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Il sol dell'avvenire - Recensione: voglio vederti sognare

A 25 anni da Aprile, Nanni Moretti si rimette sotto l'occhio di bue e lo allarga 

1998: in Aprile Nanni Moretti fa i conti con la paternità incombente e con l'alba della stagione berlusconiana, dopo le macerie di Tangentopoli e i fasti dell'autobiografismo di Caro diario. 

 

Privato e pubblico lì passavano per un filtro tendente al documentarismo che, invero, si nutriva proprio dei lampi narrativi e stilistici della finzione tradizionale, in riferimento tanto a un film in costume da realizzare quanto a un'autoriflessività nevrotica, tipica delle prime prove del regista. 

 

Ne Il sol dell'avvenire, venticinque anni più tardi e dopo sei lungometraggi piuttosto divergenti, Nanni Moretti si guarda ancora allo specchio e (di riflesso?) illumina un pensiero che si spande veloce - come anticipa il titolo - in più direzioni temporali e politiche.

 

[Il trailer de Il sol dell'avvenire]

 

 

Si ripresentano volti, luoghi, tic e si ripresenta anche, più pressante, la tormentata questione delle possibili letture ideologiche del Moretti più autoriferito, che certo non può coinvolgere direttamente - nonostante si rimanga nel pubblico - le prese di posizione extra-cinematografiche e che, in primo luogo, riguarda invece la discorsività estetica.

 

Su questo versante, il confronto politico ed estetico con il concetto di riflusso rimane percorribile, posti il variare del contesto e delle risposte morettiane.

 

Il rapporto con il reale delineato in Aprile lascia spazio al sovrapporsi di tre piani inequivocabilmente finzionali, nel segno di un metalinguismo ora esplicito ora implicito che guarda a Federico Fellini: Nanni interpreta il regista Giovanni, non l'omonimo psicanalista de La stanza del figlio, non Michele Apicella, non Nanni; Margherita Buy impersona la moglie Paola, che non ha fatto il classico come l'omonima di La stanza del figlio, non una delle Silvie delle prime tre pellicole, non Silvia Nono (che peraltro fa una breve comparsa).

 

Nanni (quello nel film) commentava e documentava le tornate elettorali post-PCI del '94 e del '96, Giovanni lavora sulle reazioni del partito alla rivoluzione ungherese del '56 attraverso un film in costume, probabilmente intitolato Il sol dell'avvenire; Nanni si concentrava su un evento extra-cinematografico come la nascita del figlio Pietro, Nanni (non quello nel film) colloca Giovanni nei pressi del già frequentato dramma borghese; Nanni sognava di fare un musical su un pasticcere trozkista sul modello di Jacques Demy - richiamato in quest'occasione, come Trotzkij -, Giovanni sogna letteralmente frammenti del percorso di una coppia che vediamo per la prima volta insieme a (e davanti a) un'altra visione, quella del dolente finale de La dolce vita in cui Marcello Mastroianni/Marcello Rubini e Valeria Ciangottini/Paola (!) possono solo non capirsi.

 

A dispetto di un avvio in cui la segmentazione parrebbe rigida, i tre livelli interagiscono stratificando ogni fotogramma tramite un gioco di rimandi che opera anzitutto sul piano della temporalità; pur con simili premesse, Il sol dell'avvenire evita tuttavia di imbastire un discorso intellettualistico che appesantisca le dinamiche moderniste (centrate sullo svelamento della finzione) del metacinema.

 

Visto il protagonismo di Moretti sia davanti che dietro la cinepresa - specie in relazione al montaggio curato da Angelo Nicolini - Aprile metteva paradossalmente più in rilievo il taglio soggettivistico proprio accostando il documentario; abbandonandosi senza schematismi al metacinema assorbito dalla finzione, adesso Moretti si interroga ancora più consapevolmente su di sé, sul Cinema e sulla Storia. 

 

 

[Un frame da Il sol dell'avvenire]

 

 

Lungi dal coesistere equilibratamente fin dal principio, le tre componenti finiscono per intrecciarsi con una sorprendente leggerezza in un disegno che mina a più riprese la linearità del film-nel-film e del dramma borghese, con delle discontinuità che - soprattutto sul versante sentimentale - rischiano talvolta di determinare scene sovraccariche; la relazione con la finzionalità, peraltro, è direttamente affrontata in un dialogo dedicato al metodo di direzione degli attori di John Cassavetes.

 

Ne Il sol dell'avvenire il sé è messo in questione in maniera diegeticamente meno monologica, con il rapporto tra Giovanni e la moglie che guadagna in verosimiglianza e si risolve scansando le convenzioni del dramma borghese nei termini della gestione emotiva, dei personaggi e degli spettatori. 

In merito a ciò sono da segnalare anche gli sfuggenti accenni al tema materno e il fatto che il tema della psicanalisi sia assegnato nettamente solo a Paola, come ben sottolinea il montaggio. 

 

Il Cinema diventa oggetto di considerazioni manifeste in più frangenti, con Moretti che al di là della cinefilia e del citazionismo è ancora più didascalico nell'esprimere le proprie convinzioni: il simpatico siparietto in cui Giovanni blocca temporaneamente le riprese di una scena violenta mentre visita un set è indicativo, tanto quanto indicativa è la carrellata che poi lo accompagna mentre si allontana.

 

Il didascalismo e il moralismo si rendono talmente dichiarati da smontarsi e rimontarsi ciclicamente: entrambi cifre caratteristiche del morettismo maggiormente egoriferito, non fanno presa sul mondo come un tempo. 

