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Giù la testa, ovvero la rivoluzione come favola politica

Cinquant’anni fa usciva in sala Giù la testa, il film più politico di Sergio Leone

La genesi di Giù la testa è tumultuosa tanto quanto il contesto storico di cui è figlia.

 

Correva l’anno 1968 e, dopo l’uscita di C’era una volta il West, Sergio Leone non solo iniziava a disamorarsi di quel genere cinematografico che era riuscito a reinventare non una, bensì due volte, e cominciava persino a pensare di lasciare definitivamente il suo posto dietro la macchina da presa. 

 

Questo era dovuto in parte all’estrema inflazione della produzione di western italiani nati sulle orme del trionfo di Per un pugno di dollari (duecentoquaranta titoli in soli quattro anni!) e in altra parte al desiderio di dedicarsi finalmente a quel maestoso progetto che sarebbe sfociato poi in C’era una volta in America

 

 

[Da sinistra a destra: Henry Fonda, Claudia Cardinale, Sergio Leone, Charles Bronson e Jason Robards sul set di C'era una volta il West]

 

 

Si trattava di un anno cruciale in un periodo storico pregno di ideologie politiche, rivolte sociali, lotte di classe, scontri armati e il Cinema "impegnato" si imponeva inevitabilmente anche nelle rappresentazioni popolari.

 

Il dibattito politico infatti veniva introdotto nel genere western, dando vita così a tutto un nuovo filone di film italiani.

 Giù la testa

Il regista romano, se da un lato non si era mai interessato attivamente di politica e voleva prendere le distanze dal Cinema engagé e dai neonati western politici, dall’altro pensava che i recenti sviluppi politico-sociali italiani ed europei avessero comunque bisogno di acquisire una voce attraverso un piano artistico. 

  Giù la testa

Così la Rafran, la casa di produzione che aveva fondato anni prima, acquistava un trattamento cinematografico chiamato Mexico riguardante un bandito rivoluzionario disilluso.

  Giù la testa

La composizione veniva sviluppata dal fido Sergio Donati (sceneggiatore-ombra degli ultimi due capitoli della Trilogia del Dollaro e ufficiale di C’era una volta il West) e successivamente dall’amico Luciano Vincenzoni (compagno di scrittura di Leone per il suo secondo e terzo film) nella sua forma finale: in un Messico travolto dai tentativi da parte del Generale Victoriano Huerta di sedare la rivoluzione, un contadino con tendenze anarchiche incontra un rivoluzionario irlandese appartenuto all’IRA, il quale usa il primo per i suoi fini.

 

 

[Da sinistra a destra, dietro al motto zapatista "Terra e Libertà": Emiliano Zapata, Felipe Carrillo Puerto e José Guadalupe Rodríquez, eroi della rivoluzione ritratti in un dettaglio del murale La historia de México di Diego Rivera]

 

 

Nonostante stesse nascendo qualcosa di molto intrigante, il regista continuava a pensare di seguire tutto il progetto di Giù la testa come produttore, avendo raccolto tra i finanziatori anche la United Artist.

  Giù la testa

Tuttavia, le cose non andarono come sperava: i rapporti con la persona individuata per girare il film, l’ex critico cinematografico ed esordiente regista Peter Bogdanovich, non erano proprio idilliaci e fu costretto a virare sul suo amico Sam Peckinpah, il quale però rifiutò. 

  Giù la testa

Rod Steiger e James Coburn, gli attori scelti per interpretare i due personaggi principali, affermavano che avrebbero recitato solo a condizione di essere diretti da Sergio Leone e che per questo sarebbero stati disposti anche a percepire un terzo del cachet pattuito.

Il tutto a poche settimane dall’inizio delle riprese, ovviamente. 

  Giù la testa

Leone accettò malgré lui e tutto il resto è Storia.

 

 

[Rod Steiger, James Coburn e Sergio Leone sul set del film]

 

 

In Giù la testa il processo di crescita narrativa già cominciato con l’opera precedente giunge a un livello ancora superiore, perché compie quel passo che nella filmografia del cineasta romano non si era ancora verificato: un collegamento tra attualità e realismo, un passaggio dal mito alla Storia. 

  Giù la testa

Per la prima volta, infatti, la sceneggiatura di un film di Leone non solo supera i confini spaziali rispetto agli altri suoi lavori passati (le scene sono ambientate in Messico e in minima parte in Irlanda) ma anche quelli temporali (le vicende si svolgono nel 1913).

Al fine di valorizzare al meglio questa estensione di prospettive, vengono utilizzati molto i campi lunghi in modo tale da trasmettere tutta la coralità delle azioni e designare chiaramente il contesto rivoluzionario. 

  Giù la testa

Così facendo, il regista conduce questo nuovo orizzonte estetico a un grado più elevato, che approfondirà poi maggiormente nell’ultima sua opera-testamento.

