro-cinque anni. 

 

 

 

 

Ne Il Risveglio della Forza l’orfana Rey, che in quanto a presenza scenica supera Padmé e si avvicina alla principessa Leia, è protagonista assoluta della rinascita del franchise di Star Wars ed eredita di fatto lo stesso ruolo che fu di Luke Skywalker nell’originale Guerre stellari del 1977.

 

Il personaggio, che viene presentato come autosufficiente malgrado l’abbandono che ha subito da piccolissima sul desertico pianeta Jakku, scoprirà nel corso della narrazione di essere sensibile alla Forza, nonostante non discenda da nessuna famiglia Jedi.

La figura di Rey ben simboleggia la totale destrutturazione cui la nuova trilogia è stata sottoposta; un qualcosa che risulterà ancora più chiaro in Episodio VIII, Gli ultimi Jedi.

 

Senza entrare nel merito dei due film - Il Risveglio della Forza mi piacque molto, Gli ultimi Jedi decisamente meno - quello che ora mi preme dire e che è strumentale al discorso messo in piedi nell’articolo è che Rey è la personificazione della rivoluzione messa in atto dalla Lucasfilm/Disney, al centro della quale la Forza non è più una questione di sangue, famiglie e dinastie maledette (con due uomini in lotta, un padre e un figlio) ma è qualcosa di naturale, che si trova nell’equilibrio della natura e che può essere afferrata anche da parte di chi, come Rey, non ha un’origine mitica alle spalle.

 

La sua abilità a usare la spada laser e il controllo della Forza saranno quindi figlie della sua caparbietà, del suo impegno, del suo duro allenamento e della sua volontà di salvare la resistenza e sconfiggere il Primo Ordine, mostrandosi all’altezza del compito.

 

E il messaggio, sebbene sussurrato, arriva comunque cristallino: tutti possiamo diventare Jedi, tutti possiamo essere Rey. 

 

 

 

 

Sempre restando in tema di Guerre Stellari, in Rogue One: A Star Wars Story è ancora una volta una donna la protagonista assoluta della storia: Jyn Erso è la vera artefice della missione messa in atto da un gruppo di ribelli e finalizzata a rubare i piani segreti della Morte Nera. 

 

Nel finale del film, Jyn riesce nell’intento di trasmettere i dati all’Alleanza Ribelle, che se ne servirà in Guerre Stellari (ormai noto come Episodio IV) per distruggere la temibile arma da guerra dell’Impero, pagando il fio con la propria vita, da vera eroina tragica. 

 

 

 

 

Passando all’animazione, in Zootropolis la coniglietta Judy Hopps sogna di diventare agente di polizia, ma deve incontrare le resistenze dei suoi colleghi e degli amici, che la sottovalutano ritenendola poco adatta a svolgere quel ruolo così duro e pericoloso, destinato tradizionalmente ad animali più grossi e robusti. 

 

Una metafora dell’idea secondo cui certi tipi di lavoro, soprattutto quelli che implicano maggior sforzo e fatica fisica, non sarebbero adatti al sesso femminile.

 

 

 

 

In Oceania si verifica il processo inverso rispetto a quanto accaduto ne La Sirenetta.

 

Se Ariel desiderava abbandonare il mare per trasferirsi sulla terra ferma e sposare un principe, Vaiana al contrario si sente fortemente attratta dall’acqua e sogna una vita all’insegna di avventure ed esplorazioni in giro per l’oceano, ignorando la politica prudente di suo padre e del suo popolo, che vieta di oltrepassare il reef. 

 

 

 

 

Ne Gli incredibili 2, sia il ruolo da protagonista che quello di villain passano in mani femminili.

 

Se nel primo film era evidentemente Mr. Incredibile il vero attore principale, la cui voglia spasmodica di tornare a vestire i panni di supereroe fungeva da motore narrativo, nel sequel del 2018 è sua moglie Elastic Girl a rubare la scena a tutti e a diventare l’immagine simbolo della nuova campagna pro-supereroi, ribaltando allo stesso tempo gli stereotipi familiari.

 

E ancora, nel recente Ralph Spacca Internet la piccola Vanellope sceglie di seguire i propri sogni decidendo di prolungare la sua permanenza nel pericoloso ma stimolante mondo del web, accanto al suo nuovo idolo Shank, piuttosto che accontentarsi di tornare alla propria vita monotona della sala giochi.

 

 

 

 

Una decisione presa anche al costo di fare dei sacrifici, come l’allontanamento dal suo amico Ralph - quest’ultimo relegato a ruolo secondario anche nelle dinamiche della storia.