Di ciò Moretti è ben conscio, ma il commento incrociato che anticipa possibili critiche o interrogazioni non è un tentativo di sottrarvisi furbescamente, di rendere ermetica la galassia della finzione.

 

Nell'era dei monopattini elettrici, il faccia a faccia con il presente - talvolta troppo semplificato - non è solo l'occasione per imporre filtri ormai datati, magari con la bizzarra tracotanza degli inizi; i nuovi stimoli rivelano debolezze nuove e vecchie, rendendo il film uno degli sforzi più umanisti dell'autore. 

Su queste basi può davvero innescarsi un percorso che ha qualcosa di autenticamente trasformativo, che attenua quell'hybris e che illumina meno artificiosamente le crepe, nonostante rimangano i tratti più riconoscibili di Moretti. 

 

In questo solco, il film ricco di canzoni italiane che Giovanni vorrebbe realizzare (e che viene realizzato da Nanni con Il sol dell'avvenire) intercetta per certi versi la scivolosa nozione di nazional-popolare coniata da Antonio Gramsci, a cui è peraltro dedicata la sezione del PCI del film-nel-film; e questa scelta, nè naif nè senile, acquisisce valore visto l'intervento circense (senza che ciò crei un distacco straniante) in un quadro che, nonostante tutto, rimane intimamente autoriflessivo.

 

 

[Un frame da Il sol dell'avvenire]

 

Così com'è affrontata, è però anche la Storia ad alimentare quel nodo privato/pubblico che fa capolino appena può e ad articolare in profondità, nelle profondità di un susseguirsi non-spaziale di piscine pubbliche, il ragionamento politico e temporale. 

 

Se il team di Netflix boccia la sceneggiatura del film-nel-film viste le deviazioni rispetto agli standard della piattaforma, un'entusiasta produttrice sudcoreana ne rinviene il fulcro concettuale in quella "fine di tutto quanto" che sembra anticipare e riecheggiare la controversa "fine della storia" teorizzata dal politologo Francis Fukuyama. 

In un Occidente piegato al neoliberismo, parlare di fine significa cristallizzare e ammantare lo status quo di una coltre di immutabilità spesso declinata in disillusione, anche e soprattutto nei soggetti politicamente divergenti.

 

Moretti coglie la palla al balzo e ne Il sol dell'avvenire dirige gli sforzi verso una dinamica che, subdolamente, costituisce il perno del frame (nel senso dato al termine da George Lakoff) entro cui si muovono molte delle ideologie correnti; insieme parla della propria fine, affianca idealmente il siparietto summenzionato al finale che Giovanni ha scritto per il film-nel-film e che tutti trovano straordinariamente adatto. 

La partita può passare solo per una riapertura del passato e una riapertura del futuro che, in fin dei conti, devono convergere per rendere significativo il presente, inteso come spazio d'azione che trovi innanzitutto in sé stesso il proprio fine: in questo, il discorso di Moretti va sicuramente vagliato con attenzione. 

 

Anche se qua e là parrebbe affiorare un certo passatismo, la carica ideologica si fonda sulla relazione che la finzione di Giovanni intrattiene con gli eventi del 1956 e sul cartello conclusivo: oltre a sostanziare un'opinione personale, la molteplice riscrittura della Storia - tema estremamente contemporaneo, come il rapporto tra PCI e rivolta ungherese - cerca, guardando indietro, di vivere dei raggi del sole dell'avvenire.

 

 

[Un frame da Il sol dell'avvenire]

 

 

Rimane tuttavia da domandarsi se l'ucronia morettiana raccolga quanto di retrivo e consolatorio risiede nella nozione di utopia (non-luogo) o se, al contrario o al contempo, essa possieda qualcosa della forza inquietante delle eterotopie definite da Michel Foucault, che "devastano anzi tempo la «sintassi» […] che fa «tenere insieme» le parole e le cose" e che, conseguentemente, corrodono un'ovvietà che è sempre ideologicamente connotata. 

 

Le condizioni poste dal filosofo francese o, in chiave esplicitamente estetica, dal collega Jacques Rancière non sono del tutto soddisfatte, qui il lavoro della finzione risulta a livello diegetico abbastanza neutralizzato; eppure, scavalcate le cornici, la dimensione favolistica che ben si lega alle incursioni musical(i) guadagna qualcosa alla luce della prospettiva autocritica. 

Ne Il sol dell'avvenire la ricerca strettamente formale è piuttosto contenuta, anche se la generale linearità delle scelte fotografiche non deve ingannare, ma il convocare più fasi del pensiero estetico di Moretti e il suo contemporaneo reinstallarsi in posizione centrale rendono palese, una volta per tutte, quanto - in campo non solo artistico - la distinzione tra privato e pubblico non sia univoca.

 

Stratificato com'è, l'ucronico Il sol dell'avvenire agisce in primo luogo in maniera eterotopica andando a lavorare proprio sulla trama che le precedenti opere erano andate a comporre, nel segno di un orizzonte intertestuale che, soprattutto nel caso di Moretti, si allarga a dismisura.

 

Paola - tra Buy e Ciangottini - e il cambiare dei tempi, cinematografici e socio-politici, sono (tra) ciò che costringe a riaprire passato e futuro in un modo che scarta il soggettivismo più deteriore. 

Da qui può germogliare altro, dal ricollocarsi nel presente senza dominarlo e anzi, offrendo le tracce di un simile tentativo (evitando l'irraggiungibilità teleologica di alcuni soli dell'avvenire): sono le spinte eccentriche a spiegare, senza necessariamente indebolirlo, il reinstallarsi al centro. 

 

I raggi partono da lì e lì nasce un commovente umanismo, che non vive di luce riflessa ma trova e crea ovunque l'avvenire. 

 

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