 

Anche in Giù la testa, come già in C’era una volta il West, si ricorre nuovamente all’uso dell’analessi come procedimento affabulatorio che legittima - non a caso - la definizione della “Trilogia del Tempo”.

 Giù la testa

In ambedue i casi, infatti, questa componente è estremamente interessante e funzionale ai fini del linguaggio filmico. 

 

 

[John "Seán" H. Mallory (James Coburn) e Juan Miranda (Rod Steiger)]

 

 

Da un punto di vista tematico, Sergio Leone mette subito in chiaro dalla prima scena che il taglio dell’opera rispecchia uno degli elementi principali della sua intera filmografia.

Giù la testa

La pellicola si apre con la famosa citazione (abbreviata per ragioni artistiche) di Mao Tse-tung in maiuscolo su sfondo nero: 

 Giù la testa

“La rivoluzione 

non è un pranzo di gala,

non è una festa letteraria, 

non è un disegno, un ricamo, 

non si può fare con tanta eleganza, 

con tanta serenità e delicatezza, 

con tanta grazia e cortesia.

La rivoluzione è un atto di violenza.”

 

Dopo l’ultimo stacco la macchina da presa inquadra una colonia di formiche sul tronco di un albero venire spazzata via da una forte minzione che proviene da fuori campo. 

 

La rivoluzione è un atto di violenza, perché violenta è l’oppressione che la scatena. 

 

 

 

Nella scena successiva il contesto storico-sociale in cui la vicenda è sviluppata si fa sempre più definito, ma anche il messaggio del regista. 

 

Vediamo infatti Juan Miranda (Rod Steiger) che dopo aver orinato sulle formiche ferma una carovana per chiedere un passaggio.

Viene fatto salire e, messo in disparte, è costretto a subire in silenzio tutti gli insulti e gli scherni da parte degli altri passeggeri: un cardinale, un uomo d’affari, un avvocato, un proprietario terriero e sua moglie.

 

La crème de la crème della borghesia dell’epoca, insomma. 

 

Questa galleria di preconcetti e derisioni viene rappresentata con un montaggio di primi piani e ributtanti particolari di bocche intente a ingozzarsi o a prodursi in espressioni ambigue, evidenziando la stessa brutalità che le loro insinuazioni ascrivevano a Juan e ai peones in generale.

Poco dopo, il protagonista avrà la sua - alquanto violenta - vendetta su ciascuno degli altri viaggiatori.

 Giù la testa

Anche in questo caso l’intento di Leone è chiaro: la scena in questione può essere perfettamente intesa come una difesa degli ultimi e, allo stesso tempo, una critica all’arroganza e la crudeltà di uno spaccato di classe sociale lontano anni luce dalla base produttiva del paese e dalla sua condizione sociale, soprattutto su un piano umano. 

 

 

 

Non solo, perché in Giù la testa il regista ha voluto inserire anche dei toni decisamente antibellici.

Giù la testa

Sono presenti infatti nessi palesi con i due conflitti mondiali, che vengono presi come paradigmi universali delle atrocità sofferte dall’essere umano: il governatore Don Jaime che fugge come il Re Vittorio Emanuele III il 9 settembre 1943; il Colonnello Günther Reza raffigurato come un militare nazista; le grotte di San Isidro dove vengono massacrati civili messicani simili alle cave delle Fosse Ardeatine; la somiglianza con Benito Mussolini del soldato che si traveste da prete per scappare ma che viene alla fine fucilato. 

 

Tuttavia, Leone dichiarò che l’obiettivo narrativo principale della pellicola è il tema a lui molto caro dell’amicizia.

 

Questo viene narrato attraverso una parabola simile a quella del Pigmalione - ma al contrario - tra Juan Miranda e John “Seán” H. Mallory (James Coburn): il primo è un campesino sempliciotto, zotico, furbo, abile nell’uso delle armi e arraffone; il secondo è un intellettuale dinamitardo idealista ma disilluso con un passato doloroso che torna ineluttabilmente a influenzargli il presente. 

 

I due prima bisticciano, poi si alleano per utilizzarsi vicendevolmente per i propri interessi e infine diventano amici, ma sarà il personaggio semplice a insegnare qualcosa di estremamente importante all’intellettuale. 

 

 

[Il primo esplosivo incontro tra John e Juan: "Giù la testa, coglione!"]

 

Juan è una maschera burlesca: estremamente loquace, si segna prima di uccidere, blasfemo, avido, ingordo e senza nessun freno sessuale.

 

Stando a stretto contatto con Seán, però, il suo comportamento muta.

Dopo l’evento più tragico del film che lo riguarda direttamente, diventa meno materialista e più coscienzioso. 