 

Ed è assolutamente spassoso il modo in cui vengono dipinte le storiche principesse Disney con cui Vanellope entra in contatto, da Cenerentola a Biancaneve, da Aurora a Belle, finalmente spogliate del loro essere regali e impostate, in piena linea con i tempi correnti.

 

Captain Marvel, Gli Incredibili 2, il nuovo ciclo di Star Wars e tutte le altre recenti produzioni disneyane ci dicono e soprattutto ci mostrano questo: che è assolutamente normale e necessario che una donna sia in grado di avere superpoteri e salvare l’umanità, esattamente come l’ha sempre fatto un uomo con un mantello; che è assolutamente normale e necessario che una donna possa diventare una brava guerriera e combattere con le spade laser, esattamente come gli uomini che l’hanno preceduta...

 

Che è assolutamente normale e necessario che una donna possa essere occupata a compiere missioni pericolose in sella a una moto lasciando il marito a casa a occuparsi della casa e dei figli; che è assolutamente normale e necessario che una donna possa sacrificare la propria vita per il bene collettivo, ribaltando un topos cinematografico e letterario da sempre scolpito nella pietra (quello del personaggio maschile che muore per il bene della sua amata o della sua terra).

 

Che è assolutamente normale e necessario che una donna possa commettere errori e rinascere dagli stessi; che è assolutamente normale e necessario che una donna possa essere una principessa, pur senza avere al proprio fianco un principe da baciare.

 

E che, in definitiva, tutto questo sia possibile proprio perché rientra nell’assoluta normalità, nell’ordinario.

Che non debba costituire un’eccezione che faccia storcere il naso, ma che venga mostrata come se fosse una naturale tradizione, esattamente come quando a interpretare i ruoli sopracitati siano personaggi maschili, senza alcuna differenza. 

 

 

 

 

Le eroine di casa Disney non compiono le proprie azioni come rivalsa sul mondo maschile o perché sentono inconsciamente il bisogno di dover dimostrare qualcosa a qualcuno, ma perché molto semplicemente scelgono di farlo.

 

Perché hanno le medesime possibilità.

Ed è questo fatto che rende il femminismo di casa Disney qualcosa di necessario e di utile, che abbatte i cliché, ristabilisce la parità di genere e contribuisce a creare nuovi immaginari collettivi al centro dei quali non vi sono uomini e donne, ma solo personaggi i cui veri attributi peculiari non risiedono nell’aspetto fisico o nella razza, bensì nella propria emancipazione definitiva.

 

Un’emancipazione narrativa che non passa attraverso la propaganda ma attraverso l’esasperazione della normalità, che diventa quindi la migliore arma della donna per combattere disuguaglianze e discriminazioni, perché implica il compimento di certe azioni e l’adozione di certi atteggiamenti senza che questi la facciano dubitare della loro effettiva legittimità o le impongano un timore reverenziale.

 

Che il nuovo, palese copione femminocentrico della Disney piaccia o meno, è assolutamente fuori di dubbio che queste protagoniste, nelle logiche dei vari film, non compiano azioni eroiche perché sentono il peso della loro condizione sociale: semplicemente non ci pensano, lo fanno e basta, senza pensare di essere giudicate in alcun modo. 

 

 

 

 

Il compierle senza la preoccupazione che le suddette fossero o meno parte di una scelta programmatica le rende autentiche, spinge una ragazzina dodicenne a guardare con occhi sognanti il luminoso costume rosso e blu di Captain Marvel, desiderando di voler diventare come lei da grande, e aiuta a trasmettere il fondamentale messaggio di fondo che nella vita una donna debba essere messa nelle condizioni di fare ed essere ciò che vuole, libera da vincoli e schemi mentali.

 

Tutti questi personaggi femminili sono accomunati dalla comune volontà di emergere, portare il proprio contributo al mondo, realizzare i propri desideri, indipendentemente dal loro essere donne. 

 

La ridefinizione delle eroine di casa Disney si compie dunque in questo modo, nel dover e voler essere indipendenti da una controparte maschile solo per mere esigenze narrative, mai per fini politici o propagandistici.

Ed è in questo senso che l’evoluzione identitaria femminile si compie nel modo più armonioso e naturale possibile, senza alcuna stonatura o forzatura. 

 

 

 

 

In definitiva, Carol Danvers, Judy Hopps, Vaiana, Rey, Vanellope, Elastic Girl, Jyn Erso non sono donne che hanno bisogno di gridare o agitarsi per lanciare un certo messaggio, che si sforzano di recitare una parte che non appartiene loro con il solo intento di far crollare dei dogmi o che cercano il riscatto contro gli uomini e l’ingiusta cultura maschilista, ma sono eroine, ognuna a suo modo, protagoniste della loro vita e del loro film.

 

E prima di ogni altra cosa, sono sé stesse. 

 

La vittoria più grande.

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