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Nope - Recensione: a nostra immagine e somiglianza

Recensione di Nope, terzo film diretto da Jordan Peele

Nope, in italiano "No".

A chi o a che cosa è rivolto l’enigmatico titolo del terzo lungometraggio di Jordan Peele

 

Il regista afroamericano è l’autore della rinascita del Cinema horror statunitense più attento nell'indagare attraverso il genere le condizioni socio-culturali del nostro tempo.

 

Il suo fulminante esordio Scappa - Get Out catturava perfettamente il periodo dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, mentre due anni più tardi Noi ne mostrava le conseguenze.

 

Con Nope Jordan Peele triplica il budget del suo precedente film (68 milioni di dollari contro 20) e di conseguenza l’ambizione, puntando più in alto. 

 

Guardando più in alto. 

 

 [Il trailer di Nope]

 

 

Siamo alla Haywood Hollywood Horses, azienda specializzata nell’addestrare cavalli per l’industria cinematografica.

 

O.J. (Daniel Kaluuya) e sua sorella Emerald (Keke Palmer) stanno vendendo tutto il loro bestiame a Jupe (Steven Yeun), ex star di una sitcom televisiva e ora proprietario di un parco di divertimenti western. 

 

Nonostante il passato glorioso della Haywood Hollywood Horses dovuto al loro trisavolo - fu il fantino delle famose fotografie di Eadweard Muybridge, praticamente la nascita del Cinema - i due fratelli dopo la misteriosa morte del padre non riescono a mantenere la propria attività.

La scoperta di qualcosa di ultraterreno però dà loro l'opportunità di svoltare, di mostrare per la prima volta con “l’inquadratura da mandare in onda da Oprah” l’esistenza di qualcosa su cui l'umanità si fa domande da secoli. 

 

Inquadrare e far vedere “L’impossibile” a un pubblico che si nutre di immagini per essere considerati.

 

Jordan Peele con Nope parte dal mondo pre-Cinema per analizzare la società dei consumi che ha sempre avuto bisogno di nuovi stimoli di cui nutrirsi, di appropriarsi di nuove forme culturali come un predatore che deve espandere il proprio territorio.

 

 

[Con Nope, Daniel Kaluuya arriva alla seconda collaborazione con Jordan Peele]

 

Non è un caso che il protagonista si chiami O.J. - aspetto sottolineato da una linea di dialogo - ovvero il nome di O.J. Simpson, uno degli afroamericani che più ha cercato di vendersi allo show business prettamente bianco, di darsi in pasto alla società dello spettacolo che prima lo ha accolto come un dio, per poi rigurgitarlo (a tal proposito consiglio la visione della docu-serie O.J.: Made in America).  

 

Il Nope categorico di Peele è rivolto proprio a questo aspetto: basta continuare a guardare indiscriminatamente ogni tipo di immagine, basta ingurgitare con banchetti pantagruelici ogni cosa che ci viene mostrata, basta alimentare questo meccanismo che passa da preda a predatore finendo poi per espellere e perciò dimenticare la maggior parte di quello che vediamo, senza capire la differenza tra reale e falso, tra un pupazzo e una persona in carne e ossa. 

 

La presenza di Nope infatti è in realtà un superocchio (siamo noi?) che cattura chi lo osserva, chi non riesce a smettere di guardare, il cacciatore ultimo di una società sempre più orientata verso un feroce voyeurismo. 

 

L’evoluzione diretta della scimmia Gordy protagonista della sitcom con Jupe che a un tratto smette di comportarsi come previsto, tranne che con il piccolo attore perché anche lui è sottoposto allo stesso trattamento di Gordy, essendo simbolo del diverso (l’origine è sudcoreana) agli occhi del cast composto da soli bianchi: un’immagine da inglobare.

 

 



L’autore afroamericano utilizza prima di tutto la Storia del Cinema per riflettere su questo, partendo con una falsa storia su Eadweard Muybridge - appropriandosi perciò della prima immagine in movimento - passando da King Kong (la scimmia Gordy) fino ad arrivare a Steven Spielberg, toccando Lo squaloIncontri ravvicinati del terzo tipo e Jurassic Park.

 

Nope caldeggia l’horror per la maggior parte della sua durata attraverso il fuori campo - seguendo le lezioni del Cinema di Spielberg - creando un cortocircuito nella testa degli spettatori che non possono smettere di guardare il film per scoprire cosa si celi dietro l’ignoto (in questo caso vale il consiglio di Adam McKay: Don’t look up).

 

Jordan Peele però l'orrore lo corteggia e basta, interessato più a creare un Cinema che guarda alla fantascienza e al western, servendo un’opera autoriale di intrattenimento che non ha paura di ragionare sulle immagini attraverso di esse.

 

 

[La fotografia di Nope è curata da Hoyte van Hoytema, già DoP per Christopher Nolan in film come Interstellar e Dunkirk]

 

Una riflessione sul tempo e sui tempi che stiamo vivendo, uno scontro tra analogico e digitale dove cambia la tecnologia ma non la nostra smania nel trovare l’inquadratura perfetta anche a costo di morire. 

 

Nope è una metafora spietata sull’industria dell’intrattenimento e sullo sfruttamento del diverso, dove anche chi era innocente finisce per diventare parte del sistema, cercando a tutti i costi di catturare un predatore più grande di lui.

 

Un racconto circolare che si apre e si chiude con un uomo afroamericano a cavallo, un viaggio nella Storia del Cinema che non smetterà di parlare di noi perché si nutre della nostra stessa natura, delle nostre stesse immagini.

 

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2 commenti

Emanuele Antolini

1 anno fa

Grazie Andrea, in effetti è stato piuttosto difficile

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Terry Miller

1 anno fa

Purtroppo non ho fatto in tempo a vederlo al cinema, perché tutte le sale nella mia zona lo hanno già tolto. Peccato perché mi interessa molto. Vuol dire che prima che esca in home video/streaming guarderò gli altri film di Peele

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