 

La figura di Juan, nonostante all’inizio del film abbia tutte le caratteristiche del classico antieroe leoniano, con il progredire della vicenda diventa più articolata.

Quando l’unica cosa in cui crede davvero viene meno, il personaggio si trasforma - un altro primato nella cinematografia di Leone - da stereotipo carnevalesco a persona a 360°.

 

Allo stesso tempo, anche il personaggio di Seán subisce uno sviluppo significativo.

 

L’irlandese è un rivoluzionario disilluso (“Quando ho cominciato a usare la dinamite, allora credevo anch'io in tante cose... in tutte, e ho finito per credere solo nella dinamite”) che beve e si droga, probabilmente per dimenticare le cocenti e dolorose delusioni di un passato che scopriamo in maniera frammentata - ma annodata fermamente alla trama primaria - grazie a una serie di flashback riguardanti la sua vita in Irlanda. 

 

 

[Uno dei flashback che mostrano il passato di John, o meglio Seán]

 

Queste sequenze presentano allo spettatore il rapporto con un amico rivoluzionario la cui fine rappresenta la sua presenza in Messico, ma che sarà la chiave della sua nuova amicizia con Juan.

 

Inoltre, nell’ultimo di questi scorci - quello poco precedente al finale - torna la donna presente nei primi ricordi, ma questa volta viene abbracciata e baciata da entrambi: una rappresentazione allegorica della rivoluzione alla quale tutti vogliono aderire. 

 

Seán manovra e inganna Juan per quasi tutta la durata del film fino a che le sue azioni non portano a conseguenze tragiche, che lo costringono a realizzare qualcosa di ormai dimenticato: provare emozioni che non sentiva da tempo e a tornare a credere in un valore che ormai credeva perduto.

 

Poco prima del finale si confessa e si pente con il suo nuovo compare: “amico mio, che grossa fregatura che t’ho dato…”

 

Nonostante la loro mutevole e complicata relazione con la rivoluzione, i due protagonisti rispecchiano due volti dello stesso personaggio: il contrasto interiore che caratterizza ogni essere umano tra azione e ignavia, tra il coraggio e la paura, tra l’ideale e la realtà. 

 

 

[La scena finale]

 Giù la testa

Leone non cade in posizioni faziose e introduce anche in Giù la testa la sua immancabile prospettiva pessimista con tratti nichilistici.

 

Per questo motivo il regista volle aggiungere una scena al copione in cui l’ignorante Juan impartisce una lezione a John sulle conseguenze della rivoluzione. 

 

Ne esce un convincente monologo da parte di Rod Steiger in cui viene sottratta tutta la poesia all’idea romantica di rivoluzione a favore di una visione disillusa e cinica della sua sterilità e fuggevolezza (non a caso il titolo originale sarebbe dovuto essere C’era una volta la rivoluzione).

 

“Rivoluzione? Rivoluzione?

Per favore, non parlarmi tu di rivoluzioni.

 

Io so benissimo cosa sono e come cominciano: c'è qualcuno che sa leggere i libri che va da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dice: "Oh, oh, è venuto il momento di cambiare tutto" [...]

 

Io so quello che dico, ci son cresciuto in mezzo, alle rivoluzioni. Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: "Qui ci vuole un cambiamento!" e la povera gente fa il cambiamento.

E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo, e parlano, parlano, e mangiano.

Parlano e mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera gente?

Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Per favore, non parlarmi più di rivoluzione...

 

E porca troia, lo sai che succede dopo? Niente... tutto torna come prima!”

 

 

 

Con Giù la testa Sergio Leone mostra dunque in maniera diretta le due facce della medaglia della rivoluzione.

 

Da una parte quella più struggente, attraverso una violenta requisitoria contro tutte le soverchierie a discapito degli oppressi e contro un’ottica classista della società: un trattato quasi filosofico sulla convinzione che sia davvero possibile migliorare i cardini della società.

Dall’altra quella più "disincantata", che determina la fine delle illusioni: quella in cui si realizza che quella stessa convinzione di cui sopra è piuttosto ingannevole. 

 Giù la testa

Attraverso una costruzione narrativa incisiva che sia avvia con toni eroicomici per poi diventare drammatici e seri e un’ironia amara ma acuta, Giù la testa si rivela quindi una mesta riflessione sulla brutalità della guerra, sulla disumanità delle diseguaglianze sociali, sul tradimento dei valori come l'amicizia, sul costo della realizzazione dei propri ideali.

 

Sull’ingiustizia della vita.

 Giù la testa

Un penetrante disincanto raccontato attraverso una favola politica che vorremmo ascoltare ogni giorno, ma la cui dura morale ci lascia storditi proprio come dopo una gigantesca esplosione di dinamite.     

 

[articolo a cura di Jacopo Troise]

 

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